La serratura arrugginita oppone resistenza. L’uomo deve forzare, togliere la chiave, riprovare. Anche qui fa terribilmente caldo. Non come in città o in pianura, ma comunque caldo. La temperatura sfiora i trenta gradi. L’uomo sbuffa, sembra riflettere un secondo, quindi dà una leggera spallata alla porta, girando contemporaneamente la chiave. Un clic: il pesante battente di legno con la vernice scrostata cede e si apre verso l’interno, verso l’oscurità e il fresco.
Probabilmente sono mesi che nessuno entra in casa. Aleggia un tenue odore di rancido, ma l’impressione sgradevole è spazzata via dal fresco che vi regna. Ventidue gradi: ho il tempo di calcolare la temperatura interna. Non di più. Perfetto. Sento l’uomo che si muove al mio fianco, posa in terra la valigetta professionale in similpelle. Tintinnio di chiavi. Se le sta infilando nella tasca dei pantaloni.
«Cerco l’interruttore» precisa.
Aspetto diligentemente in piedi nell’ingresso buio. Non ho niente di meglio da fare. Aspettare è diventata la mia seconda natura da quella sera del 21 giugno. La mia unica occupazione. L’uomo sbuffa. Il caldo? La difficoltà di cercare l’interruttore al buio? Non lo aiuto. Non ci penso. Aspetto.
Tra gli spessi muri della vecchia casa scorre un tempo indefinito. Noto l’assenza di vicini e il silenzio. Anche questa è una buona cosa.
«Eccoci, mi scusi.»
La luce illumina l’ingresso all’improvviso. L’agente immobiliare si asciuga la fronte, mi rivolge un sorriso desolato. È convinto che fuggirò a gambe levate. La luce fioca della lampadina, l’odore di rancido, la porta difficile da aprire – probabilmente il legno si è gonfiato per l’umidità … Ma non me ne vado di corsa. Osservo il corridoio in cui mi trovo. Un corridoio buio, senza finestre. Mattonelle rossicce. Muri bianchi. Battiscopa in legno scuro. Un quadro che raffigura una chiesa in pietra.
Sento che estrae dei fogli. Rilegge gli appunti. Non è pronto. Si asciuga di nuovo la fronte sudata. Io non mi muovo. Non faccio domande. Ce la farà . O forse no. Poco importa.
«La casa è del 1940. La facciata è stata rifatta dieci anni fa. L’inverno scorso hanno isolato il tetto.»
Mi sembra di intuire un barlume di soddisfazione nel suo sguardo. Probabilmente è un punto di forza. Fisso il quadro con la chiesa, senza guardarlo realmente.
«La superficie è di sessanta metri quadrati. La porta alla sua destra conduce alla camera da letto, quella di sinistra al bagno.»
Tende il braccio, mi scruta. Mi ci vogliono diversi secondi per capire che mi sta invitando ad avanzare, a fare qualche passo e ad aprire la porta sulla destra. Ho la mente rallentata. L’uomo decide di precedermi, con un sorriso nuovamente dispiaciuto.
Questa porta si apre con più facilità . A parte un leggero cigolio, niente di rilevante. I suoi passi si attutiscono. Ne deduco che dev’esserci la moquette.
«Apro le imposte.»
Aspetto. Un rumore di maniglia girata. Un cigolio rauco. Un raggio di luce fioca. Una spinta più energica che provoca stavolta uno scricchiolio deciso. Un secondo dopo, la luce entra nella stanza. Un raggio di sole attraversato da granelli di polvere che volteggiano pigramente. Come previsto, c’è la moquette, dello stesso color ramato delle mattonelle in corridoio. C’è anche un letto. Grande. Con la testata in legno massiccio, pesante, scuro. Un vecchio armadio di legno grezzo, alto. Nient’altro. Solo l’essenziale. Mi piace. Non chiedo niente di più. Silenzio, fresco e poco sole.
«La finestra è a est. Potrà vedere il sole che sorge sul bosco, se è mattiniera.»
Non sa che non ho alcuna intenzione di aprire le imposte. Rimanere al buio.
«Ha qualche domanda?»
«No.»
La risposta lo sorprende? Non mi soffermo sul suo viso. Mi limito ad aspettare. La fine della visita. Le chiavi. Chiudermi dentro.
Torniamo in corridoio. Porta di sinistra, stavolta. Stesse operazioni. Imposte che cigolano. Luce che entra. Una vecchia vasca da bagno, di un orrendo color salmone. Un bidet. Un lavabo. Qualche armadietto.
«Bisognerà far scorrere l’acqua per un po’… È stata chiusa per diverso tempo. Immagino che all’inizio sarà un po’ gialla.»
Acqua gialla. Acqua trasparente. Insomma, acqua.
La luce va e viene quando imbocchiamo il corridoio. Ci sarà da cambiare la lampadina. L’uomo apre l’ultima porta, tossicchia. La stanza dev’essere piena di polvere. Tra l’accensione dell’interruttore e la comparsa di una luce pallida ci vuole qualche secondo. La stanza ha lo stesso stile delle precedenti: pavimento rossiccio, cucina attrezzata di legno scuro, carta da parati color salmone, decorata con un motivo di bambù bianco. Si apre una finestra, poi le imposte, in modo da cambiare l’aria. La luce mi costringe a strizzare gli occhi. Non sopporto tutto questo sole. Il cielo azzurro è un insulto. Mentre l’uomo parla, mi allontano dalla finestra. Cerco il fresco, l’oscurità .
«Come può vedere, l’ex proprietaria aveva un orto. È abbandonato, ma se le viene voglia basterà qualche colpo di zappa per ripristinarlo.»
Si interrompe. Mi fissa, credo.
«Non vuole vederlo? Va tutto bene, signora? Le dà fastidio la luce?»
«Ho mal di testa.»
«Mi scusi. Chiudo le imposte.»
Gliene sono grata. Prosegue, convinto che sia necessario per firmare il contratto d’affitto oggi stesso: «La proprietaria era una signora anziana. È morta tre anni fa. Da allora la casa è rimasta vuota… Non che non sia in buono stato, anzi, è stata perfettamente conservata dalla figlia della proprietaria, che vive dall’altra parte della Francia ma torna qui una volta l’anno per fare un po’ di manutenzione. L’isolamento del tetto l’anno scorso, per esempio…».
Non lo ascolto più. Lui non se ne accorge.
«Ma il problema è che la gente fugge dalle zone rurali. Succede dappertutto. Quasi nessuno sogna più di abitare nell’Auvergne.»
«I mobili rimarranno?»
Conferma, non troppo infastidito dal fatto di essere stato interrotto.
«Certo. Rimarrà tutto. La figlia della signora Hugues, la proprietaria, ha voluto lasciare intatti gli interni e ha conservato anche gli effetti personali della madre. Forse perché prevede di venirci ad abitare un giorno… Per esempio, quando andrà in pensione. La roba è tutta di sopra, in soffitta. Perfettamente in ordine, negli scatoloni, ma se le dà fastidio posso provare a contattarla…»
«Non mi darà alcun fastidio.»
Si frega le mani, soddisfatto.
«Se vuole, può fare un secondo giro della casa.»
«No. Va bene.»
«L’orto, magari?»
«Il fatto è che ho fretta.»
«Ah…»
«Potremmo firmare le carte adesso?»
Cade dalle nuvole, lo vedo. Non si aspettava certo di spuntarla così facilmente. Sono tre anni che sta cercando di affittare questa casa. Una sola visita e l’affare è concluso.
«È sicura?»
Si stupisce lui stesso della domanda, glielo leggo in faccia.
«Sì.»
«Bene, allora… Sì, ho le carte in macchina, ma avrò bisogno della sua documentazione.»
Non gli lascio finire la frase e mi metto a frugare nella borsa. Ho preparato tutto, i documenti richiesti sono sistemati con cura in una cartellina di plastica. La carta d’identità , la dichiarazione dei redditi, le ultime buste paga, gli atti del notaio sul testamento e la somma di denaro che mi spetta.
«Oh… Ha già tutto? Perfetto!»
Ci sediamo al tavolo della cucina per compilare il contratto d’affitto e sbrigare le altre formalità .
«Mi ha incuriosito.»
Mi ci vuole qualche secondo per capire che si sta rivolgendo a me e che ha finito di sistemare i documenti. Mi osserva, i palmi delle mani appoggiati sul tavolo.
«Prego?»
«Non è della zona?»
«No. Vivevo vicino a Lione.»
«Ha dei parenti da queste parti?»
Scuoto il capo. Il rumorino che gli sfugge dalle labbra tradisce il suo stupore.
«Strana idea, per una donna sola, trasferirsi in un posto così isolato.»
Non otterrà alcuna risposta, e la conversazione finisce lì. Gli restituisco il contratto firmato in duplice copia e la biro blu.
«Bene, allora possiamo passare all’inventario dei mobili.»
Lascio la porta aperta finché l’auto dell’agente immobiliare non scompare alla fine del viale, poi nel bosco fitto che ricopre le colline circostanti, e chiudo il pesante battente. L’oscurità , il silenzio, il fresco. Resto appoggiata alla porta di legno per lunghi secondi, per assicurarmi che non torni, per assicurarmi di essere finalmente sola.
Non ho portato molto con me. Una valigia sola, che è nel bagagliaio dell’auto e che aspetterà . Ho lasciato il resto, soprattutto le fotografie. Non voglio nulla che mi ricordi la mia vita precedente. Quella prima del 21 giugno e della notte che è seguita.
Come fanno le persone? Come si può veder crollare il tuo universo e riprendere la stessa vita che facevi? Tornare al lavoro dopo qualche giorno, continuare ad abitare nello stesso appartamento, frequentare lo stesso quartiere… È al di sopra delle mie forze. Hanno abbandonato il mio mondo all’improvviso, tutti e due, la stessa notte, e a partire da quel momento quel mondo, il mondo in cui mi muovevo, respiravo, mi svegliavo da ventinove anni, quel mondo non esiste più.
Ho lasciato le chiavi dell’appartamento ad Anne. Ci penserà lei. Non l’ho vuotato. Non ne ho avuto né il tempo né il coraggio. Ho preferito andarmene il più in fretta possibile. È rimasto tutto com’era. Probabilmente la tisana che stavo bevendo quando ho sentito suonare il citofono è ancora sul piano di lavoro. Il catalogo che stavo sfogliando è ancora aperto accanto alla tazza e le scarpe di Benjamin sono rimaste nell’ingresso.
Uscita dall’ospedale, tutto ciò che desideravo era fuggire dall’estate, dal sole cocente e dalla folla festante sulle rive del Rodano. Avrei preferito che fossero morti d’inverno, in una sera di pioggia torrenziale, sotto un cielo grigiastro. Non con un sottofondo di orchestre, petardi e risate, non in quel primo giorno ...