A vederlo, il minuscolo villaggio artico di Kugaaruk sembra uno di quei paesi che potreste trovare lungo la costa del New England: una manciata di case di legno dipinte di rosso, verde e marrone chiaro, arroccate su palafitte a pochi metri da una spiaggia di ciottoli; un motoscafo o due davanti al cortile di ogni abitazione, le biciclette dei bambini poggiate sui gradini all’ingresso. Le porte non sono mai chiuse a chiave e non è raro vedere bambini che entrano correndo in casa di vicini e parenti, per poi uscirne con in mano panini al burro di arachidi e bicchieri di succo d’arancia come pranzo.
Nell’aria, però, si avverte un profumo unico, come un mix di alghe e stufato di manzo. Una fila di costolette di caribù è appesa alla porta di un capanno, a essiccare alla brezza salmastra. Dall’altra parte della strada, tre teschi di orso polare giacciono su una panchina nel cortile di una famiglia, i canini bianchi e lucenti più lunghi di un pollice. E se, entrando nella cucina di qualcuno, apriste il congelatore potreste trovare un bel pezzo di foca da preparare a cena.
Qui non siamo nel New England, ma in un luogo molto più remoto. Così remoto che all’inizio degli anni Sessanta, quando una giovane studentessa di antropologia della Harvard University si avventurò da queste parti, molti pensavano che il viaggio l’avrebbe uccisa.
«Volevo davvero arrivare nel posto più isolato e lontano che fossi riuscita a raggiungere, nel Nord» ha raccontato Jean Briggs, «così da incontrare persone che avessero avuto contatti minimi con la nostra cultura.»1
Quel desiderio la portò oltre il Circolo polare artico, circa quattrocento chilometri a nord della baia di Hudson. Lì la terraferma si frammenta al punto che è difficile stabilire, osservando una cartina, dove finisca la costa e inizi il mare. Quella vasta striscia di terra è il paese degli inuit, e lo è da mille anni.
Per uno studente occidentale di antropologia quel viaggio era rischioso, ma per un’antropologa degli anni Sessanta sembrava addirittura folle. Almeno a detta dei suoi colleghi. Lì, d’inverno, le temperature possono scendere facilmente a trentacinque gradi sotto zero. E al tempo non c’erano strade, né impianti di riscaldamento elettrico o negozi di alimentari. Jean avrebbe potuto morire.
Ma il rischio fu ripagato: durante il suo soggiorno di diciassette mesi nella regione, Jean svolse un lavoro sul campo rivoluzionario che, alla fine, avrebbe trasformato il modo in cui la psicologia occidentale guardava alle emozioni, in particolare la rabbia.
Circa mille anni fa, una tribù davvero unica viveva lungo il confine tra Alaska e Russia. Il gruppo, chiamato inuit, aveva sviluppato tecniche straordinarie che consentivano loro di prosperare in uno degli ambienti più rigidi della terra. Allevavano cani selezionati per trainare le slitte, cucivano abiti impermeabili con pelli di foca e costruivano agili kayak da mare, grazie ai quali riuscivano ad abbattere gli animali più grandi del pianeta. La tribù era così vigorosa e abile che le famiglie potevano viaggiare per centinaia di chilometri lungo il Circolo polare artico. Nei secoli successivi gli inuit occuparono un vasto territorio che si estendeva per circa cinquemila chilometri, dallo stretto di Bering alla Groenlandia.
Ancora negli anni Sessanta molte famiglie inuit seguivano lo stile di vita secolare dei loro antenati, cacciatori-raccoglitori nomadi. Il mare era il loro negozio di alimentari, la tundra il loro orto. Le famiglie si spostavano da un insediamento temporaneo all’altro in cerca di prede. In inverno arpionavano le foche attraverso il ghiaccio, in primavera pescavano i salmerini artici che risalivano i corsi d’acqua e in estate braccavano i caribù in migrazione. Con cuoio e pellami realizzavano stivali, parka, biancheria da letto e tende. Il grasso di balena e di foca forniva l’energia per cucinare, illuminare e riscaldare le loro abitazioni.
Nell’agosto 1963 un volo charter lasciò Jean sulla cima di una scogliera di granito che dominava le rapide di un fiume artico. Diverse famiglie si erano accampate lungo il corso d’acqua per l’estate. In un primo momento la vita di Jean nell’accampamento sembrò piuttosto semplice: i mirtilli abbondavano nella tundra color ruggine e il fiume era pieno di trote argentate. «In una singola battuta ogni pescatore riusciva a prendere venti o anche quaranta trote, ognuna tra i cinque e i venti chili circa» scrisse Jean. Poi, all’inizio di ottobre, il fiume iniziò a gelare e cominciò a nevicare ogni giorno. L’inverno si avvicinava in fretta. Jean si rese conto che, per sopravvivere, aveva bisogno dell’aiuto di una famiglia inuit. Convinse una delle coppie dell’accampamento, Allaq e Inuttiaq, a «adottarla» e «provare a tenerla in vita».2
Allaq e Inuttiaq furono straordinariamente gentili e generosi con Jean. Le insegnarono a parlare un dialetto della lingua inuit, l’inuktitut. Le mostrarono come pescare e condivisero la loro scorta di cibo per l’inverno. Le permisero persino di dormire all’interno dell’igloo di famiglia, rannicchiata sotto le calde coperte di caribù, fianco a fianco con le loro due figlie più giovani: Raigili, di sei anni, e Saarak, di tre. (La primogenita, adolescente, si era trasferita a studiare in collegio.)
L’intenzione iniziale di Jean era studiare lo sciamanesimo. Tuttavia, dopo alcune settimane di convivenza con Allaq e Inuttiaq, si rese conto che in quella famiglia – e nell’intera comunità – c’era qualcosa di molto più interessante da approfondire.
«Non hanno mai mostrato comportamenti rabbiosi nei miei confronti, anche quando erano molto arrabbiati con me» ha ricordato in seguito.3
Allaq e Inuttiaq avevano una straordinaria capacità di controllare le proprie emozioni. Non perdevano la pazienza né mostravano tracce di frustrazione, sebbene vivessero in un minuscolo igloo a temperature che raggiungevano i trentacinque gradi sotto zero, con due bambine piccole cui, per di più, si era aggiunta una dottoranda americana (che in seguito ha ammesso di essere, talvolta, «una persona difficile»).
«Non c’è dubbio: mantenere la calma in circostanze complicate è esattamente ciò che caratterizza la maturità, l’età adulta» ha scritto Jean in Never in anger (“Mai arrabbiati”), il suo libro sul periodo trascorso con la famiglia di Allaq e Inuttiaq.4
In casa loro i piccoli sbagli venivano ignorati. Niente sciocche lamentele né proteste. Persino davanti agli ostacoli più grandi la reazione era pacata. Una volta, ad esempio, il fratello di Allaq inciampò in una stufa e fece cadere una teiera bollente sul pavimento dell’igloo. Nessuno sussultò né distolse lo sguardo da quel che stava facendo, sebbene l’acqua calda stesse letteralmente sciogliendo il pavimento. Il giovane si limitò a commentare con fare sommesso: «Peccato!». Poi si mise a sistemare tutto. «Nemmeno le sommesse risate generali mi parvero più intense del solito» ha scritto Jean.5
In un’altra occasione Allaq, la moglie di Inuttiaq, aveva passato giorni interi a intrecciare una lenza con un tendine di caribù, ma quando il marito la utilizzò per la prima volta quella si spezzò. Nessuno mostrò la benché minima frustrazione per il contrattempo. Anziché cedere alle emozioni, Allaq e Inuttiaq si concentrarono sull’essere produttivi. Nel racconto di Jean, Allaq rise un po’ e il marito le restituì la lenza «senza alcun cenno di rimprovero», dicendo solo: «Riparala».6
Leggere di episodi simili mi ha meravigliata. Come sarebbe vivere in una famiglia dove regna una tale calma e la rabbia è una sconosciuta? Quando un adulto commetteva qualche passo falso e non riusciva a frenare le proprie emozioni, gli altri ne deridevano bonariamente il comportamento. Prendiamo, ad esempio, il momento in cui Inuttiaq «sparò d’impulso a un uccello» che gli passava accanto. Osservandolo da lontano, Allaq commentò: «Come un bambino».7 Vale a dire: la mancanza di pazienza è tipica dei bimbi, non degli adulti.
E, nonostante si sforzasse molto di controllare le proprie emozioni, rispetto ad Allaq e Inuttiaq Jean sembrava proprio una bambina. Non avrebbe mai raggiunto il livello di autocontrollo degli inuit. Quelle persone consideravano anche piccole espressioni di irritazione o scontrosità – troppo lievi perché un occidentale potesse anche solo notarle – come segni di immaturità. «I miei modi erano molto più rozzi, meno ponderati e più impulsivi» ha raccontato l’antropologa. «[Ero] spesso impulsiva, ai limiti dell’antisociale. Ero capace di mettere il broncio, dare di testa o fare qualcosa che loro non avrebbero mai fatto.»8
In particolare, nel racconto di Jean, Allaq sembra l’incarnazione stessa della calma e dell’aplomb. Persino durante il parto. Per quanto incredibile possa sembrare, molte donne inuit non urlano né si lamentano durante il parto. Diede alla luce il suo quarto figlio mentre Jean viveva con loro, e il parto le sembrò un evento così ordinario che la sua descrizione risulta quasi comica:
Allaq aveva passato la serata a friggere bannock [pane] per la famiglia […]. Aveva preso parte alla festa, scherzando come al solito con le sorelle arrivate a condividere il bannock, poi aveva allattato Saarak teneramente fino a farla addormentare e aveva spento la lampada. Alle undici e mezzo di sera sembrava essersi addormentata. E all’una e mezzo fui svegliata dal pianto esitante di un neonato.9
Allaq era rimasta così silenziosa che Jean non si era nemmeno accorta del suo travaglio.
Poi, dopo il parto, sorse un problema serio: la placenta non si staccava, e Allaq rischiava un’emorragia fatale. Inuttiaq, l’unico adulto presente, si limitò a rivolgere concise “esortazioni” alla placenta, senza piangere né gridare. Niente drammi da pronto soccorso: si accese la pipa, recitò una preghiera e, alla fine, la placenta venne via.
Devo ammettere che, giunta a questo punto, ho iniziato a trovare poco credibili le storie raccontate da Jean nel suo libro. Niente urla durante il parto? Nemmeno una sfuriata per mesi, stipati in un igloo con bambini piccoli? A San Francisco mi strillano contro ogni giorno: a casa, fuori, su Twitter… E io strillo con Rosy, così tanto che è imbarazzante anche solo ammetterlo. Senza dubbio Jean aveva esagerato nel descrivere l’autocontrollo di quella famiglia.
E se invece era tutto vero, come aveva fatto Allaq a raggiungere un risultato simile? Ero curiosa di sapere come lei e le altre mamme inuit riuscissero a mantenere una tale compostezza in condizioni così difficili, e come facessero a trasmettere quella calma ai figli. In che modo quei genitori trasformavano un capriccioso e impetuoso bimbo di tre anni in un tranquillo e pacifico bambino di sei? Potevano forse aiutarmi a domare la mia piccola bisbetica?
Così, quasi sei decenni dopo il viaggio di Jean, Rosy preparò con cura la sua valigia di Frozen e raggiungemmo in volo la cittadina di Kugaaruk, in Canada, proprio di fronte alla penisola in cui si era trasferita Jean.
All’arrivo a Kugaaruk sembra di atterrare in una cartolina. «Il posto perfetto per un imperatore» sostiene uno dei miei amici giapponesi. Il paesaggio è assolutamente stupendo.
Le circa duecento case di Kugaaruk sono incastonate tra due specchi d’acqua spettacolari: un kuuk (“fiume”), così limpido che ci si può chinare a bere dal suo corso ogni volta che si ha sete, e una baia di un colore tra il blu e il grigio, che risplende di increspature nel sole basso dell’estate. Diverse isole punteggiano la baia, simili a spalle di giganti verdi intenti a pescare.
Dietro la cittadina, verso est, la tundra grigia si estende fin dove arriva lo sguardo. Alla fine di luglio mirtilli e more la tappezzano; i cespugli crescono così bassi – non più di cinque centimetri dal suolo – che per raccoglierne i piccoli frutti bisogna inginocchiarsi fin quasi a baciare il lichene delle renne, ma ne vale la pena: sono aspri e deliziosi.
Durante i nostri primi giorni a Kugaaruk, io e Rosy ci troviamo in una situazione simile a quella della giovane Jean Briggs: non abbiamo un posto dove stare. L’unico hotel di Kugaaruk ha il tetto da riparare, ed è costoso. Quindi inizio a chiedere in giro una stanza in affitto.
Tu...