Aprile
Mi dice sempre di tenere tutto in ordine, mia madre.
Lo ripete all’infinito come si ripetono le cose che non devi dimenticare.
«Metti a posto le scarpe», «rifai il letto», «sistema la stanza»… È fissata, convinta che l’ordine sia essenziale, una fune alla quale aggrapparsi nei momenti quieti e in quelli agitati, quando rischi di perdere ogni riferimento. «Altrimenti la vita inizierà a scorrerti davanti e tu non te ne accorgerai nemmeno» insiste.
Il fatto è che, in paese, non è che ci siano troppe occasioni per perdersi. Qui è tutto semplice, tutto fermo e sempre uguale. Il corso principale, la piazza con la chiesa e la pasticceria che la domenica si popola come Alba Adriatica a Ferragosto, le case in pietra che si affacciano sulla valle… Una specie di cartolina a tre dimensioni dove non succede praticamente nulla. Un altro mondo rispetto a Pescara, che magari per chi è nato a Roma o Milano è uno sputo, ma per noi è la città, un labirinto di negozi e strade trafficate che ho imparato a conoscere negli ultimi anni, quattro per la precisione, cioè da quando mamma ha insistito perché mi iscrivessi a un liceo classico del centro.
Io non volevo. Non mi interessavano né la scuola né la città. Al massimo avrei scelto un liceo musicale o sarei andata direttamente a lavorare. Ma mamma era convinta, e quando mamma è convinta c’è poco da fare.
«La cultura salva» ripeteva lei, che non ha fatto neppure le superiori.
«E tu meriti il meglio, non la prima scuola che capita. Perciò» aveva sentenziato, «andrai dove decideremo io e tuo padre.»
Mentiva. Ma solo per quanto riguarda mio padre, perché entrambe sapevamo benissimo che non aveva voce in capitolo. Ormai eravamo abituate, c’eravamo quasi rassegnate: papà non avrebbe messo becco in quella decisione come in nessun’altra.
Prima era diverso, era presente, anzi era lo spago che ci teneva unite, che mediava tra le sue rigidità e la mia cocciutaggine, l’elastico che reggeva l’urto dei miei “no” e poi mi spingeva in alto, a dare il meglio. Tuttavia da circa sei anni, cioè da quando è stato per la prima volta in missione in Afghanistan, è cambiato, è sbiadito, trasformandosi in una specie di fantasma. Da allora lo guardo negli occhi e non lo riconosco. Non riconosco gli occhi e non riconosco lui, la persona che mi ha cresciuto ripetendomi: «Vai avanti per la tua strada senza perdere il sorriso», sia di fronte alle piccole delusioni quotidiane sia nei momenti più complicati, come quando il terremoto ha distrutto mezzo Abruzzo e le nevicate hanno spazzato via quel che restava. E non riconosco neppure la risata. Le poche volte che ce la concede mi sembra finta, costruita, spenta come il suo cuore.
E poi ci si è messo pure il lavoro. Non che stia dall’altra parte del mondo ma il centinaio di chilometri che dividono il paese dalla caserma dei carabinieri dove alloggia sembrano infiniti. Due, al massimo tre volte al mese torna da noi, resta un paio di giorni, poi svanisce di nuovo, lasciando me e mamma nella casa vuota. E forse è stata proprio la casa, una villetta su due piani che hanno prima sognato e poi progettato insieme, il motivo per cui è cambiato così tanto: inseguendo il sogno di una “vita dignitosa” per sé e la sua famiglia si era indebitato al punto che l’unico modo per far fronte a prestiti e mutui era stato partire per il Medio Oriente. Non una ma tre volte. Stava via diverse settimane e ogni volta era peggio. Tornava stanco, pallido, svuotato. Alternava momenti di affetto quasi eccessivo, come quando mi abbracciava stringendomi così forte da togliermi il fiato, a interminabili silenzi. A volte a metà di un discorso si bloccava e guardava nel vuoto. E la notte, quando era in casa, se uscivo dalla stanza per andare in bagno o in cucina, me lo trovavo lì, a osservare l’oscurità fuori dalla finestra.
Era partito per darci un futuro, ma violenza, miseria ed esplosioni avevano ucciso il suo presente. E per pagare il mutuo e i debiti che aveva accumulato con banche e finanziatori aveva finito per indebitarsi con la vita. E con me, che soffrivo questo suo essere intermittente, questo suo entrare e uscire dalla mia vita, questa sua chiusura verso chi gli voleva bene.
Chi non lo conosceva davvero probabilmente non se ne sarebbe neppure accorto, oppure avrebbe potuto pensare: Be’, è un militare, a forza di stare a regime è finito per rimanerne prigioniero. Ma io me lo ricordo com’era. Ricordo quando era un semplice brigadiere e la domenica ci costringeva a sfiancanti camminate nel bosco fuori dal paese, con lui che faceva strada e dietro mamma e io a sbuffare. Ricordo quando ci portava nel paesino dov’è nato, alle pendici del Gran Sasso, quattro case in croce abitate da vecchi che, quando lo riconoscevano, distendevano le rughe del viso e l’accoglievano come si accoglie un figlio, come un branco di lupi che ritrova uno di loro, come il cielo che accoglie l’arcobaleno dopo la pioggia più intensa. Ricordo quei momenti di felicità, i suoi occhi luminosi. Io me lo ricordo papà che sorrideva alla vita.
A differenza di papà, mamma non è mai stata generosa in fatto di sorrisi. Questo non significa che non sia felice o non apprezzi chi il sorriso ce l’ha o almeno ce l’aveva di serie come papà, del quale infatti, nonostante tutto, è ancora profondamente innamorata.
Solo che non lo mostra facilmente, ha una sorta di riserbo, come se non volesse sprecare una cosa tanto preziosa. Oppure è una questione di geni, di DNA, dato che nelle poche foto che conserva di quando era bambina nonno Francesco e nonna Gilda sono come lei, sempre seri, quasi accigliati. Per loro, però, era diverso, probabilmente non avevano proprio il tempo né la forza di sorridere.
Nonno lavorava nei campi e non conosceva né svaghi né vacanze, era la natura che scandiva la sua esistenza. Aveva troppo caldo per bagnare le piante? Le piante sarebbero morte. Era troppo stanco per dar da mangiare alle bestie? Le bestie non gli avrebbero dato da mangiare. Aveva la schiena spezzata e non riusciva a piegarsi per seminare il terreno? Il terreno non avrebbe prodotto niente. Nessuna deroga, nessuna eccezione. Nonna si occupava del resto: del pollaio, dell’orto e ovviamente di crescere mamma e i suoi fratelli. I sorrisi andavano razionati, come le scorte di legna durante l’inverno e l’acqua durante le estati.
Mamma è cresciuta in quel mondo duro ed essenziale finché intorno ai vent’anni ha incontrato questo ragazzo diplomato in ragioneria da poco diventato carabiniere, che col suo sorriso c’aveva messo niente per stravolgerle l’esistenza, insegnandole la bellezza dei baci e dell’amore, un sentimento che andava al di là di ogni bene materiale.
Nonostante abbia imparato a sorridere, mamma Elena è rimasta una donna severa, con la fissa per l’ordine, la precisione e la pulizia. E casa nostra, il suo regno, è il luogo ideale per esprimere questa fissazione.
«Sono una casalinga a tempo pieno» dice orgogliosa, senza ombra di rimpianto. E lo è per davvero, casalinga a tempo pieno: riempie ogni singolo minuto del suo tempo sistemando ogni singolo centimetro della casa. Tutto deve essere perfetto: la copertura del divano tirata come se nessuno si fosse mai seduto, la cucina brillante come quelle delle pubblicità, le finestre trasparenti che non sembra manco ci sia il vetro, e il water? è un soprammobile per quanto viene lucidato, talmente pulito che non andrebbe mai usato.
Per lei la perfezione è un valore, un obiettivo al quale tendere, oltre che il suo modo di presentarsi al mondo.
Una quarantina d’anni, i capelli lunghi e neri, mamma ha un fisico da fare invidia alle mie coetanee. Eppure non fa palestra, non segue diete particolari e non è fatta di plastica o di alcun altro materiale esistente su questo pianeta.
Il suo segreto è il rispetto del corpo, che accudisce come si nutre una piantina che continua a germogliare, e una vita piena e super regolare, che comincia rigorosamente alle cinque del mattino, quando… non so bene cosa faccia, dato che prima delle sette non apro occhio.
Ma quando succede, quando comincio a connettere, realizzo che è da diverso tempo che sento un gran fracasso fuori dalla porta, come se mamma stesse correndo una maratona tra cucina, bagno e salotto. Gli unici avversari? Il tempo, i minuti, l’orologio.
Tuttavia quando decido di alzarmi dal letto e di uscire dalla stanza non c’è traccia del suo passaggio.
Ogni mattina mi aspetto di trovare la poltrona al posto del frigo, la televisione in bagno o i quadri sparpagliati per terra invece è tutto al suo posto, come i pezzi del Tetris che si incastrano alla perfezione.
Sul tavolo della cucina c’è sempre una tovaglietta linda e stirata con un bicchiere di succo di frutta senza zuccheri aggiunti, un caffè delicatamente amaro e una tazza di latte ai cereali. Anche se non l’ho mai vista all’opera ne sono certa: mamma misura quel latte perché non capita mai che ne versi di più o di meno del giorno precedente. Eppure il misurino è sempre riposto accanto ai fornelli e non ci sono gocce di latte né dentro né sul bordo della tazza.
In bagno lo stesso: ogni mattina asciugamani puliti, accuratamente riposti e riscaldati sul calorifero.
Non so quando lo faccia, se lavi e stiri la mattina presto o a notte fonda, fatto sta che anche in questo caso non lascia traccia del suo passaggio, né della fatica che l’è costato. L’unica cosa che conta è il risultato. Che tutto sia al posto giusto al momento giusto, che ogni bullone sia saldamente ancorato al ciclo della vita.
Al suo fianco, mi sento una lampadina fulminata all’interno di un grande lampadario. Un minestrone di verdure freschissime che dovrebbe uscire perfetto e invece risulta disgustoso: il perfetto paragone tra me e lei, per restare in tema casalingo, lei quello riuscito, io quello che non supera le ovvie aspettative.
«Lana, ti conviene andare o rischi di perdere il pullman.»
Sono le sette e trenta di un lunedì qualsiasi di primavera, ma potrebbero tranquillamente essere le sette e trenta di un qualsiasi altro giorno dell’anno.
È sempre così, una specie di rito: ogni volta che sono sul punto di svuotare la tazza mi invita a far presto per non perdere il pullman, sebbene il pullman passi una ventina di minuti più tardi.
E io mai che la corregga o glielo faccia notare: mamma fa così tanto per me e tiene così tanto alla mia istruzione che non voglio darle preoccupazioni.
Anche perché quei venti minuti che trascorro alla fermata non sono tempo sprecato, anzi sono l’occasione per dedicarmi a una delle mie attività preferite, il modo migliore per cominciare la giornata, con le cuffiette nelle orecchie e la voce di Coez a portarmi lontano.
Come ogni giorno, anche questa mattina mi affretto a mandare giù latte e caffè e a uscire di casa. E anche questa mattina, dopo aver chiuso la porta alle mie spalle, esito un istante, giusto per sentire mamma che comincia a rassettare.