Dopo la visita di Mia cerco di non pensare a Iris, ma quando ci si sforza di non pensare a qualcosa di solito si finisce per averlo in mente ancora di più. Oggi è il compleanno di Iris. Iris è morta. Io sono viva.
E…
Penso alle tre lame di rasoio che ho rubato nascondendole tra i capelli, ma che finora sono riuscita a evitare di usare. Penso ad altri modi per andarsene, ma gli ospedali per gli aspiranti suicidi valutano attentamente quel tipo di cose. Tende che non si possono legare, maniglie che non si possono usare per legarci un cappio, vasche da bagno, lavandini, finestre che non si aprono come quelle normali. Le opzioni per morire sono limitate. Sospiro.
E poi capisco che cosa farò. Con le dita sfioro la pelle malconcia del mio avambraccio sinistro, tracciando la lunga linea blu che arriva fino al pollice. È lievemente sporgente. Vado in bagno. Apro il rubinetto, continuando a premere l’interruttore ogni venti secondi quando il flusso si spegne automaticamente. Dai jeans estraggo le tre lamette, nuove di zecca.
Non mi hanno perquisito in maniera abbastanza scrupolosa. Le ho nascoste sul bastone magnetico che sorregge le tende della mia stanza e in un sacco di altri posti diversi.
Ho vinto.
Mi incido tre sottili graffi sulla coscia, guardo quale fa uscire più sangue. Una specie di esperimento. Scelgo la seconda, con un’acuminata sensazione di paura in agguato nello stomaco. Sono spaventata. Ho paura di non riuscirci, ho paura di farcela, ho paura del casino che mi lascerò alle spalle.
E ho i palmi sudati e il cuore che battendo mi traccia un folle tatuaggio contro le costole. Lentamente, inizio a spogliarmi.
Nuda, vado nel punto in cui tutti lasciano i prodotti per lavarsi il corpo. Non dovremmo lasciarli in giro, ma lo facciamo lo stesso. Scelgo un bagnoschiuma per bambini. Non so di chi sia, ma il profumo mi ricorda un’epoca di bagni infantili, spensierati, con le paperelle di gomma. Ne spruzzo una quantità generosa in una vasca e lo faccio vorticare, osservandone il colore ambrato che si dissolve nel nulla.
Dovrei fermarmi?
Non è troppo tardi.
Sì che lo è. L’hai uccisa, l’hai uccisa.
Scivolo nella vasca, stringendo la piccola lama. Per qualche minuto rimango lì, ad ascoltare il mio respiro affannoso, a inalare il profumo del bagnoschiuma, pensando al triangolo pensiero-sensazione-comportamento. Cercando di metterlo insieme. Ovviamente non credo che importi, adesso.
Un’infermiera bussa alla porta. «Sto solo facendo un giro di controllo, Tamar, tutto a posto lì?»
«Sì, sto bene, mi sto solo facendo un bagno, tutto qui.»
Allungo il braccio di fronte a me e premo la lama contro la pelle, tagliandola. La osservo aprirsi, con il sangue che inizia a colare. Impreco. Non è un taglio abbastanza profondo. Non smetto di pensare. Dovrei smetterla di pensare.
E di colpo sono furiosa, squarcio, incido selvaggiamente più a fondo, più a fondo in questo corpo indegno, l’odio per me stessa si riversa fuori mentre mi distendo nella vasca. Sono malvagia. Finché, tutto a un tratto, il sangue mi schizza in faccia, denso e scuro, uno spruzzo per ogni battito, uno per ogni errore, mi resta sulle ciglia, ne sento il profumo metallico in bocca e grido, grido e il sangue continua a uscire e io so che sto per morire, morirò e barcollo verso l’allarme e tutto scompare.
Battendo le palpebre, apro gli occhi. Nell’acqua del bagno vortici rossi. Un’infermiera fa irruzione. Sento l’allarme che strilla. L’ho premuto io? O l’hanno premuto loro?
Sono morta? Sono morta? I secondi arrancano. Il sangue esce a fiotti.
Qualcuno mi tira fuori dalla vasca. Voci in preda al panico accanto a me.
Voci dalla saletta dei pazienti.
Intorpidita.
Mi premono sul braccio un asciugamano. Mi fanno scivolare sulla testa una canottiera.
Vertigini.
Apro gli occhi. Macchie nere mi impediscono di vedere. Nausea.
Mi trascino fino alla toilette, vomito una, due volte. Qualcuno mi tiene indietro i capelli.
L’asciugamano è tinto dal rosso che filtra attraverso il tessuto.
Incespico alla cieca fino alla mia camera, sostenuta da mani pesanti e qualcuno che impreca. Emma, forse. Non ne sono sicura.
Si fermerà? Il sangue, si fermerà?
Rimango seduta sul letto, avvolta da un sottile asciugamano del Servizio sanitario nazionale. Mi tengono un braccio sollevato sopra la testa. Il sangue è più lento quando deve scorrere verso l’alto. Mi infilano i pantaloni di una tuta da ginnastica. Apro gli occhi.
«Serviranno dei punti.»
Trascinarmi fino a un taxi richiede venti secondi, forse meno.
Avverto il sobbalzare del motore, uno scatto. Lentamente scorrono via luci: rosse, arancioni, verdi.
20.19.
La puzza soffocata di gomma bruciata mi riempie le narici. Benzina. Mentine. È il momento di rallentare.
Sono morta? Il sangue si è inciso nella mia mente, mi cola nel cervello, ottundendo i sensi.
In bocca mi aleggia il sapore del vomito. Deglutisco. Faccio pressione sul braccio.
20.30.
Riprendo a connettere seduta su una sedia di plastica dura, di fronte a una donna anziana con una gonna viola, l’ombretto turchese un po’ sbavato e l’espressione offesa.
«Dici che te lo sei fatta da sola?»
Annuisco. Le sue sopracciglia sono inarcate più di quanto dovrebbero. Mi guardano sempre così. L’espressione da “che-spreco-di-tempo-e-risorse”. Prende una biro e scrive con una calligrafia rotonda a svolazzi “lesione volontaria autoinflitta, lacerazione all’avambraccio sinistro”. Sopra le i traccia dei circoletti, non dei puntini. Mi fa qualche altra domanda: il mio indirizzo, la data di nascita, e chi è la donna in uniforme insieme a te? Oh, vieni dal manicomio.
«Sanguina ancora?» Svolgo con cautela l’asciugamano. Un rivolo di sangue sgocciola giù, inzuppandomi i pantaloni.
«Sì.»
«Il flusso è rallentato molto, però» osserva Emma.
«In questo caso, aspettate qui, per favore.» Accenna a un gruppo di sedie dall’aria altrettanto scomoda dall’altra parte della stanza.
Emma mi accompagna in quell’angolo, accanto ai distributori automatici. Sulla parete vicino a noi c’è un cartello che dice PRENDETEVI CURA DI VOI, NON PRENDETE ANTIBIOTICI, e un altro che dice IL PRONTO SOCCORSO SERVE PER LE emergenze. La parete è dipinta di un arancio albicocca, con crepe nel punto in cui si congiunge al pavimento lucido. Di fronte a noi siede un giovane in divisa da calcio con un polso parecchio gonfio e un uomo più anziano insieme alla moglie, che si lamenta di dolori al petto. All’esterno vedo le luci blu lampeggianti di una vera emergenza.
All’improvviso inizio a sentirmi stupida. Il taglio sanguina a malapena. Scommetto che hanno visto molto, molto di peggio. Penseranno che sono una patetica lagna.
«Possiamo tornare al reparto?» Mi volto verso Emma, che sta allegramente estraendo da un pacchetto una gomma da masticare alla fragola. «Posso fasciarlo lì, ci sono le bende…»
Lei mi scocca un’occhiataccia implacabile e io taccio. Riesco a percepire gli sguardi della gente rivolti alle cicatrici violacee e in rilievo sulle mie braccia, nauseati, disgustati. Anch’io sono disgustata da me stessa.
Aspettiamo per un’ora. Emma mi compra una bottiglietta d’acqua e un pacchetto di patatine sale e aceto dalla macchinetta, perché dice che ho la pelle bluastra. Non ho fame; le patatine mi graffiano l’interno della gola, ma le mangio lo stesso.
Non parliamo.
Dopo un’ora e ventidue minuti arriva una donna smunta, con una bambina pallida che le tiene le braccine strette al collo.
Dopo due ore, dalla porta in fondo al corridoio esce un’infermiera.
«Tamar?» Tra le mani ha alcuni fogli.
«Finalmente» borbotta Emma, alzandosi e raggiungendola rapida. Io la seguo.
«Potresti disinfettarti le mani, per favore?» chiede l’infermiera, indicando un flacone fissato al muro.
È una donna giovane, con capelli castano scuro tirati indietro in una coda di cavallo e tre piercing sulla cartilagine dell’orecchio. Mentre salgo impacciata sul lettino, scalciando per levarmi le scarpe, sorride di nuovo. Le rispondo con un sorriso debole. Emma siede su una poltroncina ribaltabile vicino al lavandino. In un angolo c’è un pentolino con un adesivo che dice SOLO PER OGGETTI AFFILATI E CONTAMINATI. Mi ritrovo a pensare alla mia lametta, sommersa dall’acqua del bagno, decisamente contaminata. Ormai non c’è modo di recuperarla.
Ho perso.
Sono contorta, okay, lo so.
«Tamar, posso dare un’occhiata veloce al braccio?»
Trepidante, rimuovo l’asciugamano, quasi aspettandomi che l’infermiera scoppi a ridere, o che dica: «E sei venuta qui? Al pronto soccorso? Quel taglio non ha bisogno nemmeno di un cerotto». Ma lei non reagisce così. Con gran delicatezza tiene tra le mani (lievemente sudate) il mio braccio e premendo con i pollici ricompone la ferita.
«Hai intaccato appena l’arteria, lì. Sei molto fortunata. Un po’ più a fondo e avresti potuto…» Avrei potuto cosa? Morire? «Sarebbe stato molto peggio.»
Guardo il nome dell’infermiera sul suo badge: Millie, Infermiera, Reparto emergenze. Fuori dal cubicolo, alcuni paramedici portano dentro un uomo di mezza età con ancora addosso un completo. Mi domando pigramente che lavoro faccia. Banchiere? Avvocato? Agente di viaggi?
«Be’, credo che si richiuderà per bene.»
Nel cubicolo accanto al mio, il macchinario a cui è stato collegato il banchiere/avvocato/agente...