Erano circa le 7 di sera. Chiamai:
«Battista».
Nel tardo pomeriggio estivo, Battista dormiva seduto.
«Un momento» mi disse, senza aprir gli occhi, «sto facendo un sogno importante.»
L’eterno sognatore! Battista è superstizioso, crede ai sogni e, per trarre presagi, dorme spesso la notte e qualche volta un poco di giorno.
«Hai finito?» gli chiesi dopo qualche minuto.
Battista s’alzò.
«Continuerò dopo» disse.
Rifletteva.
«Permette una parola?»
«Dimmi.»
«Che significa sognare dentifricio?»
«Sognare?»
«Dentifricio.»
Rimasi perplesso, non sapendo che rispondere. Ma, poiché il brav’uomo mi ritiene un pozzo di scienza, mi seccava confessarmi incompetente.
«Che marca era?» chiesi.
«Marca Sovrana.»
«È il migliore» mormorai. «In polvere o in tubetto?»
«In tubetto.»
Ansioso di tirar fuori il simbolo, Battista aggiunse:
«Che può significare?».
Alla fine m’impazientii.
«Ma anche tu, figliuolo mio, vai a far certi sogni! Cerca di sognare qualcosa di più nobile: che so io, la gloria, la fama, l’amore. O, almeno, sforzati di sognare cose meno sibilline del dentifricio. Per esempio, tavola apparecchiata con frate.»
«Per carità! Morte sicura. Io, invece, vorrei tanto sognare un cavallo in fuga, ma non mi riesce.»
«E non sai sognar serpi?»
«Ohibò, male lingue. Preferisco, in tal caso, argenteria o canarino.»
«Comunque» conclusi paternamente, «guardati dal sognare valigia, o carne cruda, o denti che cascano. Ed ora, da bravo, preparami i bauli. Vado in America.»
«Vengo anch’io? Vorrei darmi al pugilato.»
«Sei vecchio. Non pretenderai mica di esibirti come campione.»
«E perché no? Ella sa del gran successo che ebbi anni or sono nell’incontro col negro Tompson.»
«Non fosti atterrato alla prima ripresa?»
«È vero, ma l’incontro ebbe un tale successo che dovemmo replicarlo per cento sere consecutive a Londra. Ogni volta che ero atterrato, il pubblico, entusiasmato dalla mia prova, gridava: bis! bis!»
«Verrai anche tu in America. Ma passiamo ad altro argomento: come stiamo a quattrini?»
Il vecchio infernale divenne terreo.
«Male» mormorò, «molto male.»
Ecco una cosa che mi annoiava.
«Non c’è niente da vendere?» chiesi.
«Un mio collega» fece Battista, «domestico d’un agente di Borsa, mi ha assicurato che non è il momento di vendere. E, poi, non le resta che il vecchio cannocchiale marino del suo povero zio Capecelatro.»
Insorsi.
«Di quell’oggetto» dissi «non mi disfarei per nessuna ragione al mondo. Anzitutto appartenne al mio povero zio e, sebbene io sia nato quand’egli era già morto, il suo cannocchiale è un caro ricordo di famiglia. E, poi, chi sa perché, ho l’idea che da quel vecchio cannocchiale un giorno dipenderà la mia fortuna.»
Parole profetiche, della cui verità soltanto dopo dovevo accertarmi.
Seguì una pausa di silenzio, che ruppi per chiedere:
«Quanto credi che darebbero per quel cannocchiale?».
«Il rigattiere mi ha detto che lo pagherebbe fino a dieci lire.»
«E che vuoi fare con dieci lire?»
Scossi il capo energicamente e conclusi:
«No, no. Quell’oggetto è sacro per me».
Fissai, attraverso la finestra spalancata, la selva delle navi che si vedono lontane, nel porto, sotto il sole.
«Se almeno» dissi «riuscissimo a procurarci il passaggio gratuito su un transatlantico!»
«È una cosa molto difficile» mormorò Battista.
Anch’egli fissava tristemente le navi ancorate. A un tratto, il suo sguardo si concentrò su una di esse. Il buon vecchio si stropicciò gli occhi.
«Presto» mormorò, «mi dia il cannocchiale dello zio Capecelatro.»
«Ti ripeto» dissi «che non voglio venderlo.»
«Me lo favorisca un istante» insisté Battista, con crescente agitazione, «debbo vedere una cosa.» Corsi ad aprire la cassaforte, la quale, tra parentesi, non conteneva che quell’oggetto, prezioso per ragioni sentimentali; presi il cannocchiale con mille cautele e lo consegnai a Battista. Egli l’aveva appena puntato su una delle navi ancorate, che gridò:
«Evviva! Abbiamo il passaggio gratuito per l’America!».
* * *
Il principe Capistrelli, solo nel suo appartamento di vecchio scapolo, fissava con occhio sbarrato il rettangolino di carta che la posta del mattino gli aveva recato. Era un semplice cartoncino, arrivato in una busta dattilografata, e conteneva il disegno di un cuore e, sotto, queste semplici parole, pure dattilografate:
Principe Capistrelli, da qualche tempo tu sei triste e preoccupato. Un segreto dolore, una muta disperazione occupano l’animo tuo. Io, che soccorro radicalmente tutti i sofferenti, mi interesso di te. Allegro!
Il filantropo integrale.
Capistrelli rabbrividì. Sapeva bene quel che volessero dire queste parole. Da vario tempo la città era sotto l’incubo del «filantropo integrale». Il misterioso individuo che si nascondeva sotto questa qualifica aveva fatto, della filantropia, lo scopo della sua vita e la praticava – non sarebbe necessario aggiungerlo – integralmente. Egli non credeva alla beneficenza spicciola. “Palliativi!” pensava. E colpiva il male alla radice. L’ultima sua opera di beneficenza aveva commosso il mondo civile ed era nota col nome de «L’assassinio del vecchio canceroso». Il filantropo integrale, saputo di una famiglia che viveva in pena a causa d’un caro parente malato di cancro, inviò il consueto biglietto consolatore: «Allegri! Sto pensando a voi!»; dopo qualche giorno, il vecchio canceroso fu trovato pugnalato nel suo letto. Accanto a lui, appuntato al guanciale con uno spillo, era un rettangolo di carta col solito cuore fiammante disegnato e le parole:
Il malato non soffre più. La famiglia soffrirà di più per poco tempo e poi si metterà l’anima in pace. Non voglio ringraziamenti.
Il filantropo integrale.
Di un’altra sua recente benefica iniziativa molto s’erano occupate le cronache, sotto il titolo, come ricorderete, di «Un’intiera famiglia avvelenata dai funghi». Si trattava di una famiglia che si dibatteva in mezzo alle più gravi difficoltà finanziarie. Anch’essa un giorno ricevette per posta il rettangolino di carta con le parole:
Allegri, sto pensando a voi!
Il filantropo integrale.
Gl’infelici s’erano rallegrati, sognando una sovvenzione in danaro. Ma, dopo qualche giorno, ricevettero una misteriosa pignatta contenente funghi trifolati. La sera erano morti tutti. E in fondo alla pignatta si trovò un cartoncino col cuore disegnato e le parole: Dono del filantropo integrale.
Naturalmente, il filantropo integrale non era capito da tutti e molti infelici erano colti dal panico al solo pensiero d’esser soccorsi da lui. Qualcuno spingeva la sua incomprensione fino a indicarlo come «quel mascalzone del filantropo». Ma il filantropo integrale non defletteva e la sua costanza gli aveva valso una fama mondiale, che suscitava le invidie di filantropi grossolani, rimasti ai tè di beneficenza e alla confezione di pedalini per i poveri della città.
Queste cose il principe – uomo solitario e schivo – sapeva per averle sentite dire dal suo amico, il banchiere Hatchinson. Egli pensò per un istante di avvertire la polizia. Ma subito scartò quest’idea. Anzitutto, il filantropo integrale non era un delinquente. Questione di metodi, ma l’intenzione era buona. In secondo luogo, già in casi analoghi la polizia era stata messa sull’avviso e n’eran derivate le più dolorose conseguenze: un investigatore privato, non riuscendo a scoprire il filantropo, era piombato nella disperazione. Un giorno fu trovato ucciso e, presso di lui, si rinvenne il solito rettangolino di carta, con le parole:
Egli non era felice. Ora non soffre più. Dispenso dai ringraziamenti.
Il filantropo integrale.
Ma c’era una ragione su tutte che consigliava Capistrelli a non avvertire la polizia circa l’annunziato interessamento del benefattore in pro suo: denunziandolo, avrebbe dovuto palesare le ragioni della sua...