Nuvole zero, felicità ventitré
eBook - ePub

Nuvole zero, felicità ventitré

  1. 288 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Nuvole zero, felicità ventitré

Informazioni su questo libro

È l'estate tra la quinta e la prima media, quella senza compiti.
Ernesto passa le giornate a girovagare con i suoi amici, la Maura e il Cardella, e a misurare il cielo con uno strumento che una bufera di vento gli ha portato in cortile, un cianometro. Meglio tra le nuvole che a casa, d'altronde, dove i suoi genitori ormai litigano in continuazione.
Un pomeriggio, Ernesto e il Cardella trovano in pineta una vecchia valigia che contiene due statuette di legno, uno strano libro e una piccola chiave. I due amici si dividono il bottino, ma al momento di separarsi una forza potente li attira l'uno verso l'altro. Sonole statuette che non vogliono stare lontane. Ma come fanno? Sono magiche? Grazie alla nonna, Ernesto scopre che le statuette, il libro e la chiave sono collegati con la leggenda di due innamorati vissuti nel '700. A quanto pare per ritrovarsi i due innamorati hanno bisogno proprio di lui, di Ernesto detto Quattrocchio. Nel frattempo a casa la situazione peggiora, ed Ernesto vorrebbe tanto far tornare insieme anche i suoi genitori...
Ma è tutto così complicato, come si fa a capire in che modo aiutare gli altri? E aiutare gli altri è sempre la cosa giusta da fare? Stefano Tofani torna a raccontare del tenerissimo Ernesto in un romanzo ironico, avventuroso e pieno di sfumature, come l'azzurro del cielo.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2021
Print ISBN
9788817155267
eBook ISBN
9788831803854

1 luglio, ore 9.05

Cielo: 23
Tre nuvolette rotonde,
bottoni sulla giacca del cielo.
Fifa: 53
Tristezza: 41

LA SIGNORA DELLE MAPPE

L’amore è quando i tuoi genitori in macchina cantano una canzone scema della radio. Il non amore è quando guardano fuori ognuno dalla propria parte e stanno zitti anche se passa la canzone più bella di Sanremo.
Mamma spegne la sigaretta e sbuffa. «Quanto manca?» chiede.
Papà la guarda e non risponde, poi sbircia nello specchietto e guarda me. «Quanto manca?» mi fa.
«Sedici minuti» dico.
Ho il cellulare della mamma, lei non le sa usare le mappe, non le conosce proprio. Ce le ha insegnate papà, stamani, prima di partire. La signora delle mappe ha una voce un po’ strana e ha già sbagliato tre accenti, però le strade le conosce tutte e ti dice anche se stai per finire in un ingorgo. Te lo segna di rosso. Superiore. Secondo me è la stessa che ti dice: «Arrivederci e grazie» quando paghi il pedaggio dell’autostrada da solo.
Prima l’ho detto a papà e lui s’è messo a ridere.
«Perché? Non potrebbe essere?» gli chiedo.
«No» dice. Poi fa tutto un discorso sul mondo, sul lavoro. Ci capisco poco, e comunque non mi convince mica.
Per me la signora delle mappe ha i capelli castani e lavora da casa. Me la immagino che dice: «Alla rotonda prendere la terza uscita» mentre è seduta a fare la pipì o la cacca, i figli sono a scuola e il marito in ufficio. Sta dalla mattina alla sera in pigiama, conosce tutte le strade ma non esce mai.
Arriviamo all’ospedale dieci minuti prima dell’appuntamento e troviamo parcheggio quasi subito. Poi ci avviamo verso il padiglione 7. Mamma l’ha ripetuto cento volte: padiglione 7, edificio 14. Padiglione 7, edificio 14. Una specie di tabellina. Ci fermiamo a guardare un cartello gigante, subito dopo il cancello, con la piantina e i numeri. Accanto a noi c’è un ragazzo con la testa fasciata e una macchia di sangue sulla fronte. Sbuffa, sembra uscito da un film.
Il sole picchia come a casa nostra, anche se siamo più a nord; gli alberi sono appena nati, ombra ne fanno zero.
«Eccolo!» dice papà a un certo punto. Indica la piantina poi si avvia verso destra, senza nemmeno aspettarci. Le famiglie infelici camminano in fila indiana.
«È lontano?» gli grido.
Lui dice di no e mi indica un palazzone rosa a un centinaio di metri. La mamma si ferma un attimo e mi guarda, poi con un pizzicotto si leva le mutande dal sedere e si rimette in moto. Mi fa strano vedere mamma e papà così vicini: sono mesi che litigano e si urlano le cose in faccia, che si lasciano e si riprendono. Ora che ci penso: li ho mai visti mano nella mano come gli innamorati? Hanno mai cantato insieme una canzone scema?
Nella sala d’aspetto del professor Capecchi ci sono due persone: un vecchietto con una benda sull’occhio che ci fa un mezzo sorriso appoggiato al suo bastone nero e una signora che sbuffa e passa velocissime ditate sul telefono. Sono insieme, hanno l’appuntamento mezz’ora prima di noi.
«Sempre in ritardo i dottori…» dice la mamma guardando fuori dalla finestra.
Io mi siedo accanto a papà, lui fa uno sbadiglio gigantesco e si passa la mano sulla faccia. Ha guidato per 316 chilometri, di cui 270 su strade ad alta velocità. La signora delle mappe gli ha consigliato di fare una sosta, ma lui non le ha dato retta. Stai a vedere che ora si addormenta, sono comode queste poltroncine blu.
Il vecchietto ha voglia di parlare e così tocca alla mamma dargli spago. Io figurarsi se voglio sentir chiacchierare di laser, aghi, anestesie, e così me la svigno, esco nel corridoio.
«Ernesto, non ti allontanare…» fa papà, già mezzo in catalessi.
«Sono qui» dico e comincio a guardare le cose appese alle pareti: la scritta «OCULISTICA − Prof. Pierangelo Capecchi», il cartello «VIETATO FUMARE», un estintore, il quadro di un laghetto pieno di ninfee, il poster di una conferenza dal titolo lunghissimo, il cartello «VIETATO FOTOGRAFARE», una mosca ferma sulla parete, una freccia verso destra, una verso sinistra, un pulsante da premere in caso di incendio.
L’ospedale ha le pareti di un azzurro chiaro tra il 13 e il 17, me le aspettavo bianche; il pavimento è lucido come un pesce appena pescato. È molto più grande della clinica dove vado di solito per gli occhi: là c’è un padiglione solo e senza numero. Passano due infermiere vestite di verde dalla testa ai piedi. Parlano sottovoce. Un signore tutto elegante alza gli occhi dal telefono e le squadra, poi tira su una narice come se gliel’avessero agganciata dal soffitto con un filo.
Comincio a sentire gli acchiappi della fifa alla pancia. Come quando sono dal dentista, ma di più. Su internet ho visto la faccia del professor Capecchi: ha gli occhi uguali a Yoda di Star Wars, tutti in fuori, e i capelli di un PlayMobil, neri e come incastrati sulla testa. Fa paura, dovevo rifiutarmi di venire. Papà e mamma non avrebbero rotto più di tanto.
«Magari ti fanno una piccola operazione e non devi più portare quegli occhiali spessi come fondi di bottiglia» aveva detto papà per convincermi.
«E non ti chiameranno più Quattrocchio» aveva detto la mamma.
Solo Ernesto. Mi piacerebbe, nessuno che mi prende in giro. Salvo e Tanfata che finalmente se ne stanno muti, in classe, al mare, al bar. Ma se penso di fare un’operazione con gli aghi o con il laser casco per terra come una susina, uguale uguale a quando ho beccato uno di quei programmi TV che ti fanno vedere com’è in sala operatoria e c’era un organo sanguinante in primo piano, la milza o forse il fegato, ancora dentro il corpo del paziente. Sono svenuto. La nonna ha dovuto rifilarmi un paio di schiaffi.
Sembra facile. Mica dovete farla voi l’operazione! Metti che il professor Capecchi dice: «Ragazzo ti operiamo». Sono io che vado sotto i ferri. E se si sbaglia e dopo divento cieco?

LE COSE SUPERIORI

Cose superiori ce n’è uno sfacelo al mondo: il gatto del Cardella, tanto per dirne una; la moto del Nasuto tanto per dirne due. Ma una delle più superiori in assoluto ce l’ho io e non la cambierei con nessun’altra. L’ho trovata in cortile qualche mese fa dopo che per tutta la notte aveva fatto una specie di uragano. Un vento assurdo, pioveva, volavano le cose. Al mattino c’era un sole mai visto e quest’affare era lì, nel mio cortile, arrivato da chissà dove, insieme a uno sfacelo di altre cose: rami spezzati, lo scheletro di un ombrello, una maglia strappata, un paio di uccelli morti. Era in un astuccio di legno, basso, spiccicato a quelli delle tempere. L’ho raccolto, l’ho aperto e sono rimasto a bocca aperta: c’era un anello di cartoncino con numeri e colori. L’ho portato a scuola e Google e la maestra Sonia hanno detto che si trattava di un cianometro, «uno strumento scientifico del 1700 costituito da un cerchio con un grosso buco al centro, una specie di anello molto grande, la cui circonferenza è divisa in 53 settori, numerati e con tutte le sfumature di azzurro (il n. 1 è un celeste quasi bianco, il n. 53 un blu quasi nero)». Serviva a misurare il colore del cielo, il cielo che ci vedevi dentro! Superiore, ho pensato. Chissà da dove arrivava!
Lo abbiamo provato tutti, abbiamo misurato il cielo delle nove e quello di mezzogiorno. Anche la maestra Sonia, anche quella smorfiosa di Sara-con-la-h. Solo a Tanfata non glien’è importato una mazza: lo ha usato come un volante per fare lo scemo come al solito.
Da quel giorno lo misuro tutti i giorni, il cielo, e mi segno su un quaderno il numero. Ho tantissimi 26, un azzurro che ti spacca in due. E a poco a poco lo comincio a capire, il cielo: è come un animale che respira e cambia e non si ferma mai.

LA MAMMA

La mamma va a lavorare un giorno sì e un giorno no. Fuma, tiene i capelli legati, ascolta canzoni schifose e pulisce casa solo mezz’ora prima che arrivi la signora delle pulizie, due volte a settimana. Sta sempre con il cellulare in mano, anche a tavola. Di notte piange come una fontana per la sua amica Veru, che è andata metà in cielo e metà sottoterra, e per il papà, che è andato a stare in città, tutto intero. Quando piange mi chiama nel lettone e io ci vado anche se non ne ho voglia, perché sennò ci resta male e piange ancora di più. Una volta ha pianto tutta la notte. Dico io: ma si può piangere a nottate per papà? Non hai ancora capito che ritorna? Non è la prima volta che va via. Goditelo questo periodo senza litigate, questi cinque o sei giorni di pace. Per la Veru a piangere fai bene: l’ho fatto anch’io, poi ho deciso che conviene immaginarsela viva e chiacchierarci come se nulla fosse, perché la morte esiste solo se ci pensi o se vai al cimitero. Non viene più a trovarci, ok, ma è come se mi parlasse ancora: Ti sei fatto grande, cicciolo, tra poco ti troveremo in qualche pub.
«Vieni qua» mi dice la mamma tirando su con il naso, poi mi abbraccia e mi infradicia il collo di lacrime e di moccio. Mi annusa senza dire una parola e quando smette di piangere si addormenta tenendomi stretto così forte che quasi mi fa mancare il fiato. Cerca di prendere l’unica cosa buona che ho, che mi faccio abbracciare in silenzio, come un qualsiasi pupazzetto di peluche. Restiamo al buio per una mezz’ora, lei che russa, io che mi annoio a morte. Con la luce accesa e in quella posizione scomoda non riesco a dormire, allora per passare il tempo guardo i cerchi colorati del lenzuolo e ci parlo, poi divento minuscolo e ci cammino dentro: quello giallo è un pianeta inesplorato, quello verde è un albero gigante, quello azzurro è un lago dove fare il bagno.
Faccio parlare le dita certe volte. Il pollice ha la voce roca come uno che fuma cinquanta sigarette al giorno, il mignolo ha la vocetta da topo di Tanfata.
«Ehi! Ci sono le rane in questo lago!»
«Che schifo!»
«Ma non sono mica le rane puzzolose…»
«Mi fanno schifo lo stesso!»
«Va bene… Allora seguimi, più avanti c’è una piscina tonda!»
«Dov’è? Sei sicuro? Io vedo solo alberi.»
«Ho detto seguimi… Guarda! Là in basso!»
«Superiore! Là sì che si può fare qualche tuffo!»
«Attenzione, però! È la piscina della villa del professor Capecchi, un assassino che ti incenerisce gli occhi con il laser…»
Camminano in mezzo ai cerchi come se si trovassero in un mondo con uno sfacelo di cose superiori: draghi che uccidono principi, formiche che schiacciano oculisti malefici. Poi quando mi sono annoiato slaccio le mani di mamma superpiano, per non svegliarla, scivolo giù dal lettone e torno in camera mia. Mi sdraio a pancia in su e penso ancora un po’ a quel pianto, alla Veru e al papà che se ne sono andati, ai cerchi colorati del lenzuolo, e tutto si confonde sul soffitto, buio e luce, la realtà e le storie che mi invento, poi finalmente mi si chiudono gli occhi e mi addormento.

LE LACRIME NEI GRANDI

Sono strane le lacrime nei grandi: escono poco e per due cose opposte, la tristezza e la gioia, come se traboccassero da un serbatoio ficcato dietro gli occhi. Servono per sfogarsi e per far capire agli altri cosa stanno provando in quel momento. Le lacrime le alleni a uscire con i film d’amore e le cipolle, e infatti i papà – che in TV guardano solo le partite di calcio e non cucinano mai – piangono molto meno delle mamme.

LA VERU

La Veru era la migliore amica della mamma, sempre abbronzata come appena tornata da una settimana bianca o da un viaggio di nozze alle Maldive. Veniva spesso a casa e a volte chiacchieravano – parlavano male di papà –, a volte uscivano insieme. Mentre aspettava che la mamma fosse pronta si toglieva le scarpe e si accomodava sul divano, poi si metteva a parlare con me. Una volta aveva voluto provare la Wii, superiore. Un’altra si era messa ad aiutarmi con le divisioni ma mi aveva mollato dopo cinque minuti. «Non fanno per me» aveva detto.
Aveva la stessa età della mamma ma sembrava più giovane, perché uno: non aveva figli, due: non aveva marito. Rideva sempre, a volte canticchiava. La Veru è stata mille cose belle e una bruttissima: l’unico funerale dove sono stato. Tutte quelle persone sedute sulle tombe, appoggiate alle croci, con le facce tristi. Piangevo a scatafascio, tutti i miei amici mi fissavano. Il Cardella e la Maura più degli altri, a bocca aperta, come davanti a un film. E io mi vergognavo delle lacrime e tenevo lo sguardo a terra il più possibile, sulle scarpe nuove inzaccherate, sulle formiche che filavano tra i sassolini grigi della ghiaia. Il puzzo dei fiori bagnati sulla bara mi faceva svenire dallo schifo e cercavo di non respirarlo, ma a piangere senza respirare come fai? Allora cercavo di pensare soltanto a cose belle, come di notte dopo che ho fatto un incubo, ma le avevo pensate tutte in quei due giorni e se usavo le stesse non funzionavano più.
Ogni tanto guardavo come si muoveva il cielo, l’azzurro che sbucava svelto tra nuvole cattive, e pensavo a come sarebbe stato puntarci il cianometro con tutte e due le mani, proprio come aveva fatto con l’ostia don Cioè: come a ficcare in cielo Dio, per essere sicuro che ci fosse.
Tenevo stretta la mano della mamma e sbirciavo la bara con i fiori, e la fossa già scavata. Il manico di una pala che spuntava e il mucchio della terra per coprirla. Mettevano sottoterra anche le ghirlande o le lasciavano fuori? Non ho voluto vedere quel momento, mi sono fatto accompagnare a casa da papà.
Piaceva a tutti, la Veru. Faceva ridere e fuori era perfetta. Dentro invece aveva una malformazione ficcata in fondo al cuore, e una mattina non s’è proprio svegliata. Ho sentito raccontare la storia di quella mattina mille volte, da chiunque, al telefono, al bar, al funerale. Dico io: ma con tutti i giorni superiori che ha vissuto perché si deve raccontare sempre e soltanto l’ultimo, il più schifo di tutti?

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. NUVOLE ZERO, FELICITÀ VENTITRÉ
  4. 1 luglio
  5. 2 luglio
  6. 3 luglio
  7. 4 luglio
  8. 5 luglio, ore 14.10
  9. 6 luglio
  10. 7 luglio
  11. 8 luglio
  12. 9 luglio
  13. 12 luglio
  14. 13 luglio
  15. 14 luglio
  16. 15 luglio
  17. 16 luglio
  18. Copyright