La sfocatura del mondo
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La sfocatura del mondo

  1. 240 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La sfocatura del mondo

Informazioni su questo libro

Una slitta scivola nella campagna innevata in una mattina di dicembre, la guida un uomo avvolto in un cappotto, con un cappello di pelliccia in testa. Trasporta barili di aringhe sotto sale e una donna. Florentine ha preso l'unico mezzo disponibile, ha lasciato il marito Hannes a casa, a spalare la neve dal cortile e poi a dire messa, mentre lei corre verso la stazione pregando che il bambino che porta in grembo sopravviva. Siamo nel Banato, una regione di frontiera nel cuore dell'Europa centrale, dove si parlano, insieme, tedesco, rumeno, ungherese, serbo, e dove si intrecciano altrettante, antiche tradizioni. E siamo poco oltre la metà del Novecento, anche se la scena sembra di almeno due secoli prima. Tre mesi dopo quel giorno di spavento nasce Samuel, il protagonista di questo romanzo, attorno a cui si muovono sette personaggi, tutti legati strettamente a lui, ogni capitolo un'esistenza, un carattere, un futuro davanti a sé, ognuno partecipe di un grande quadro famigliare. Samuel nasce in un luogo remoto, che, seppure al centro dell'Europa, è anche periferia quasi dimenticata dell'impero sovietico. Qui la storia passa per lasciare solo residui inestinguibili, questo è il nocciolo di tutto, da questa vaghezza Samuel vuole scappare per raggiungere l'Occidente, ma è anche qui che si torna, poi, per ritrovare i colori dell'autunno, le vigne e i silenzi.
La sfocatura del mondo è il quarto romanzo di Iris Wolff, con cui l'autrice si è aggiudicata l'entusiasmo della critica tedesca, che ne ha riconosciuto l'immenso talento, una delle voci più notevoli della letteratura europea di oggi.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2021
Print ISBN
9788817149921

Gioco di prestigio

Puoi sentire così tante volte una storia, raccontata in maniera talmente efficace, da arrivare a credere che sia un ricordo tuo. Certe storie vengono raccontate di continuo, il contesto si rinnova, sbucano fuori interpretazioni inedite e, a ogni nuova ripetizione, cambiano sempre, impercettibilmente. Si aggiungono dettagli, altri vengono tralasciati. In qualche punto aumenta la vaghezza, qualcosa cambia di posto, retrocede fino a cadere nell’oblio più assoluto. Altrove invece i contorni si chiariscono, ed è come vedere attraverso la trasparenza di un vetro.
Il passo che fece Livia è una di queste storie.
Era uno di quei giorni in cui l’estate giungeva al termine. Ce n’erano molti, a volte erano settimane, e solo a posteriori si sarebbe potuto dire: questo, proprio questo è stato il giorno in cui l’estate, con un che di consunto, si è fatta da parte. Le foglie secche, i prati calpestati, silenzio fra i cespugli. Quello che prima era luce e calore cominciava a raggelare, non avvampava più, era ormai un assaggio dell’addio. E così come ci si lascia qualcosa alle spalle pur serbandolo, all’improvviso si sa che è troppo tardi per i sogni estivi.
Il lago, sbarrato su un lato da una diga, si allungava in mezzo a colline boscose e a una strada. Ogni due ore salpava un battello. Arrivati al noleggio delle barche scelsero un pedalò. La madre si sistemò sulla panca posteriore insieme a Livia e Jarik. Il padre era seduto ai pedali insieme al padrino di Livia. L’acqua era quasi nera. Il suo movimento inquieto suscitava nella madre di Livia una tensione che era difficile definire presentimento.
Distesero una coperta, i due uomini raggiunsero gli altri seduti in fondo. Il pedalò galleggiava sull’acqua, le onde s’infrangevano sullo scafo, un ritmo ostinato e minaccioso. La plastica aveva delle screpolature, era come sfaldata. Il parapetto ai due lati era basso, la poppa era aperta, una scala scendeva nell’acqua. Nessuno quel giorno aveva voglia di nuotare.
Liv aveva tre anni. Conosceva la differenza fra terraferma e acqua. Eppure si alzò, si diresse a passo deciso verso il fondo del pedalò e continuò ad avanzare anche quando la barca era finita. L’espressione del suo viso non era cambiata, disse sua madre. E lei si era fatta ingannare da quell’espressione né calma né sovreccitata, che l’aveva resa intangibile, superiore e stranamente protetta. Quando Liv si era alzata, nessuno si era preoccupato. Erano tutti intorpiditi dal sole che era opaco, il cielo slavato, attraversato da velature, ed erano rimasti lì a guardare la bambina che, tranquilla e beata, faceva un passo fuori dalla barca.
Il lago la inghiottì.
Gli uomini erano saltati su. Suo padre era stato il più veloce a reagire. Si era chinato oltre il bordo e aveva issato Liv con una presa salda e mirata. Lei non aveva gridato, non si era agitata, aveva semplicemente teso la mano e suo padre, con un movimento rapido, l’aveva incontrata nel nero del lago.
Tutto era finito rapidamente com’era cominciato.
Liv non aveva pianto. Solo dall’espressione di sua madre si era resa conto che qualcosa non andava. Suo padre era caduto in ginocchio, la madre l’aveva presa fra le braccia. Poi, senza tante cerimonie, erano tornati a terra. Lungo il tragitto verso la macchina era stata portata in braccio dal padrino, la coperta appoggiata sulle spalle come un mantello svolazzante. Suo padre aveva guidato a gran velocità. Era importante mettere più distanza possibile fra loro e il lago, come se quello che era successo potesse raggiungerli.
Era un fatto che veniva raccontato spesso («Te lo ricordi quando Liv…?»), alle feste, ai compleanni, e sempre quando si era vicini all’acqua. A colpire i genitori era stata l’impassibilità con cui Liv era entrata nel lago. Il fatto che per lei terra o acqua non facessero differenza e, in un attimo di noncuranza, avesse scambiato la morte per la vita.
Liv aveva sentito quella storia talmente tante volte che diceva di ricordare i dettagli. La pelle di plastica ruvida, lo sciabordio cupo contro lo scafo del pedalò, la sensazione di andare a fondo, la stretta dolorosa al braccio quando suo padre l’aveva issata a bordo. E anche se da allora erano passati molti anni, le sembrava che suo padre continuasse a restare vigile, come nel timore che lei facesse un passo sconsiderato. Un passo oltre.
Liv entrò nel bistrò all’angolo.
Controllò di sfuggita la sua immagine nella vetrina, occhi ombreggiati di scuro, capelli ondulati lunghi fino al mento. Se li sistemò dietro l’orecchio, tirò su le maniche della giacca (da qualche tempo portava solo abiti maschili che acquistava a peso in un negozio dell’usato) e sperò, entrando nel locale, di avere un’espressione imperturbabile. Lesse attentamente il menu, esaminò i piatti in offerta per pranzo, fece finta di non saper decidere, di fatto riusciva a stento a decifrare le lettere di quell’alfabeto. Lo sguardo di lui posato addosso come una molla, invadente, insistente; di’ qualcosa, si ammonì Liv, e ordinò a caso un piatto à la carte da portare via, perché in presenza di quel ragazzo non c’era nessun nascondiglio, niente dove poter riparare.
Di recente il ragazzo del bistrò l’aveva aiutata a gonfiare le gomme della bicicletta. Aveva chiesto se le serviva aiuto, probabilmente l’osservava già da un po’ da dentro il locale, e lei si era fatta da parte, nell’assurda speranza che neppure lui ci riuscisse. Quando si era inginocchiato davanti alla ruota posteriore per controllare la valvola, lei si era accorta che aveva un ideogramma giapponese sulla nuca. Lui si era passato di sfuggita una mano sul viso. Una strisciata scura gli era rimasta sulla guancia e Liv, una volta finito di gonfiare la gomma, non era stata in grado di pronunciare una frase di senso compiuto.
D’altra parte: forse «grazie» poteva considerarsi una frase completa.
Da allora il sorriso del ragazzo era cambiato, la guardava in modo diverso. Le porse il pranzo con un gesto cerimonioso, tenne il contenitore in mano più del dovuto, contò il resto più lentamente, come se volesse rimandare il momento in cui lei se ne sarebbe andata. Prima la confidenza, poi l’estraneità, ma non c’era l’una senza l’altra. L’estraneità si annidava a un livello più profondo, era insicurezza, vergogna, e si fondava esclusivamente sul fatto di esserci, sul fatto che la propria vita toccasse – in realtà era così sempre – vite altrui.
Liv si sedette sul muretto davanti alla scuola, ripercorrendo nella mente ogni singola parola che lui aveva detto e, quando Anna le si mise accanto e le chiese cos’avesse mangiato, lì per lì non seppe rispondere. Mentre lei si sentiva sicura solo quando osservava gli altri a distanza, la sua amica aveva la facoltà di entrare rapidamente in contatto con tutti. Non si sarebbero mai conosciute se un giorno Anna non le avesse rivolto la parola.
«Da dove arrivi?» aveva chiesto.
Liv si era preparata a dare una spiegazione circostanziata perché pensava che intendesse qual era il suo paese d’origine, finché non aveva capito che la ragazza della classe parallela voleva solo sapere dove abitava.
In seguito Anna le aveva detto di essere stata colpita dal modo in cui Liv la fissava. Liv aveva negato risolutamente, benché non ci fossero dubbi sul fatto che l’avesse fissata – sedotta dalla sua sicurezza, dalla risolutezza con cui salutava o non salutava gli altri, godendo però sempre della loro attenzione, dai capelli chiari che le cadevano sciolti sulle spalle –, convinta di farlo con discrezione.
In estate erano andate insieme in aereo a Corfù. Era la prima vacanza senza genitori e avevano lavorato per quattro lunghe e angosciose settimane alla cassa di un supermercato per guadagnare i soldi necessari. Sull’isola avevano noleggiato due motorini con cui percorrevano il litorale. Liv sapeva guidare bene, ma in un tratto non aveva valutato accuratamente le curve e aveva urtato di striscio una delle rocce che bordavano la strada. Una donna del paese più vicino le aveva pulito le escoriazioni con l’alcol. Un po’ in disparte, costruita sul pendio, si trovava una casa bianco calce con le imposte azzurre. Liv aveva detto di non avere mai visto una casa più bella, ed erano venute a sapere che apparteneva a un uomo la cui moglie era morta in un incidente durante una traversata in barca a vela. Una donna, pensava Liv, che l’acqua aveva chiamato a sé senza poi lasciarla andare. Avevano ripreso i motorini, anche se a Liv tremavano le ginocchia. Sentiva l’aria sulle ferite e sapeva che doveva farlo, doveva farlo ora, altrimenti non ci sarebbe mai più salita.
Una notte, il tragitto di ritorno da una taverna le portò a passare di nuovo dallo stesso paese. Pioveva, una pioggerella sottile che sfiorava delicatamente la pelle: blessed rain, come aveva detto qualcuno.
Liv aveva fatto un cenno ad Anna e si era fermata. Sulla terrazza della casa si intravedeva una sagoma; un uomo era appoggiato alla ringhiera e teneva gli occhi fissi sull’acqua. Musica ad alto volume usciva dalle finestre, si diffondeva per il paese e poi fino al mare. Liv aveva percepito la solitudine di quell’uomo e sul momento le era sembrato di abbracciarlo. Anna aveva insistito per proseguire. Avevano viaggiato nella notte, le strade luccicavano, la pioggia cadeva leggera, il mare si frangeva sulla costa, tutto era pieno di vita e lei era un puntino che sfrecciava via, niente di più.
Se ripensava oggi a quell’episodio, le sembrava che la lontananza fosse necessaria per poter vedere l’altro. Avvicinandosi, l’insicurezza e la sfocatura aumentavano.
Suonò la campanella.
«Altre due ore di matematica» disse Anna strascicando le parole.
Liv tirò fuori il mazzo di carte dalla tasca interna della giacca, lo divise e accostò le due metà per il lato stretto. Ogni carta scivolò esattamente sopra l’altra come una cerniera.
«Se mischio le carte in questo modo per otto volte esatte, il mazzo torna ad avere la sequenza che aveva all’inizio. Funziona se ho 52 carte, con 64 bastano sei shuffles. E poi così ho la possibilità di controllare qualsiasi carta. Questa è matematica.»
Anna rise, e Liv si portò le carte aperte come due ventagli davanti al viso, lasciando scoperti solo gli occhi.
Nel tardo pomeriggio, quando uscì da scuola, il ragazzo del bistrò stava cambiando la scritta sulla lavagna. I loro sguardi si incrociarono e Liv prese in considerazione l’idea, in futuro, di pranzare altrove.
Con il tramonto del sole era scomparso anche il caldo. Il cielo azzurro sgombro di nuvole accentuava il buio delle strade. Liv salì la scala dell’Opera, entrò nella hall ovale e andò alla toilette. Si diede un’altra spruzzata di deodorante, si allacciò un papillon al collo, un reperto scovato al mercato delle pulci che si era portata a casa di nascosto, visto che sua madre non condivideva la sua nuova passione per gli abiti usati.
Quel giorno davano la Norma. Liv provava la lieve tensione che le saliva quando le luci erano già tutte accese ma il teatro ancora deserto. A parte lei, c’era solo Marie-Luise. Malu, la più anziana in servizio, aveva un viso giovanile con gli occhi molto distanti fra loro. Portava un paio di occhiali con il cordino e vestiva di nero, sempre, senza eccezione. Abbracciò Liv, poi si allontanò di una spanna e ammirò il papillon mostrando di apprezzarlo.
«Stai proprio bene» disse. Prima che Liv potesse replicare, le consegnò la borsetta con gli spiccioli e la indirizzò verso le file centrali del guardaroba dove, per esperienza, si sarebbe formata più calca. E infatti così fu. Liv appese giacche e cappotti, annodò sciarpe alle maniche, sistemò zaini e ombrelli, consegnò tagliandi per il ritiro, tenendo sempre sott’occhio che anche ai due lati tutto procedesse per il meglio. Quando lo spettacolo cominciò, si accomodò su una sedia tra le file degli attaccapanni. Malu accolse i ritardatari, li accompagnò verso le maschere che avevano facoltà di decidere se potessero entrare o dovessero aspettare l’intervallo, mise in perfetto ordine gli zaini e, a un certo punto, si appoggiò al banco (il massimo in fatto di negligenza che si concedeva).
A Liv piaceva l’odore misto di profumo e naftalina che emanava il guardaroba, le tonalità grigie, oro e argento dell’edificio, la concitazione all’apertura, l’abbigliamento ricercato degli spettatori, il tempo dello spettacolo, durante il quale in genere si restava in perfetto silenzio, la confusione di voci durante l’intervallo, gli applausi e la frenesia quando cappotti, giacche, sciarpe e zaini tornavano ai legittimi proprietari accalcati davanti al guardaroba.
Lo spettacolo era cominciato già da mezz’ora quando Malu la spedì dentro. Liv salì fino al terzo ordine di palchi, la maschera le fece un cenno con la testa e le aprì piano la porta. Lei si sedette in uno dei posti liberi dell’ultima fila. Le riusciva difficile concentrarsi sulla musica, i pensieri la portavano altrove: ai costumi dei cantanti che sembravano ripresi da un film in stile Il padrino, all’interrogativo su chi, quella sera, avrebbe consegnato i mazzi di fiori, un compito che non piaceva molto a nessuno, ma toccava immancabilmente a una delle guardarobiere.
Liv notò un uomo anziano seduto dall’altro lato del corridoio centrale. Stava dritto sulla sedia senza appoggiarsi allo schienale e teneva il cappello. Le ricordò il suo bisnonno. Forse perché aveva un’aria persa, la stessa aria persa che aveva sempre Johann, che fosse in treno, seduto al tavolo di cucina o addormentato in poltrona. Aveva vissuto al fianco di Karline come una presenza che viene sopportata, benché nessuno sapesse dire in cosa consistesse quella sopportazione. Si accontentava di presentarsi ai pasti e, per il resto, di sedere in soggiorno a leggere il giornale o guardare la tivù. Due volte la settimana si vestiva con cura, si metteva il cappello e andava a passeggio in Königstraße. Il padre di Liv, che a volte lo accompagnava, diceva di avere l’impressione che Johann immaginasse di passeggiare per il corso di Sibiu, di sedere lì su una panchina accanto ad altri uomini intenti a leggere il giornale o a giocare a scacchi senza scambiare una parola; e Liv ricordava gli uomini al parco, il cardigan sulla camicia e la sigaretta all’angolo della bocca, le facce stanche ma anche lo sguardo scaltro e indagatore.
Quando Johann era ancora vivo, ogni prima domenica del mese la fa...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La sfocatura del mondo
  4. Zăpadă
  5. Eco
  6. Leviatano
  7. Portati dal vento
  8. Macromolecolare
  9. Giove
  10. Gioco di prestigio
  11. Ringraziamenti
  12. Copyright