L'albero di mandarini
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L'albero di mandarini

  1. 348 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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L'albero di mandarini

Informazioni su questo libro

Maria Imparato è cresciuta in una casa piccola e affollata, con un albero di mandarini proprio al centro del cortile. Ha mani da sarta, una massa di capelli scuri, il corpo sottile di chi ha conosciuto la fame e il calore di Napoli che le scorre nelle vene. Quando incontra Tonino Balestrieri, la guerra è finita da poco e sognare sembra di nuovo possibile: quel ragazzo di buona famiglia, bello ed elegante, non ha occhi che per lei. Per diventare sua moglie, Maria dovrà sfidare l'ignoranza della gente dei vicoli e il pregiudizio dei quartieri alti, e infine emigrare in Brasile, con un oceano a separarla da tutto ciò che ama. Ma la miseria torna sempre a galla, come la schiuma del mare. A Rio de Janeiro, insieme a Tonino, la aspetta Severina, elegantissima e spietata, una suocera dagli occhi di serpente disposta a tutto pur di scacciarla via.
Maria sa che il futuro si affronta senza paura, e per la sua libertà è disposta a lottare. "Se tieni delle ferite devi guardarci dentro" si dice, "perché è là che ci trovi la bellezza." Sarà il suo passato a darle la forza per andare avanti, per sfidare il destino e ripartire ancora una volta. La sua storia attraversa il Novecento come un'onda ribelle e tenace, e ci racconta una vita eccezionale, fatta di sogni, di fatica e di passione.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2021
Print ISBN
9788817156424
PARTE PRIMA

Gli anni piccoli

1

Napoli, ottobre 1940

Il vico Cupa Caiafa era affogato di case. Grandi palazzi, piccole bettole e bassi aperti sul terriccio malsano della strada. Appena calava la sera, pareva che in ogni angolo nascesse un’ombra, un pericolo, e Maria procedeva con gli occhi spalancati a spelare il buio. I cani di nessuno, nascosti in qualche anfratto, abbaiavano senza posa, mentre grossi topi uscivano dalle saittelle e sgusciavano davanti ai suoi piedi. Spaventata, si schiacciava al muro aspettando che si infilassero in qualche altro buco.
La gente del vicolo diceva che i sorici venivano dal mare di Mergellina, al di à del quartiere della Torretta, ma lei non ci credeva. Maria amava quel mare che lasciava le conchiglie sulla rena e la rapiva, facendole perdere il senso del tempo. C’erano volte in cui immaginava di vedere apparire una sirena all’orizzonte, con la coda d’argento e la voce ammaliante. Parlava, sussurrava cose misteriose, creava suoni e musiche che solo lei poteva ascoltare. Le dava il respiro, il mare, quello che ora le mancava mentre cercava luce tra i panni stesi su funicelle che andavano da un edificio all’altro. Le lenzuola volavano al vento di ottobre. Sembravano bandiere di guerre perdute, vele di nave che non si stacca dal porto.
Gli occhi scesero lungo i fianchi dei palazzi e poi di nuovo a terra, sulle pozze stagnanti. Ogni passo un afrore. Piscio di gatto, latrina di basso. Il vicolo aveva come una voce, una nenia costante. Frasi mozzate, risa sguaiate, pianti sommessi. Sotto il cielo, all’abbaino, una musica di pianoforte rompeva l’aria; la melodia poi si accucciava sotto le urla stonate di Assunta Catapano, una femmina tremenda con lo sguardo cattivo, che aveva messo al mondo due bambine scornose e cinque scugnizzi senza Dio. Abitavano nel primo basso dietro la curva, i figli vivevano per strada, con le facce dell’astuzia infilata dentro agli occhi. Maria li conosceva bene, perché suo padre, Giovanni Imparato, più volte in casa s’era lamentato di quella guaglionera che s’attaccava allo sbalzo posteriore del suo tram, facendo sganciare il trolley. Ogni volta lui era costretto a scendere, riagganciava il cavo e tirava qualche mala parola, sperando che i ragazzi crescessero in fretta e diventassero uomini diversi da quello che prospettava il futuro di chi nasce e pasce sulla strada. Pure nel vicolo davano fastidio: rubacchiavano, sfottevano, non lasciavano in pace nessuno e tutti li murmuliavano. Quando non ne poteva più delle lagnanze, donna Assunta usciva in strada con le pantofole del marito ai piedi. Ne prendeva una, la tirava addosso ai figli, così, a casaccio, e urlava: «Mannaggia a chi ti è vivo!». Infine schizzava uno sguardo obliquo agli altri e si metteva a strillare con una voce piena di schifo: «L’aggio vattute, site cuntente mo’?».
Ogni sera friggeva i fravagli di triglia che i ragazzi pescavano alla rotonda Diaz con la sciabica. L’olio che usava lo si sentiva da lontano. Era lo stesso usato il giorno prima e l’altro ancora. Un fritto da poveri, anche se lei andava dicendo che i soldi li teneva e che l’olio lo cambiava. Dalle finestre cupe, Maria intravedeva pezzi del suo triste arredo. La testiera del letto tarlata, l’immagine del Volto Santo a protezione del sonno, pentole appese a vecchi ganci su mura bagnate, annerite di muffa.
Più avanti, sulla salita ripida, al primo piano dell’ultimo palazzo, s’avvertiva il profumo di lavanda e rose di Pupella.
Nessun’altra donna, nel quartiere, era bella quanto lei. Lasciava scie luminose al suo passaggio. Nel circondario non c’era maschio che non la guardasse col desiderio di penetrare nella carne sua, toccare quella distesa ambrata di velluto che lei esponeva senza pudore. Le donne la odiavano e gli uomini la amavano, chi con i soldi e chi solo con i pensieri. Maria l’aveva conosciuta nel vicolo e andava spesso a trovarla. Le piaceva stare con lei, parlarle, ascoltarla. Osservare le sue mani curate muoversi rapide tra le cose, scivolare sotto l’acqua, toccare la seta dei foulard, la rete delle calze. Pupella era gentile, come doveva esserlo una madre.
«Perché non vi siete sposata?» le aveva chiesto un giorno, così, di punto in bianco.
Pupella si era stranita, poi l’aveva guardata con rammarico.
«Mi sarebbe piaciuto… Mi piacerebbe, ma adesso non mi piglia più nessuno.» Aveva riso, sconfortata. «Mi sono arrangiata da sola, e ho dovuto scegliere tra fare la cosa giusta e quella più facile.»
Da quel giorno Maria non aveva più fatto domande. Rosicchiava quell’affetto che col tempo era divenuto prezioso e indispensabile.
Aveva nove anni, e ogni pomeriggio si avventurava nel circondario per osservare la città oltre le sue quattro mura. Con il benestare di chi la conosceva, aveva escogitato un sistema per guadagnare qualche spicciolo. Cupa Caiafa era una via poverissima, che i signori e la gente danarosa evitavano con cura. Ma la povertà acuiva l’ingegno, e Maria si era ritagliata un angolo per esporre il suo tabernacolo. Sopra un vecchio sgabello di paglia, aveva creato una cornice con le conchiglie raccolte sulla spiaggia e al centro ci aveva messo la statuetta di un’anima pezzentella in terracotta, un rosario intrecciato e una piccola croce di Gesù Cristo. Di fianco alla statuina poggiava un lumino avanzato dalla veglia pasquale. Alcune mattine, dopo la scuola, passava per la chiesa di Piedigrotta, dove padre Bernardo le lasciava prendere una decina di immagini sacre della Madonna d’o Scarpunciello. Tornava a casa per il pranzo e dopo i compiti scappava di nascosto nel vicolo per montare l’altarino, che sistemava al livello del marciapiede.
«Una preghiera per i defunti in purgatorio…» diceva ai passanti, ai quali porgeva l’immagine sacra in cambio di un piccolo obolo. Col ricavato comprava qualche caramella, oppure un biscotto. Il resto lo infilava nella cassetta dell’elemosina.
Appena il vento diventava fresco, e la campana della chiesa batteva un quarto alle otto, infilava le cose in un sacchetto e se ne tornava a casa.
La sera del 30 ottobre s’era fatto tardi, oltre l’orario consueto. Maria aveva un dolore in petto e una morsa che le stringeva la gola. Quella mattina s’era svegliata pure con qualche decimo di febbre, ma non pareva nulla di preoccupante. Svelta imboccò la salitella scalcinata che portava a casa, a Villa Santa Maria. La terra apparteneva alla chiesa di Piedigrotta. Oltre una collinetta piena di vegetazione, a ridosso del corso Vittorio Emanuele, c’erano dei gradini rosicchiati e in fondo spuntavano tre piccole abitazioni. Nelle prime due, molto curate, con un fitto giardino e un roseto intorno, vivevano le monache che insegnavano alla scuola delle Figlie della Carità. Poi c’era la casa degli Imparato.
Non era un basso come quelli di Cupa Caiafa, ma un piccolo casolare con un poco di terreno intorno, dove si coltivavano i pomodori che crescevano all’ombra di un robusto albero di mandarini. Maria adorava quell’albero come fosse una creatura sua. Per chissà quale mistero, gemmava i suoi frutti già in estate, ed erano dolcissimi. Maria li mangiava e utilizzava le bucce per profumarsi le mani, oppure accendeva il picciolo interno come uno stoppino e spandeva l’odore in tutta la casa. C’era anche un piccolo vigneto che fungeva da pergolato e riparava dall’arsura del sole. Dal mese di agosto dava uva, quella nera, che sarebbe servita soprattutto per il vino.
Giunta sulla spianata, Maria scorse il profilo stizzito di Nunzia, sua madre. Più si avvicinava e meglio la vedeva. Teneva stretta la mano tra i denti e si agitava così tanto che i capelli si muovevano come i tentacoli di una medusa.
«Fa’ ampressa…» sibilò tra le labbra. Lo sguardo fermo, gli occhi una fessura. «Tieni pure un poco di febbre e te ne torni a quest’ora? Tu si’ nata per farmi disperare!»
Strinse il suo braccio, la trascinò dentro casa e iniziò a spogliarla per infilarla subito a letto, scuotendola come se fosse una bambola di pezza. Maria tossì forte e guardò in un punto imprecisato della stanza, con la bocca a pippetta e gli occhi che trattenevano le lacrime.
«Devi ringraziare i santi che tieni in paradiso. Anzi, ringrazia tuo padre che ti perdona tutte cose! Io te pigliasse a schiaffi ogni minuto!»
Maria non si mosse e trattenne il respiro. Sua madre diceva che era rispunnera, che uno schiaffo se lo teneva ma una parola in bocca no, per cui rimase immobile a farsi scotoliare. Poi suo fratello Gigino scoppiò a piangere e lei rimase nel mezzo della stanza con solo le mutande slabbrate addosso. Raccolse le sue cose e si infilò il camicino da notte.
«Posso mangiare con papà, quando viene dal servizio?»
Nunzia prese in braccio il bambino e neanche la guardò.
«Mo’ te ne vai a cucca’!» rispose secca.
Maria sapeva di non poter argomentare. A parte il suo malanno, c’era una guerra imminente, un pericolo costante, giorni di ansia e turbamenti. Nella popolazione viveva un’inquietudine malsana. Parole a mezza voce che passavano di bocca in bocca a significare la paura. Centinaia di volte sua madre le aveva chiesto di non rientrare tardi. Lo sapeva. Così come sapeva che Dio, se esisteva, non abitava lì. La sua casa era umile, come tante altre nel quartiere. Due piccole stanze e un cucinino. I battenti delle finestre lasciavano entrare spifferi e gelo. Dentro c’era sempre freddo e al centro della saletta veniva sistemato un braciere che restava acceso dai primi giorni autunnali fino alla primavera. Il pavimento a riggiole, spezzato in alcuni punti, scricchiolava, soprattutto di notte, per cui nessuno poteva alzarsi se non per l’urgente necessità di andare al gabinetto.
Suo padre, Giovanni, era un uomo tutto d’un pezzo, rispettoso delle regole e della famiglia, ed era anche l’unica persona che riuscisse a tenere testa a sua moglie, che aveva un carattere di ferro e la lingua impastata col fuoco. La gente del vicolo la chiamava ’a sberressa, cioè colei che comanda e non le manda a dire. Era irascibile, doveva avere sempre ragione su tutto. Si era indurita per adattarsi al quartiere e alla vita stessa, che con lei non era stata facile.
Nunzia Capece aveva iniziato presto ad arare il proprio campo di battaglia. S’era scorciata le maniche per crescere i due fratelli quando i genitori erano morti. A quattordici anni aveva imparato il mestiere di sarta e cucito le divise per i soldati della guerra, la prima, la grande. Spesso le stoffe che usava pungevano ed erano pesanti, anche solo da tenere in mano. Alle volte Maria la osservava mentre le srotolava. Lasciavano fili che si intrecciavano a creare strane trame e orditi, disegni sgraziati. Sembrava avessero vita propria, quei fili sul pavimento. Si attaccavano alle pantofole e diventavano sottilissimi, quasi polvere. Oppure cambiavano colore, invecchiavano e morivano. Come gli esseri umani.
«Di’ la verità, sei stata un’altra volta a casa di Pupella?» le chiese Nunzia a bruciapelo.
Maria si voltò a guardarla mentre adagiava Gigino nella culla.
«No, mamma’.»
«Non ci devi andare» sentenziò, guardandola dritto negli occhi come a un adulto. «Pupella è una di quelle, e non mi piace che la frequenti.»
«Una di quelle che?»
«Quando ti fai grande te lo spiego. Pe’ mo’ devi starmi a sentire, punto e basta!»
Dal letto, sua sorella Elena scoppiò a ridere. Se la spassava quando mamma’ iniziava a fare le ramanzine a Maria. Era più piccola di due anni, ma scaltra come una donna fatta. Elena aveva un modo sornione di relazionarsi, una specie di vezzo che incantava chiunque. Quando parlava si dondolava lenta, facendo muovere i codini biondi, e fissava gli altri con gli occhi celesti, spalancati come quelli di una bambola di porcellana. La malia aveva centrato il cuore di Nunzia che, pur essendo una donna pratica e poco avvezza alle smancerie, cedeva alle moine di quella figlia aggraziata. E Maria, dotata di una concretezza non comune, da sempre sapeva che quella indubbia preferenza le avrebbe reso la vita difficile. Solo suo padre la proteggeva. Era la prima a essere abbracciata appena rientrava e l’ultima a essere baciata prima che andasse a letto. Un bacio che racchiudeva conforto, sorrisi, e una tenerezza che riempiva gli abissi affettivi di sua madre.
Quando si accostò di fianco a sua sorella, stette accorta a non sfiorarla. Quel sibilare di nascosto parole incomprensibili, a denti serrati, con un livore che non poteva appart...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’albero di mandarini
  4. PARTE PRIMA. Gli anni piccoli
  5. PARTE SECONDA. Le lettere
  6. PARTE TERZA. La terra delle opportunità
  7. PARTE QUARTA. Giorno dopo giorno
  8. Epilogo
  9. Ringraziamenti
  10. Copyright