E verrà un altro inverno (Nero Rizzoli)
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E verrà un altro inverno (Nero Rizzoli)

Massimo Carlotto

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  1. 240 pagine
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E verrà un altro inverno (Nero Rizzoli)

Massimo Carlotto

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Bruno Manera e Federica Pesenti sembrano una coppia felice. Lui è un ricco cinquantenne, lei di anni ne ha trentacinque ed è l'erede di una dinastia di imprenditori della "valle", operoso distretto del Settentrione dove dominano i maggiorenti, l'élite dei capitani d'industria che ha costruito l'ordine del duro lavoro per tanti, del profitto per pochi e delle menzogne per tutti.
Su insistenza di Federica, Bruno accetta di trasferirsi in paese, varcando la frontiera invisibile della provincia profonda. Ma quando Manera comincia a subire una serie di gravi atti intimidatori, la situazione precipita. Ad aiutarlo c'è solo Manlio Giavazzi, un vigilante dalla vita sfortunata, convinto che certe faccende vadano risolte tra paesani. Poi il caso gioca un tiro mancino e in una girandola di fulminanti colpi di scena scivoliamo nelle pieghe di un mondo marcio - il nostro - in cui l'amicizia è il vincolo di un'associazione a delinquere, l'amore una speculazione, il matrimonio un campo di battaglia, la solidarietà tra conterranei un patto d'omertà e la famiglia una connection criminale.
Massimo Carlotto strappa la maschera a personaggi avvelenati dagli inganni delle loro doppie vite, perché l'avversario è chi ti dorme accanto e il nemico è colui di cui ti fidi. Nel segno della fatalità sovverte la logica del poliziesco, mostrando senza reticenze la ferocia inconfessabile della brava gente e inchiodandoci all'enigma che nessuna detection può risolvere: il mistero di chi siamo davvero.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2021
ISBN
9788831804189

1

Sembrava lo facesse apposta. E invece era solo lento. Come sempre, del resto. Era lento in tutto. Anche nel sesso. Quando scopavano, e per fortuna ormai non capitava più da un pezzo, era costretta a sbuffare e a incitarlo afferrandolo per i fianchi. E quando finalmente eiaculava doveva spingerlo fuori o sarebbe rimasto lì, abbandonato su di lei, a baciarle la guancia e a ficcarle la lingua in un orecchio.
Quel giorno Federica era esasperata più del solito. Bruno non si decideva a uscire di casa e lei avrebbe voluto sbatterlo fuori e sbarrare la porta con il catenaccio. Aveva appena scoperto dove suo marito nascondeva quel maledetto quaderno nero dal bordo rosso, che doveva aver trovato in chissà quale fondo di magazzino. All’inizio non ci aveva badato, ma poi si era resa conto che subito dopo Ferragosto, la notte, lui si appartava in cucina con la scusa della tisana serale e scriveva. Adoperava una stilografica costosa che sospettava fosse appartenuta ad Annabella, la precedente consorte. Defunta e mai dimenticata. Federica lo aveva spiato più volte dal salotto. Bruno la credeva sdraiata sul divano, lo sguardo incollato al televisore, invece stava immobile a pochi passi da lui, quasi trattenendo il respiro, affascinata dalle rughe che la concentrazione nella scrittura gli disegnava sul volto. Ogni parola doveva costargli una fatica enorme: una pallottola gli aveva frantumato la clavicola, lacerando muscoli e tendini, e la riabilitazione era ancora lunga e dolorosa.
Bruno era stato abile a occultare il quaderno fino a quella mattina, quando lo aveva visto entrare nello sgabuzzino dove conservavano le scarpe, calzando le solite orribili ciabatte di marca tedesca con suola sagomata in sughero, consigliate dal fisioterapista, e uscirne qualche attimo più tardi senza essersele cambiate.
Federica aveva ghignato di soddisfazione, si era chiusa nel bugigattolo e aveva iniziato a perquisirlo sistematicamente. Aveva scovato il quaderno infilato in uno stivale di gomma e non era riuscita a tenere a freno la curiosità di sbirciare la prima pagina. Il marito lo aveva intitolato, usando uno stampatello un po’ sbilenco: “Diario d’agosto”.
“Secondo il dottor Rampini la scrittura potrebbe essermi d’aiuto. Pare che abbia un grande potere curativo, e il medico sostiene che addirittura alcuni grandi romanzi siano nati dalla necessità di raccontare ansie, paure, fobie. Ma c’è un altro motivo che mi ha spinto a scegliere un quaderno tra i tanti che ho trovato in una cartoleria vicino all’ospedale. Mi ha colpito la severità della copertina, l’unica priva di ogni richiamo alla natura, ai giochi e alla giovinezza.
Mi è subito sembrato adatto allo scopo che mi sono prefissato: capire. Capire prima di decidere come affrontare la verità, o meglio quelle parti di verità che sono emerse, non certo grazie alle indagini del maresciallo Piscopo, che continua a mantenere nei miei confronti un atteggiamento a dir poco offensivo. È convinto che io conosca fin troppo bene i criminali che mi hanno perseguitato e aggredito, e che le angherie abbiano origine dai miei affari. Il suo sprezzo mi offende e la sua ottusità garantisce l’impunità ai colpevoli. Il problema è che ha convinto l’intero paese. Tutti mi credono coinvolto, tutti sono certi che abbia una doppia vita e che i soldi non li abbia guadagnati con il mio lavoro. Non solo il popolino, ma anche i maggiorenti, come vengono chiamati qui gli appartenenti alle famiglie di imprenditori e industriali. In poche parole: il mio ambiente. Vogliono bandirmi, costringermi ad abbandonare la valle dove avevo deciso di vivere il resto della mia vita. Questo potrei anche sopportarlo. Quello che non posso assolutamente accettare è che la più accanita sostenitrice di queste aberranti fantasie sia mia moglie. Federica vuole cancellarmi. Me lo ha annunciato in ospedale. Non potrò mai dimenticare quel momento: ero appena tornato dalla medicazione, spossato dal dolore, e lei mi ha aggredito incolpandomi di essere addirittura invischiato con mafiosi e narcotrafficanti, e di averla usata per allontanarmi dalla città, per nascondermi in valle sotto l’ala del buon nome della sua famiglia. L’assurdità che mi ha fatto più soffrire è stata essere accusato di averla messa in pericolo. Non l’ho più rivista fino a quando non sono stato dimesso e sono tornato alla villa. Era seccata di non essere potuta partire per le vacanze con le solite amiche, ma la necessità di affrontare gli aspetti pratici della separazione l’aveva costretta a rinunciare. Stiamo vivendo come due estranei. Ha perfino allontanato la cameriera per impedirle di alimentare all’esterno possibili chiacchiere. Una pena infinita.”
Federica richiuse di scatto il quaderno e uscì dallo sgabuzzino. Non voleva correre il rischio di essere scoperta, nonostante la curiosità bruciasse come fuoco. Trovò Bruno in cucina, intento a prepararsi un caffè. Ovviamente con il filtro, alla francese: il liquido colava goccia a goccia in una caraffa. Era l’unico in tutta la valle a perdere un quarto d’ora per bere una tazzina. Un tempo affatto lontano, quei suoi modi l’avevano affascinata, al punto che si era convinta a sposare un uomo più vecchio di lei di diciassette anni. Si era resa conto dell’errore quando era tornata in paese. In città il loro rapporto poteva funzionare, ma in valle una differenza di età così marcata era inconcepibile. Significava che la donna aveva qualcosa che non andava.
Eppure era stata lei a insistere con Bruno. Dopo il fallimento della delocalizzazione in Oriente del padre voleva tornare da signora, con un uomo ricco, di classe. Pensava di doverlo a se stessa e alla sua famiglia.
Si erano incontrati all’inaugurazione di un atelier di haute couture di una comune amica. Entrambi erano a conoscenza di tutto quanto occorreva sapere dell’altro, avevano approfittato dell’occasione per saggiare il terreno e si erano piaciuti. Bruno Manera era un uomo abbastanza colto e dai gusti raffinati nel campo enogastronomico e della moda. Requisiti fondamentali per frequentare certi ambienti senza essere scambiati per arricchiti, o pidocchi rifatti, come si usava definirli da sempre nella famiglia Pesenti. Federica era rimasta colpita anche dall’attenzione con cui evitava di ostentare la propria ricchezza. Di primo acchito non risultava particolarmente bello ma alle donne piaceva, e molto, e non solo per il conto in banca. Non era uno spilungone ma nemmeno basso, occhi nocciola, un ciuffo di capelli sale e pepe sulla fronte alta, un sorriso accattivante. E una pancetta appena accennata, per nulla spiacevole. E lei aveva trentacinque anni, la madre la ossessionava perché si sposasse e le desse un nipotino da viziare. Federica non aveva tanta voglia di un matrimonio, non l’aveva mai avvertito come una priorità, ma si era dovuta arrendere al trascorrere degli anni. Ad avere figli non ci pensava proprio e aveva sfruttato l’età di Manera come giustificazione.
La prima volta che erano andati a letto era accaduto nel grande appartamento di Bruno, il piano nobile di un antico palazzo nel cuore della città. Di quella notte ricordava solo quanto fosse rimasta affascinata dall’accuratezza dell’arredamento, una collezione del design italiano degli ultimi cinquant’anni, e dalla notevole raccolta di pittori italiani del Novecento che pendeva dalle pareti. Aveva subito capito che l’uomo che la stava corteggiando era molto più ricco di quello che pensava.
E adesso era proprio in città che suo marito, presto ex, sarebbe dovuto tornare. Federica era convinta che appena uscito dall’ospedale sarebbe fuggito dalla valle, invece era rimasto, rinunciando incomprensibilmente anche alle amicizie storiche, quasi volesse ricordarle in ogni momento l’errore di averlo sposato.
«Non posso arrendermi all’idea che finisca così» sbottò lui all’improvviso interrompendo il flusso di pensieri. «Io ti amo, ho investito tutte le mie energie nel nostro rapporto, mi sono trasferito qui…»
«Non è il momento, Bruno» tagliò corto lei, gelida.
Manera sbuffò, lavò la tazzina nonostante la presenza della lavapiatti. Una decina di minuti più tardi si affacciò in salotto, dove Federica fingeva di sfogliare una rivista.
«Non so a che ora tornerò.»
«Non mi interessa» ribatté infastidita. «Ci stiamo separando. Ognuno fa quello che vuole.»
Lui annuì in tono mesto e si allontanò zoppicando.
Federica attese immobile di udire il motore dell’automobile che usciva dal cancello. Poi andò a recuperare il quaderno e ricominciò a leggere in piedi, con la schiena appoggiata a uno scaffale.
“… I giorni passano e Federica fatica sempre di più a sopportare la mia presenza: anche solo vedermi le procura fastidio. Ha fretta. Ora ha un altro uomo e vuole liberarsi di me per vivere finalmente una vera storia d’amore. Che da quanto ho saputo è iniziata tanti anni fa, al liceo per l’esattezza. Poi il destino li ha separati finché lei non ha insistito per tornare a vivere in paese. Ero presente quando si sono rincontrati: è accaduto in banca, nell’ufficio del suo ex fidanzato. Ricordo la sorpresa di entrambi nel rivedersi. Perdevano tempo in convenevoli imbarazzanti, e per interrompere quello stucchevole siparietto sono stato costretto a sbuffare spazientito. Per gli amori giovanili di mia moglie non provo il minimo interesse.”
Dalla gola di Federica uscì un suono rauco. Bruno sapeva. Era certa, certissima che nessuno, soprattutto lui, fosse al corrente di quella relazione clandestina. Le sembrava di soffocare, uscì dallo sgabuzzino e corse in cucina. Aprì il frigorifero e si versò due dita di vodka. Il distillato ghiacciato si trasformò subito in calore confortante. Si sentì pronta a riprendere la lettura.
“Si chiama Stefano Clerici. Trentasei anni, consulente finanziario. Da circa otto mesi gestisce una parte considerevole del mio patrimonio. Non tutto, per fortuna. Il mio intento era quello di iniziare a investire in valle, sia nelle aziende sia nel settore immobiliare. Dal punto di vista economico la zona garantisce ancora una buona tenuta. ‘Di Clerici ci si può fidare. Non si permetterebbe mai di fregarmi’ ripeteva sempre Federica. E alla fine mi ha convinto. Secondo il giudizio del mio commercialista non è così abile, ma ho sempre sorvolato su questo aspetto per evitare di apparire come un vecchio geloso.
La degenza è stata lunga e solitaria. Avrei potuto chiamare qualche amico e so per certo che più facilmente diverse amiche sarebbero accorse al mio capezzale, attirate dall’allontanamento di Federica. Invece ho scelto di pagare un’infermiera, una donna ucraina rude ed efficiente, non solo per non dover dare spiegazioni, ma soprattutto perché ero convinto che mia moglie si sarebbe resa conto di essere stata ingiusta, che con onestà avrebbe frugato nel suo cuore e rimesso insieme i pezzi dell’amore che mi aveva giurato in tante occasioni.
Quelle lunghe giornate in ospedale, dopo il ferimento, rimarranno per sempre impresse nella mia memoria come i momenti peggiori che ho vissuto. Dopo quelli trascorsi ad assistere all’agonia di Annabella. L’amavo così tanto da sperare che smettesse di soffrire, e dirle addio è stata una liberazione. Nel momento in cui il cancro non lasciava più spazio alla speranza di guarigione, lei aveva preteso che le promettessi di trovare la forza per dedicarmi, con sincerità e trasporto, a un’altra storia d’amore. E ora temo che sia stato il più grande fallimento della mia esistenza.
Il tempo, a volte, sembra infinito, e riflettere diventa l’unico modo per non esserne sopraffatto. Nella stanza per dozzinanti numero 119, l’ultima in fondo al corridoio del reparto di ortopedia, ho cominciato a considerare i dettagli di tutto quello che era accaduto prima e dopo l’inizio delle ostilità nei miei confronti: il taglio delle gomme dell’auto.
Nonostante la meticolosità con cui catalogavo i ricordi, continuavo a imboccare vicoli ciechi.
Una domenica pomeriggio, però, la giornata peggiore da sopportare per il vociare affettuoso dei parenti in visita agli altri pazienti, si è presentato un signore.
Pensavo avesse sbagliato stanza o si fosse perduto. Invece era venuto a informarmi che non credeva alle tesi del maresciallo Piscopo e che, una volta dimesso, avrei dovuto indagare su mia moglie. Era certo che mi tradisse con il ‘dottor’ Clerici. L’aveva vista introdursi nella villetta del consulente finanziario, che risiede in una zona periferica e abbastanza appartata per entrare e uscire senza essere visti. Ma lui quella sera si trovava a poche decine di metri di distanza, protetto dal buio, e aveva pensato che non fosse certo l’ora più conveniente in cui una donna sposata, con il marito ricoverato in ospedale, potesse andare a trovare un ex fidanzato.
Non gli ho creduto, e accecato dalla rabbia l’ho insultato. L’ho accusato di essere a caccia di denaro o di chissà che altro. Lui non si è scomposto. Ha detto che comprendeva la mia reazione e mi ha invitato a ragionare. Se il maresciallo Piscopo aveva torto, mandanti ed esecutori andavano ricercati in paese. E le corna sono sempre un buon punto di partenza in questi casi, soprattutto se gli interessi economici sono appena dietro l’angolo. Si è espresso esattamente in questi termini, mi ha salutato ed è uscito dalla camera. Nonostante il dolore che mi procurava la sola idea che la mia donna mi tradisse, sono stato costretto a prendere in considerazione le sue rivelazioni e ora ho la certezza che Stefano Clerici è coinvolto nel complotto nei miei confronti.
Si voleva liberare di me cacciandomi dal paese, per tenersi Federica e i soldi della separazione, o forse il piano prevedeva la mia morte, nel qual caso i beni della vedova sarebbero stati più sostanziosi perché sono solo al mondo, non ci sono altri eredi.
Il dubbio che mi tormenta è se Federica sia davvero complice oppure sia all’oscuro del progetto criminale. Spero di scoprire la sua innocenza, perché la amo ancora. Un amore così disperato che, se anche appurassi che è realmente coinvolta, continuerei ad amarla…”
Il resto delle pagine era stato strappato, ma Federica non sarebbe stata in grado di leggere una sola altra parola.
Faticò a ritrovare la forza di alzarsi dal divano, di rimettere a posto il quaderno nello sgabuzzino e prendere le chiavi dell’auto. Il passo era incerto, la testa girava. Le sembrava di precipitare in un abisso senza fine. Salì in macchina. Svoltò a destra al primo incrocio, e duecento metri più avanti un fuoristrada si staccò dal marciapiede e iniziò a seguirla. Al volante c’era Bruno Manera.
L’uomo sperava con tutte le sue forze che la moglie non si recasse a casa di Clerici. Che la trappola tesa con infinita pazienza, usando come esca il diario, si rivelasse solo un’enorme e stupida perdita di tempo.
Invece il percorso non lasciava dubbi: era diretta dal suo amante.
Federica parcheggiò davanti al cancello di una villetta a due piani. Manera la guardò con sgomento attraversare il giardino a passo veloce. Stefano Clerici l’attendeva sulla porta. Indossava una tuta sformata. Bruno si chiese come potesse stare con un uomo così sciatto.
Il dolore lo costrinse ad appoggiare la fronte sul volante. Lo sentiva ovunque, come se si fosse irradiato dal braccio e dalla gamba al resto del corpo, ma era più forte dentro al petto. Ora era certo di averla perduta per sempre. Amava un altro, forse lo desiderava morto.
L’idea di farsi notare mentre scriveva era nata con un altro scopo: stuzzicare la curiosità di Federica per spingerla a leggere quello che non voleva ascoltare dalla sua voce. Ma poi quei frammenti di sospetti che si erano insinuati nella sua mente e l’atteggiamento sempre più ostile e sprezzante della moglie lo avevano convinto a elaborare un piano diverso. Era stato abile nel convincere Federica della segretezza del quaderno e nel lasciare che lei lo ritrovasse proprio quel sabato mattina. Era importante che Clerici non fosse in ufficio ma con maggiori probabilità nella sua abitazione. Bruno doveva vederla con i propri occhi mentre varcava la soglia della villetta, per avere la certezza del tradimento.
Che l’amante o entrambi fossero implicati nel suo ferimento era un altro discorso. Non aveva nessuna prova, ma se fossero stati colpevoli prima o poi lo avrebbe scoperto. In cuor suo sperava accadesse il prima possibile perché voleva smettere di essere terrorizzato da criminali sconosciuti.
Qualche minuto più tardi la portiera dal lato del passeggero si aprì e un uomo si infilò nell’abitacolo.
«Stai bene?» chiese a Bruno, posandogli delicatamente una mano sulla spal...

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