Martedì 5 ottobre
La ragazzina era morta, su questo non c’erano dubbi: chi aveva chiamato il 911 aveva detto che era morta, al pronto soccorso l’avevano dichiarata morta all’arrivo, il tossicologo aveva stabilito le cause della morte, il medico legale aveva firmato il certificato.
La ragazzina era morta, ma non era questo il punto.
Squillò il telefono. Lo ignorai.
Fuori il cielo era un ammasso plumbeo di ardesia, fumo e verde. Il vento si faceva sempre più rabbioso.
Presto avrei dovuto andarmene.
La gamma di colori sul monitor non era molto diversa da quella fuori dalla finestra: le ossa spiccavano bianche come neve artica sullo sfondo grigiastro del muscolo.
Stavo esaminando le radiografie da quasi due ore, la frustrazione che cresceva di pari passo con la tempesta.
Ancora un’occhiata all’ultima lastra della serie, le mani, e poi arrivederci a tutti.
Mi sforzai di concentrarmi: carpo, metacarpo, falangi.
Drizzai la schiena all’improvviso, senza più far caso alle raffiche di vento e al cielo che diventava sempre più scuro.
Zoomai sul mignolo destro, poi sul sinistro.
Il telefono squillò di nuovo. Di nuovo lo ignorai.
Tornai alle immagini del cranio.
Cominciava a delinearsi un’ipotesi.
Ci stavo riflettendo, la soppesavo per verificare se poteva reggere, quando una voce alle spalle mi fece saltare sulla sedia.
Sulla soglia c’era una donna non molto più grande del soggetto nelle immagini che stavo esaminando: alta non più di un metro e cinquanta, i capelli neri striati di grigio raccolti in uno chignon basso sulla nuca, la frangia folta che sfiorava gli occhiali con una montatura di tartaruga certamente non scelta perché alla moda.
«Dottoressa Nguyen» esclamai, «non sapevo che fosse ancora qui.»
«Stavo terminando un’autopsia.» Un leggero accento, principalmente di Boston, ma con una lieve nota di sottofondo che richiamava luoghi esotici.
La Nguyen aveva assunto la direzione del Centro di medicina legale della contea di Mecklenburg, il cosiddetto MCME, solo di recente, e io e lei ci stavamo ancora per così dire annusando. Non la si poteva certo definire un tipo esuberante, ma sembrava una persona organizzata, corretta e scrupolosa. Per ora, tutto a posto.
«È il caso Deacon?» Lo sguardo della Nguyen era passato al mio monitor.
«Sì.»
«Fa una consulenza per la famiglia?»
«Sì.» Vedendo l’espressione perplessa, aggiunsi: «La richiesta mi è arrivata da un legale di nome Lloyd Thorn. Spero non le dispiaccia se guardo le immagini qui».
«Assolutamente, nessun problema» rispose con un cenno della mano, come a scacciare il pensiero. O forse per cambiare approccio. «Inara è diventata un uragano di categoria tre e si sta spostando più velocemente del previsto. C’è l’ordine di evacuazione in tutte le contee costiere, e si prevede che si sposti verso l’entroterra.»
«Gran cosa il cambiamento climatico, eh?»
La Nguyen ignorò la battuta. «Sto chiudendo il laboratorio, la signora Flowers se n’è già andata, si trasferisce in montagna da una cugina.»
Eunice Flowers gestisce la reception dell’MCME dai tempi in cui Gutenberg cominciava a sfornare Bibbie: la prima ad arrivare al mattino, in genere è anche l’ultima ad andarsene.
«All’ingresso c’è una donna che vuole vederla. La signora Flowers le ha detto che era occupata, ma ha insistito per aspettare.»
«Chi è?» Buttai l’occhio sul telefono e vidi la spia rossa dei messaggi che lampeggiava.
«Non ne ho idea. E neanche so perché si sia avventurata fuori con questo tempo.»
«Ci parlerò.» Mi sentivo in colpa per aver ignorato le chiamate della signora Flowers.
«Non si attardi troppo» mi raccomandò la Nguyen.
«Tranquilla» risposi, spostando il cursore per chiudere il file delle radiografie. «Facile che il mio gatto stia già chiamando la Protezione civile.»
«Sono certa che Charlotte è al sicuro» proseguì lei poco convinta. «Siamo troppo lontani dalla costa.»
Non commentai, ricordando che era la stessa considerazione fatta nel 1989. L’anno dell’uragano Hugo.
Erano solo le tre e venti, ma l’atrio era immerso nella penombra. In tutto l’edificio regnava il silenzio; a parte la guardia giurata, invisibile ma senz’altro presente, a quanto pare ero l’unica persona ancora lì.
La donna era seduta davanti al posto di comando della signora Flowers. Indossava calzature pratiche e teneva i piedi accostati con cura sulla moquette, apparentemente presa a studiarsi i lacci delle scarpe.
Primo pensiero: è arrivata la zia dal paesello. Avvolta in uno scialle logoro dalle spalle ai polpacci, con la testa coperta da un foulard a fioroni legato sotto il mento, la signora era elegante quanto una contadina russa. Appeso al polso il manico ricurvo di un ombrello, in grembo un borsone di tweed sfilacciato.
Secondo pensiero: perché l’abbigliamento invernale, quando il termometro quel giorno segnava ventisette gradi, inusuali in quella stagione?
Al sentire i miei passi, la donna alzò la testa fiorata, voltandosi lentamente per seguire il mio arrivo. Il resto del corpo sembrava contratto in un nodo.
Mentre mi avvicinavo notai che aveva gli occhi chiari: non celesti o verdi, ma di un colore simile a quello del miele. Dimostrava sessantacinque anni minimo, principalmente per la mise; l’enorme foulard le nascondeva buona parte del viso.
«Sono Temperance Brennan. Scusi se l’ho fatta aspettare.»
Lei mi tese la mano. Benché nodosa e solcata da vene azzurre, rimasi stupita dalla forza della sua stretta.
«Grazie mille. Grazie. Capisco. Non si preoccupi, ho aspettato talmente tanto che un po’ di attesa in più non importa.»
Usando l’ombrello come bastone, fece per alzarsi. Le accennai di restare seduta. «La prego, non si disturbi.»
Posai la valigetta a terra e mi sedetti accanto a lei in punta di sedia, a indicare chiaramente che avevo fretta.
«Bene, e lei è…?»
«Oh santo cielo, che maleducata, mi scusi. Avrei dovuto presentarmi subito. Polly Susanne Beecroft.»
«Piacere di conoscerla, signora Beecroft.»
«Signorina. Non me ne importa un fico secco degli appellativi di cortesia.» Con tanto piglio da smuovere la seta intorno al viso. «Se una non si è mai sposata, che male c’è a dirlo? Non crede?»
«Eh.»
«A ogni modo, Polly basta e avanza.»
«Cosa posso fare per lei, Polly?» chiesi, decisa a chiudere rapidamente.
«Spero mi perdoni la sfacciataggine di averla cercata.» Gli occhi color miele dritti nei miei. «Vengo a implorare il suo aiuto.»
«Ma io sono un’antropologa foren…»
«Sì, lo so. Per quello credo sia la persona adatta.»
«Mi dica.»
«È una storia lunga.»
La incoraggiai con un gesto tutt’altro che sincero.
Polly Beecroft prese fiato, come per iniziare. Ma passò qualche istante, e rimase muta.
«Stia tranquilla» la rassicurai.
Un cenno d’assenso, poi: «L’anno scorso è morta mia sorella gemella, pace all’anima sua. Aveva settantun anni».
Cominciavo a capire perché era lì, ma non la interruppi.
«Harriet si era sposata, ma era rimasta vedova molto giovane e non aveva avuto figli. A trent’anni si mise a studiare arte, e da quel momento si dedicò sempre alla pittura. Temo che né io né lei ci siamo moltiplicate come vorrebbe la Bibbia.» Rapido sorrisetto. «Dopo la morte di Harriet…»
«Signorina Beecroft…»
«Polly, la prego.»
«Le faccio le mie condoglianze, Polly. Ma se ha dei dubbi sulla morte di sua sorella deve rivolgersi al coroner o al medico legale che hanno firmato il certificato.»
«Oh, no, nessun dubbio, Harriet è morta di tumore al pancreas, in un hospice.»
Okay. Non avevo capito niente. Perciò non aggiunsi altro, anche perché la faccenda cominciava a incuriosirmi.
«Siccome ero l’unica parente, mi è toccato sgomberare la casa. Harriet abitava in Virginia, in un piccolo centro non lontano da Richmond. Ma questo è irrilevante. Mentre passavo in rassegna le sue cose ho scoperto alcuni oggetti che mi hanno enormemente turbata.»
Le luci al soffitto sfarfallarono per un attimo, poi tornarono normali.
«Santo cielo.» Polly Beecroft si portò alla bocca una mano punteggiata di macchie senili, che rimase là come una falena improvvisamente libera e confusa.
«E se ne parlassimo tra qualche giorno, passata la tempesta?» suggerii con garbo.
Ma la signorina non intendeva lasciarsi dissuadere. «Posso mostrarle quello che ho trovato? Faccio presto, promesso, poi vado.»
D’un tratto, una visione: mia madre quasi ottantenne che lottava per trattenere l’ombrello nella bufera.
«È venuta in macchina, Polly?»
«Oddio, no. Ho preso un taxi.»
Merda.
«Abita in città ?»
«Ho un appartamento al Rosewood. Lo conosce?»
Altroché, mia madre si era trasferita lì di recente. Adesso intuivo come Polly fosse arrivata fino a me.
E inoltre sos...