Lunedì 9 febbraio 2015, ore 12.30
«Se viene la Guardia di finanza, qui è un casino.»
Carlo Alberto Belloni, presidente del Collegio sindacale di Ferrovie Nord Milano, è fuori di sé e inveisce contro di noi, schiumando di rabbia. Mentre parla, sul suo labbro inferiore un grumo di saliva rappresa, biancastra, si appiccica a quello superiore, rompendo e ricostituendo un filo sottile. Rosso in volto, si dimena come un toro ferito, camminando avanti e indietro nella sala. Si allontana, dirigendosi verso la porta, la apre, fa per uscire, ma poi torna indietro; viene verso il tavolo, puntando l’indice ora contro il presidente dell’Organismo di vigilanza, il mite Arnoldo Schoch, ora verso di me e il mio collega Luigi Nocerino, gridando: «Bravi, complimenti! Proprio un bel lavoro!». Applaude sarcasticamente. «Così avete aperto un’autostrada alla Guardia di finanza. Se viene qui, si trova tutto il lavoro già fatto. Siete dei geni.»
La riunione del Comitato controllo e rischi dell’azienda (che i milanesi chiamano abitualmente con la sigla Fnm) è iniziata a mezzogiorno, nella sala del Consiglio di amministrazione, al nono piano della sede sociale, in piazzale Cadorna 14, a Milano. Tra i punti all’ordine del giorno, c’è l’esame del report di audit elaborato dal mio ufficio, che ha portato alla luce una serie di irregolarità e di spese non riconducibili all’attività aziendale. Parliamo di «spese pazze». A carico del numero uno: il presidente della società , Norberto Achille.
Attorno al grande tavolo rettangolare siedono i tre consiglieri di amministrazione che fanno parte del Comitato; il presidente del Collegio sindacale, Belloni; il presidente dell’Organismo di vigilanza, Schoch; io; e infine Nocerino, colui che materialmente ha redatto il report.
La discussione si è fatta animata fin dalle prime battute. Belloni accusa noi dell’internal audit di «irresponsabilità », di «mettere nella merda la società »; l’ingegner Schoch interviene per difenderci, ma la sua voce è sovrastata da quella – tenorile – del presidente del Collegio sindacale e viene zittito. I consiglieri sembrano impietriti e osservano la scena in silenzio. A un certo punto, la giovane presidente del Comitato, Laura Quaini, prende la parola per cercare di calmarlo: «Carlo. Carlo, ascolta. Per favore. Ragioniamo». Di solito ferma e sicura di sé, stavolta appare titubante.
Un altro consigliere raccoglie tutto il suo coraggio e decide di parlare: «Ma no, chi siamo noi per dire che il presidente ha fatto spese irregolari? I farmaci? I profumi? Sono sicuramente omaggi aziendali». Parla in tono sommesso e mi osserva, quasi a cercare in me un appiglio, un cenno di conferma. Io lo fisso inespressivo.
Il sangue mi ribolle nelle vene. Sono sconcertato. Avrei voglia di alzarmi, di rovesciare il tavolo e di vomitare addosso a quei consiglieri e a Belloni quel che penso. Respiro a fondo, mordendomi le labbra. Ho la bocca secca. L’alito amaro. Mi verso un bicchier d’acqua. Bevo. Sono segretario verbalizzante, ma ho smesso di scrivere. Non ho neppure cominciato, a dire il vero. Dopo aver annotato l’ora e i nomi dei presenti, ho posato la penna. Come posso riferire ciò a cui sto assistendo? Getto lo sguardo fuori dalla finestra, cercando di estraniarmi da quella situazione. In lontananza, osservo la Torre Isozaki di CityLife interamente rivestita di cristalli: la nuova Milano che cresce in altezza, sogna e ha voglia di futuro.
D’un tratto, all’ennesima offesa, Schoch perde la pazienza, balza in piedi e grida a Belloni: «Non si permetta di rivolgersi a me in questo modo. Lei è un arrogante. Un prepotente. Abbiamo fatto il nostro lavoro: se non le sta bene, se lo scriva lei, il report» e getta sul tavolo la cartelletta con la documentazione. I due si affrontano, avvicinandosi pericolosamente l’un l’altro. La situazione è a un passo dal precipitare: Nocerino e io ci scambiamo un’occhiata d’intesa, tenendoci pronti a intervenire per dividerli, qualora si arrivi al contatto fisico.
È la prima volta che lo vedo reagire così, Schoch. È un timido, non l’ho mai sentito alzare la voce contro chicchessia. Nonostante il confronto sia impari – da un lato c’è lui, basso e dal fisico asciutto; dall’altro, Belloni, che da giovane è stato un giocatore di pallacanestro ed è un omone grande e grosso –, Schoch riesce a placarlo o, quantomeno, a ricondurre la disputa sui binari di una discussione dai toni civili. Chissà , forse hanno esaurito le energie o consumato le corde vocali. Fatto sta che a un certo punto entrambi si siedono, scusandosi reciprocamente per essersi lasciati scappare qualche parola di troppo e chiarendo, più pacatamente, le proprie posizioni. Belloni si sistema la camicia che, nella foga, era fuoriuscita dai pantaloni; Schoch si passa un fazzoletto sulla fronte imperlata di sudore.
Laura Quaini prova a incunearsi, tentando una mediazione. Dopo un estenuante tira e molla, giungono a un compromesso: al Consiglio di amministrazione sarà trasmessa una nuova relazione, «più sintetica, senza l’indicazione delle spese folli, ma solo delle criticità rilevate, in generale». Non avrà alcun allegato. «E il nostro report?» domando.
«Dovrà rimanere chiuso nei vostri cassetti, disponibile per un’eventuale consultazione, se richiesta.»
Mi sento frastornato. Ancora oggi mi chiedo come abbia fatto a rimanere seduto, invece di alzarmi e di gridare a pieni polmoni tutto il mio sdegno. Assumo una posa catatonica, da cui mi ridesto soltanto quando Laura Quaini, nella sua veste di presidente del Comitato, mi rivolge la parola per dettarmi ciò che devo verbalizzare:
Il presidente del Collegio sindacale Belloni esprime alcune perplessità in ordine allo «stile» del documento e al contenuto degli allegati, con specifico riferimento ai dati aggregati in essi riportati. Il Comitato prende atto della dichiarazione del dott. Belloni e consente all’ing. Schoch, nel caso lo ritenesse opportuno – in accordo con il presidente del Collegio sindacale Belloni –, di rivedere il documento sotto l’aspetto meramente formale [...]. Infine, il Comitato ritiene che il report che verrà presentato in Consiglio di amministrazione non debba contenere alcun allegato, in quanto tali allegati costituiscono di fatto «carte di lavoro» dell’internal audit; tutti gli allegati rimangono comunque nella disponibilità dei consiglieri e del Collegio sindacale su semplice richiesta.
La riunione termina poco prima delle 14. Mi alzo, scuro in volto, ed esco senza salutare. Gli altri si fermano a chiacchierare amichevolmente nella sala. Mi infilo nell’ascensore, scendo al secondo piano, entro nel mio ufficio e afferro il giubbotto.
Mi raggiunge anche Luigi. «Andrea, calmati» e mi posa una mano sulla spalla, tenendomela stretta, come per frenarmi. Nei suoi occhi scorgo un timore: sa che non sono capace di trattenermi dal dire ciò che penso e che, anche se non parlo, in faccia mi si legge sempre tutto. «Non dire niente, ti prego» e si porta l’indice davanti alla bocca.
Lo guardo e scuoto il capo, furioso.
«Andiamo a mangiarci qualcosa, su, che è meglio. Dai» mi propone.
«Non ho fame. Ho bisogno di fare due passi, ti va? Magari ci prendiamo qualcosa al volo, da qualche parte.»
«Okay.»
Scendiamo di corsa le scale, come se fossimo due pompieri inviati per un intervento d’emergenza. Le fiamme non si vedono, eppure, dentro di noi, c’è un incendio da domare. Una volta fuori, respiro a pieni polmoni: «Alla faccia dello smog! Là dentro l’aria è più inquinata». Luigi sorride e mi stringe a sé, passandomi un braccio attorno alle spalle. «Andiamo di qua» gli indico.
«Al parco?»
«No, prendiamo per viale Alemagna, arriviamo fin davanti alla Triennale, poi giriamo a sinistra per via 20 Settembre. Facciamo il giro dell’isolato e rientriamo.»
Camminiamo a passo svelto, i pugni in tasca, senza parlare. È Luigi a rompere il silenzio: «Non ho parole. Una scena surreale».
Io continuo a tacere, lo sguardo basso. A metà di viale Curie, mi fermo e mi pianto di fronte a lui, guardandolo dritto negli occhi. «Senti, andiamo dai carabinieri. Consegniamo loro il nostro report e vaffanculo» gli propongo, brusco, tutto d’un fiato. Lui rimane attonito, come se gli avessi gettato in faccia una secchiata d’acqua gelida. «Questi imboscano tutto, l’hai capito?» affermo, puntando il dito verso il palazzo delle Nord. «È uno schifo.»
Faccio una pausa e aggiungo: «Io te lo dico, qui faccio scoppiare un casino».
Il fischio prolungato di un treno in frenata che sta entrando in stazione attira per un istante la nostra attenzione.
«Andrea, fermati» e mi prende per il braccio, scuotendomi. «Non è che poi ci mettiamo nei guai?» aggiunge.
«Chissenefrega. Io zitto non ci sto. Cascasse il mondo, oggi pomeriggio vado dai carabinieri. Vieni con me?»
«No, io no. Non me la sento. Ho una figlia di quattro anni: che faccio se mi ritrovo per strada?»
«Però ti va di testimoniare, vero?»
«Certo. Se i carabinieri mi interrogano, io dico tutto.»
«Bene. Ho un’idea. Andiamo, che si fa tardi.»
Acceleriamo il passo, scendiamo i gradini e giungiamo in via 20 Settembre. Costeggiando la villa di Berlusconi, svoltiamo a sinistra, in via Vincenzo Monti, che percorriamo fino a piazza Virgilio.
Non abbiamo ancora pranzato, così, prima di rientrare, ci fermiamo in una gelateria di via Boccaccio.
«Un cono medio, cioccolato fondente e pistacchio» ordino per me.
* * *
Ore 14.55
Giunto in ufficio, telefono al maggiore Andrea Pezzillo, comandante della sezione investigativa del Comando provinciale dei carabinieri: lo conosco dai tempi in cui anch’io ero un ufficiale.
«Oggi pomeriggio avresti un po’ di tempo per fare due chiacchiere? Ho bisogno di parlarti: è importante. Sì, posso arrivare per le sei, ma anche prima, se vuoi. Eh? Okay, allora ci vediamo verso un quarto alle sei. Grazie. Ciao ciao. A dopo.»
Queste due ore davanti al computer, nell’attesa di poter uscire, proprio non vogliono passare. Le lancette dell’orologio si muovono lentissime.
Finalmente, alle 17 in punto, scatto, afferro lo zainetto e mi avvio alla porta.
«Ce l’hai il paracadute?» mi fa Luigi, aggiungendo che sembro un pilota espulso nel seggiolino eiettabile da un velivolo militare in avaria. Ostento un’occhiata di sufficienza, accompagnandola a uno schiocco secco della lingua contro i denti. Non lo do a vedere, ma apprezzo il suo affettuoso tentativo di sdrammatizzare.
Da oltre tre anni condividiamo lo stesso ufficio. Per me è più di un collega: è un amico. È un omone di quarantaquattro anni, buono come il pane. Di lui davvero si può dire, senza scadere nella retorica, che è «un marito esemplare e un padre affettuoso». Non l’ho mai sentito esprimere un apprezzamento per un’altra donna che non fosse sua moglie. Ha occhi solo per lei: per la sua Angela. Ha una figlia di quattro anni, un peperino dai riccioli d’oro e dagli occhi azzurri. È buffo ascoltarlo mentre parla in falsetto con lei, al telefono, chiamandola «mia principessa Elsa» – uno dei personaggi di Frozen, il cartone della Disney – o con altri nomignoli, continuando, forse, il gioco di ruolo iniziato la sera precedente. Cerco allora di immaginare quale personaggio stia interpretando: se il Gran Papà , re dei Troll, o il Papino di Peppa Pig – «grugnito molto grosso e risata» – o, chissà , magari Masha e Orso.
L’aspetto comico, in lui, è il contrasto fra prestanza fisica e tenerezza di padre. In ufficio, di tanto in tanto, mi mostra sullo smartphone le foto e i video della sua bimba, per esempio quello in cui canta una canzoncina per il suo superpapà , tenendo in mano il telecomando della tv come se fosse un microfono. Lui si intenerisce e gli vengono i lucciconi agli occhi.
Che dire? È una specie di GGG, il Grande Gigante Gentile. Alto e robusto, fa un po’ fatica a ponderare la sua forza. I suoi modi sono decisi e, a volte, un po’ maldestri. Detto senza troppi giri di parole: è un elefante in una cristalleria. Con le colleghe dell’audit abbiamo messo in piedi un ricco repertorio di imitazioni. Quella, per esempio, di quando scrive al computer, concentratissimo, picchiettando così forte sulla tastiera, con gli indici perpendicolari, da farsi sentire fino in fondo al corridoio. Da qui la fantasia prende l’abbrivio e dà origine a infinite variazioni sul tema.
È una persona autentica e affabile, sa rallegrarsi dei successi altrui ed essere vicino nei momenti di sconforto. Professionalmente è il numero uno. Come responsabile dell’unità audit e valutazione rischi, è lui che materialmente svolge le verifiche interne, avvalendosi di quattro collaboratori. Io, invece, lavoro per gli organismi di vigilanza di tutte ...