«Non dici mai sì a niente.»
Sei parole scioccanti.
È così che è cominciata. È stata questa l’origine di tutto. Mia sorella Delorse ha detto sei parole scioccanti e ha cambiato tutto. Ha detto sei parole e, adesso che sto scrivendo questo libro, io mi ritrovo a essere diventata una persona diversa.
«Non dici mai sì a niente.»
Delorse non ha mai nemmeno detto queste sei parole scioccanti. Le ha borbottate a mezza voce, in realtà. Con le labbra che si muovevano appena e gli occhi puntati attentamente sul grosso coltello tra le sue mani, mentre tagliuzzava le verdure a velocità folle, in gara contro il tempo.
*****
È il 25 novembre 2013.
La mattina del Giorno del Ringraziamento. Quindi, ovviamente, la posta in gioco è molto alta.
Il Ringraziamento e il Natale sono sempre stati il dominio incontrastato di mia madre. Ha governato le nostre feste di famiglia con impeccabile perfezione. Cibo sempre squisito, fiori sempre freschi, colori coordinati. Tutto perfetto.
L’anno scorso, mia madre ha annunciato che era stufa di tutto quel lavoro. Certo, lei aveva sempre fatto in modo che sembrasse facile e leggero, ma questo non significava che lo fosse davvero. Così, mentre ancora regnava sovrana, mia madre ha dichiarato che avrebbe abdicato al suo trono.
E adesso, stamattina, per la prima volta Delorse si sta facendo avanti per indossare la corona.
Questa cosa ha reso mia sorella infervorata e pericolosa.
Non si prende nemmeno la briga di alzare gli occhi verso di me quando mi borbotta quelle sei parole. Non c’è tempo. Un’orda di parenti e amici affamati calerà su di noi tra meno di tre ore. Non siamo ancora arrivate nemmeno al punto della ricetta in cui si irrora il tacchino con il fondo di cottura. Perciò, a meno che mia sorella non possa uccidermi, cucinarmi e portarmi in tavola con tanto di ripieno, sughetto e salsa ai mirtilli rossi, al momento non sono degna della sua piena attenzione.
«Non dici mai sì a niente.»
Delorse è la maggiore tra noi fratelli. Io sono la più piccola. Tra noi ci sono dodici anni di differenza; questo intervallo è riempito dai nostri fratelli e sorelle: Elnora, James, Tony e Sandie. Crescendo, con tutta questa gente tra noi, era facile avere la sensazione di esistere nello stesso sistema solare senza però visitare mai l’una il pianeta dell’altra. D’altronde, quando Delorse è partita per andare al college io stavo cominciando la prima elementare. I ricordi d’infanzia che ho di lei sono dei flash un po’ indistinti: Delorse che mi fa le treccine afro troppo strette, tanto che poi mi è venuto mal di testa; Delorse che insegna ai miei fratelli e sorelle più grandi i passi di un nuovo ballo, che andava di moda negli anni Settanta; Delorse che percorre la navata il giorno del suo matrimonio, con me e nostra sorella Sandie che la seguiamo reggendole lo strascico dell’abito, e nostro padre al suo fianco. Quando ero bambina, lei rappresentava il modello di donna che ci si aspettava io diventassi crescendo. Ora che sono cresciuta, è una delle mie migliori amiche. Fa parte di un grandissimo numero di ricordi importanti della mia vita adulta. Quindi immagino abbia senso che lei sia qui, adesso, a borbottare queste parole rivolte a me. Ha senso che adesso sia proprio lei a dirmi chi dovrei diventare crescendo e, al tempo stesso, a stare al centro di quello che sarà uno dei ricordi più importanti della mia vita.
Perché questo momento è importante.
Lei non lo sa. Io non lo so. Non ora come ora. Ora come ora, questo momento non sembra importante neanche un po’. Ora come ora, sembra solo che sia la mattina del Giorno del Ringraziamento e che lei sia stanca.
Si è svegliata prima dell’alba per telefonarmi e ricordarmi di tirare fuori dal freezer il tacchino di nove chili e mezzo. Poi ha percorso in macchina i quattro isolati che separano casa sua dalla mia per venire a cucinare la cena per tutta la nostra numerosa famiglia. Non sono ancora le undici del mattino e lei è già lì che si sbatte da ore. Affettando, mescolando, condendo. Sta davvero lavorando sodo.
E io sono stata a guardarla.
Detto così suona male.
Non è che non sto facendo niente.
Non sono del tutto inutile.
Le passo le cose quando me le chiede. E poi ho la mia figlia di tre mesi legata al petto con la fascia porta-bebè e la mia figlia di un anno e mezzo in braccio, poggiata sull’altro fianco. Ho pettinato la mia figlia di undici anni, ho spento la Tv e le ho ficcato in mano un libro.
E stiamo parlando. Mia sorella e io. Stiamo parlando. Recuperando tutto quello che ci siamo perse da quando... be’, da ieri, o forse dall’altro ieri.
Ok. Va bene. Sono io che sto parlando.
Io parlo. Lei cucina. Parlo e parlo e parlo. Ho un sacco di cose da raccontarle. Le sto elencando tutti gli inviti che ho ricevuto nell’ultima settimana o giù di lì. Qualcuno vuole che intervenga a una certo convegno e qualcuno mi ha invitato a quel party fantastico e mi hanno chiesto di andare nel Paese tal-dei-tali per incontrare il re o per essere ospite in un certo programma televisivo. Le elenco dieci-undici inviti che ho ricevuto. Le racconto tutto, nei dettagli, di ciascuno di essi.
Ve lo confesso subito: ci butto dentro qualche dettaglio saporito in più, imbastisco qualche storia, metto giù qualche pezzo di binario. Mi sto deliberatamente dando delle arie: sto cercando di suscitare una qualche reazione nella mia sorellona. Voglio che rimanga colpita. Voglio che pensi che ho una vita fighissima.
Vedete, sono cresciuta in una famiglia fantastica. I miei genitori e miei fratelli hanno tante qualità meravigliose. Sono tutti, senza eccezioni, belli e intelligenti. E, come ho già detto, portano tutti benissimo la loro età. Però ogni membro del mio nucleo familiare ha in comune con gli altri anche un enorme, ripugnante, ignobile difetto.
Non gliene potrebbe fregare di meno del mio lavoro.
Zero.
A nessuno di loro.
Neanche uno.
Sono francamente sconcertati dal fatto che qualcuno possa mostrarsi colpito o in soggezione davanti a me. Per qualsiasi motivo. Le persone che si comportano con me come se io fossi in qualche modo interessante li destabilizzano completamente. Si guardano l’un l’altro, perplessi, ogni volta che qualcuno mi tratta in modo diverso da come loro mi hanno sempre vista: la loro sorellina profondamente sfigata ed eccessivamente loquace.
Hollywood è un posto bizzarro. È facile, qui, perdere il contatto con la realtà. Ma non c’è niente che ti tenga con i piedi per terra come una tribù di fratelli e sorelle che, quando qualcuno vuole il tuo autografo, chiede in tono sinceramente esterrefatto: «Come? L’autografo di Shonda? Ma è sicuro? Shonda? Un attimo, seriamente, Shonda? Shonda Rhimes? E perché?».
È una cosa veramente scortese. E tuttavia... Pensate quanti ego gonfiati a dismisura ci potremmo risparmiare, se tutti avessero cinque fratelli e sorelle maggiori. Loro mi vogliono bene. Tantissimo. Ma non sono disposti ad accettare nessuna stronzata da vip da parte della bimbetta che portava gli occhiali con le lenti spesse come fondi di bottiglia, quella che tutti loro hanno visto vomitare sul portico di casa la pastina a forma di lettere dell’alfabeto, per poi scivolare e cadere di faccia sul suo stesso vomito.
Ecco perché al momento – con le parole – sto ballando il tip tap per tutta la cucina, dandoci dentro come se fossi in gara per un trofeo ambito. Sto cercando di ottenere da mia sorella un qualche segno che è colpita, un barlume di conferma che mi considera una persona un minimo figa. Tentare di suscitare una reazione in una di queste persone con cui sono imparentata, be’, è diventato quasi un gioco per me. Un gioco che, sono convinta, un giorno riuscirò a vincere.
Ma non oggi. Mia sorella non si dà nemmeno la pena di battere le palpebre nella mia direzione. Invece, spazientita, forse stanca e probabilmente stufa marcia di sentire la mia voce che parla senza sosta dell’elenco di inviti favolosi che ho ricevuto, mi interrompe.
«Pensi che farai qualcuna di queste cose?»
Esito. Sono un po’ spiazzata.
«Eh?» Questo è ciò che dico. «Eh?»
«Gli inviti. I party, i convegni, le interviste in Tv. Hai risposto di sì a qualcuno?»
Rimango lì ferma per un momento. In silenzio. Confusa.
Di che cosa sta parlando? Dire di sì?
«Be’. No, cioè... no» balbetto, «non posso dire... Ovviamente ho detto di no. Cioè, sono impegnata.»
Delorse non alza la testa. Continua a tagliare le verdure.
In seguito, ripensandoci, mi renderò conto che probabilmente non mi stava nemmeno ascoltando. Probabilmente si stava chiedendo se aveva grattugiato abbastanza formaggio cheddar per il timballo di maccheroni che doveva preparare subito dopo. O decidendo quante torte fare. O chiedendosi come fare a chiamarsi fuori dal cucinare la cena del Ringraziamento l’anno venturo. In quel momento, però, non me ne rendo conto. In quel momento, il fatto che mia sorella non alzi la testa deve per forza significare qualcosa. In quel momento, il fatto che mia sorella non alzi la testa mi sembra un gesto intenzionale.
Profondo.
Provocatorio.
Sgarbato.
Devo difendermi. Come faccio a difendermi? Che cosa posso...
In quel preciso istante (ed è una cosa talmente provvidenziale da convincermi che l’universo mi ami), Beckett, la gioiosa bimba di tre mesi legata al mio petto, decide di rigurgitare un geyser di latte che scorre giù sul davanti della mia maglia in una disgustosa cascata tiepida. Appollaiata sul mio fianco, la mia piccola signorina schizzinosa di un anno e mezzo – se la più piccola è il sole, lei è la luna – storce il naso.
«Sento odore di qualcosa, amore» mi dice. Emerson chiama tutti «amore». Mentre le faccio sì con la testa e cerco di tamponare la macchia tiepida e puzzolente di latte, mi fermo un attimo. Contemplo il caos che tengo tra le braccia.
E ho pronta la mia linea di difesa.
«Beckett! Emerson! Ho due bambine piccole! E ho anche Harper! Una preadolescente! I preadolescenti sono fiori delicati! Non posso starmene in giro a fare cose! Ho delle figlie di cui prendermi cura!»
Lo grido al di sopra del piano di lavoro, nella direzione generica di mia sorella.
Aspetta. Parlando di cose di cui devo prendermi cura... Io devo prendermi cura anche di una cosina da niente chiamata giovedì sera. Tiè! Accenno un balletto di vittoria attraversando la cucina e le punto il dito contro. Esultando.
«Ho anche un lavoro! Anzi, due lavori: Grey’s Anatomy e Scandal. Tre figlie e due lavori! Sono molto... impegnata! Sono una mamma! Sono una scrittrice! Mando avanti delle serie Tv!»
Bam!
Mi sento veramente trionfante. Sono una madre. Una madre, cav...