Se questo libro fosse un manuale per diventare videomaker, per gestire un’azienda o per raggiungere il successo partendo dal vostro scantinato, vi racconteremmo i passi da fare, gli errori da evitare, il modo migliore per organizzare meeting e business plan. Insomma, vi guideremmo passo passo lungo la strada giusta per centrare i vostri obiettivi. Sfortunatamente per voi, questo non è un manuale, perché non esistono regole nel nostro percorso. E se anche esistessero, a noi non piace insegnarle. Quello che ci piace fare è raccontare storie.
Anche The Jackal è prima di tutto una storia. Una storia di amicizia, di fallimenti e di vittorie, di strade prese, di strade perse e di strade solo abbozzate. Cominciata molto prima che spuntassero YouTube e i social network, quando i modem a malapena esistevano, e quei pochi che c’erano tenevano occupata la linea fissa producendo un rumore infernale ogni volta che si connettevano.
Se fosse un film, inizierebbe con un lungo piano sequenza. Melito, Napoli Nord, esterno giorno. È un mattino luminoso, le macchine sfrecciano sulla strada, l’asfalto è chiazzato di buche. C’è un brutto edificio scrostato, un parallelepipedo color panna. Davanti, centinaia di persone. Ragazzini, per la gran parte. La telecamera si insinua tra la folla, si sofferma su qualche particolare – zainetti colorati e scarpe da tennis, jeans a vita altissima e calzini bianchi di spugna – e arriva alle spalle di un undicenne con una pettinatura strana: capelli lisci con la riga di lato che, dietro, lasciano il posto a un ciuffo che non ne vuole sapere di restare al suo posto, schizzando verso l’alto. Tipo Alfalfa di Piccole canaglie.
Eccomi, sono io. Mi chiamo Simone, Ruzzo Simone. Sono quello che si è perso dentro Google, che ha urlato «Buongiorno, signoraaa» affacciato al balcone e che ha sterminato i fottuti musi verdi con un sigaro in bocca. Spero vi ricordiate di me. Se così non fosse, poco male: sappiate che questa storia ve la racconto io, che c’ero fin dall’inizio.
Quel mattino di metà anni Novanta ha assunto nel tempo i contorni fantastici che solo i ricordi d’infanzia riescono ad avere. Era il primo giorno di scuola. Per noi, usciti dalle elementari soltanto pochi mesi prima, si trattava di un vero e proprio rito di passaggio. Lasciavamo per sempre il mondo delle figurine Panini e dei Super Liquidator per entrare in quello – sconosciuto e spaventoso – del Topexan spalmato con foga davanti allo specchio.
«Oggi entro da solo. Che credete?» dissi con espressione seria ai miei genitori. «Mica ho quattro anni!»
Per certificare che il discorso era chiuso, mi girai e varcai il cancello d’ingresso. Mamma cercò di darmi un bacio sulla fronte, ma io la scansai prontamente. Era la mia iniziazione al mondo dei grandi e volevo compierla da grande. Ma ero agitatissimo. Così, invece di raggiungere il gruppetto dei miei amici delle elementari, mi allontanai con discrezione verso il giardino – quel giardino enorme e sconosciuto. Raggiunsi un albero dal tronco sufficientemente ampio e lo oltrepassai. Gettai un’occhiata alla mia destra: nessuno. Alla mia sinistra: nessuno. “Bene” pensai. Solo a quel punto mi lasciai andare a una vomitata liberatoria.
Non era la prima volta che mi capitava e – lo ammetto – non sarebbe stata l’ultima. Ero uno di quei bambini che “somatizza lo stress”, per usare le parole del pediatra. Mi agitavo e mi agitavo finché l’agitazione non arrivava all’altezza del ventre, diventando nausea. A quel punto non c’era più niente da fare: dovevo liberare lo stomaco. Il fatto positivo era che, una volta compiuta la missione, le cose andavano meglio, e così successe anche quel giorno. Sperando che nessuno mi avesse visto, sgattaiolai via, tornando verso i miei amici.
Ci mescolammo alla massa informe di ragazzini vocianti ed entrammo nella palestra. Era tutto gigantesco. Come quando Holly conquista il pallone e si mette a correre verso l’area avversaria: lui corre e corre, ma il campo da calcio si allunga, si distorce e diventa infinito. La palestra, per l’occasione, era stata sgombrata da qualsiasi ostacolo. Le travi di equilibrio, la cavallina e le pedane erano ammassati contro le pareti per fare spazio alla folla. Al centro esatto, c’era una cattedra verdolina, solitaria e minacciosa. Centinaia di ragazzini su di giri scemavano ovunque, facendo scricchiolare il pavimento di linoleum.
Mi guardavo intorno smarrito, senza allontanarmi dai miei amici. Non ci avevano ancora comunicato gli elenchi delle varie classi, così non avevo idea se avrei continuato a essere un loro compagno o sarei finito in mezzo a una marea di sconosciuti: inutile dire quale delle due opzioni causava la mia ansia. Misi comunque su l’espressione più imperturbabile che mi permettevano i miei undici anni e mi infilai le mani in tasca, fingendo che la cosa non mi interessasse. Da lontano, un ragazzino con la faccia sorridente e lo sguardo aperto mi salutò con la mano: anche lui era alle elementari con me, ma in una classe diversa e rivale, così me ne disinteressai. Nell’aria si respiravano tensione ed eccitazione, oltre a una vaga puzza di scarpe da ginnastica.
All’improvviso il vociare scemò. L’attenzione di tutti fu calamitata da una signora con la frangetta bombata che si faceva largo tra la folla. Brandiva una cartellina rossa e aveva un’espressione minacciosa che la faceva somigliare in maniera inquietante alla Mamma della Banda Fratelli, la temibile antagonista dei Goonies. Una volta raggiunta la cattedra, quella donna prese un megafono in mano e lo accese producendo un fischio spaccatimpani.
«Silenzio, per favore, silenzio!» gracchiò nel megafono.
Quasi vittime di un sortilegio, tutti ammutolirono all’istante.
Dopo essersi presentata (era una prof) e aver dato il benvenuto a nome della scuola, quella donna disse: «Ora leggerò, in ordine alfabetico, i membri di ogni classe».
Ecco, eravamo arrivati al dunque. La professoressa ci stava per comunicare quale sarebbe stato il nostro posto nel mondo per i successivi tre anni. Aveva letteralmente in mano il nostro futuro.
Cominciò così una litania infinita di nomi e cognomi, interrotta solo ogni tanto dai sospiri di disappunto di chi si vedeva separato dai compagni di sempre e dall’esultanza di chi invece aveva ottenuto proprio ciò che desiderava. Via via che i miei amici venivano chiamati, la mia espressione imperturbabile diventò molto meno imperturbabile.
Il mio nome non arrivava mai. Passarono le sezioni A e B. Passò la C. Alla D cominciai a figurarmi panorami improbabili: magari c’era stato un errore burocratico, un disguido nell’iscrizione, forse il mio nome non era in nessun elenco e io sarei tornato a casa, l’unico ragazzino libero di tutta Melito il primo giorno di scuola. Stavo già immaginandomi la scena: espressione fiera, schiena dritta e mani nelle tasche, attraversavo la palestra sotto gli sguardi di tutti e me ne andavo, lanciato verso un orizzonte di libertà e analfabetismo… ma soprattutto, un mondo in cui non avrei più vomitato. Tra l’altro, non c’erano più volti conosciuti tra i pochi ragazzini che ancora non erano stati chiamati: solo quel tipo con la faccia sorridente che continuava a intercettare il mio sguardo e a farmi ciao ciao con la mano.
«Russo. Russo Simone.»
Russo è il mio cognome, quello vero.
Mi riscossi dalle mie fantasie e alzai la mano. «Sono io» sussurrai.
Poi raggiunsi un gruppetto di ragazzi che, nome dopo nome, diventava sempre più numeroso: la mia futura classe, la prima E. Li fissai: non avevo idea di chi fossero. Sarebbero stati simpatici? Con quali di loro avrei fatto amicizia? Alcuni si conoscevano già, altri cominciavano ora a scambiarsi qualche battuta, altri ancora fissavano timidamente a terra. Ce n’era uno che mi incuriosì subito. Indossava la giacca di Jet McQuack, l’improbabile aviatore dei DuckTales e sembrava andare fierissimo di quel bomberino con il faccione gigantesco di Jet stampato sulla schiena e le maniche staccabili che lo trasformavano, all’occorrenza, in un atroce smanicato. Lo sfoggiava come se fosse il capo più elegante del mondo.
«Capriello» disse la prof. «Ciro Capriello.»
Era il ragazzino che mi aveva salutato sorridente con la mano, anche se forse voi lo chiamate Ciro Priello. Si avvicinò a grandi falcate e venne subito da me: per forza, ero l’unico che conosceva. Lo salutai e cercai di ricordarmi di quando ci eravamo parlati per l’ultima volta. Non ne avevo idea. Avevamo frequentato insieme sia le elementari sia l’asilo, ma ci eravamo sempre salutati a malapena. All’asilo, ci limitavamo ad avere un pacifico accordo di condivisione dei Power Rangers (erano di Ciro), mentre alle elementari eravamo in due classi rivali. Fino a quel momento, ci eravamo solo studiati da lontano, nelle ore in comune di educazione fisica o negli imbarazzantissimi saggi di fine anno.
Pochi minuti dopo, guidati da una bidella ciabattante, facemmo il nostro ingresso nell’aula che ci avrebbe ospitato per il primo anno. Appena al di là della soglia, scattò il caos: tutti si misero a strillare e a correre, spingendosi da una parte e dall’altra, alla conquista dei banchi migliori: secchioni in prima fila, fancazzisti in ultima, in mezzo tutti quelli che non erano abbastanza veloci.
«Ci sediamo insieme?» mi chiese Ciro.
Io lo guardai e fui tentato di rifiutare. Ma non aveva senso: quel giorno iniziava la nostra nuova vita, le incomprensioni delle elementari dovevano essere relegate al passato.
«Certo» dissi, e insieme scattammo alla conquista di due banchi vicini.
Se avessi rifiutato la proposta di Ciro, forse sarebbe stato tutto diverso. E forse lo sarebbe stato anche se il ragazzino con il giubbotto di Jet McQuack non si fosse seduto nella fila davanti a noi. Non lo posso sapere.
Piazzai sul banco i quaderni e mi misi a chiacchierare con Ciro, in attesa dell’inizio della lezione. Cominciammo a parlare dei Simpson e scoprimmo di essere entrambi fan sfegatati di Springfield. Guardati dall’esterno, dovevamo azzeccarci ben poco, io e Ciro. Lui era alto, grosso e aveva i capelli scuri. Sembrava un po’ più grande della nostra età, e la sua stazza contrastava di brutto con la mia (ero basso e magrolino). I miei colori più tenui, dai capelli alla carnagione, contribuivano a farmi sembrare ancora più piccolo accanto a lui.
«Dlon dlon» disse Ciro a un certo punto, mettendo su una voce nasale che non gli apparteneva. «Si ricorda alla gentile clientela che il supermercato chiuderà tra quindici minuti.»
Lo riconobbi subito: era il nastro registrato del supermercato di Melito dove andavo sempre con mia mamma. Stessa tonalità monocorde, stesse vocali indistinguibili le une dalle altre, stesso gracchiare confuso di sottofondo. Stesse parole…
«Ripeto: il supermercato chiuderà tra quindici minuti, chi è dentro è dentro, chi è fuori s’attacc ’o tram.»
No, le parole non erano le stesse.
Scoppiai a ridere e mi venne spontaneo rilanciare le sue battute con altre battute. Forse era solo un modo per allentare la tensione del primo giorno di scuola, ma di certo era divertente. Per la prima volta mi dissi che le scuole medie potevano riservare delle belle sorprese.
Quando entrò in classe, la professoressa ci chiese di aprire il diario e di segnare il nostro orario settimanale. Un improvviso attacco di nausea mi ricordò che non andavo affatto fiero del mio diario. Avevo comprato quello di Paperino, ma me ne ero subito pentito: Paperino non era mica un personaggio da piccoli? Be’, non avevo alternative. Inspirai ed espirai profondamente, poi lo estrassi dallo zaino.
«Ce l’ho pure io, quel diario!» disse qualcuno.
Sollevai lo sguardo e vidi il ragazzo con il giubbotto di Jet McQuack girato verso di me. “Cazzo” pensai e sperai che la nostra conversazione finisse subito, non volevo attirare l’attenzione degli altri sul mio diario. Invece, quello continuava a guardarmi. Sembrava volere a tutti i costi fare la conoscenza mia e di Ciro. Misi su un sorriso di circostanza e, più per buona educazione che per altro, gli chiesi il suo nome.
«Francesco» mi disse. Solo Francesco. Francesco Ebbasta.
Fu così che cominciò la nostra storia. La storia di The Jackal.