Mia madre a trent’anni era così bella e attraente, così assiduamente corteggiata che avrebbe potuto scegliersi un marito tra mille uomini. Soprattutto tra quella miriade di avvocati, notai e politici che frequentava per lavoro, lei che non era più solo l’efficiente segretaria capo in uno dei maggiori studi legali di Napoli, ma una collaboratrice le cui doti professionali erano riconosciute in tutto l’ambiente. A dire il vero, a venticinque anni un uomo se l’era scelto, ma quell’incontro non aveva portato un matrimonio. Aveva portato me, e nient’altro.
Era nata nell’anno in cui l’Italia entrò in guerra. Quasi subito il padre carabiniere fu chiamato alle armi, e lei rimase con la madre che a quel punto doveva badare, oltre che a se stessa e al figlio avuto da una relazione precedente, anche alla nuova arrivata. Tempi duri. Finì la guerra, ma il carabiniere non tornò che un’ultima volta. Sotto le armi era stato assegnato a un campo di concentramento italiano per slavi, dove aveva conosciuto una prigioniera di diciott’anni e se n’era innamorato. Forse la protezione di un soldato aveva fatto sì che durante la prigionia non le succedesse niente di male. E, finita la guerra, per amore o per sola riconoscenza, la bella diciottenne aveva deciso di dedicargli la vita. Così lui tornò a casa quell’ultima volta, prese le proprie cose, e se ne andò.
Essere una giovane madre, povera e con due figli da crescere, negli anni della guerra e in quelli ancora assai difficili che seguirono, deve aver molto inasprito il carattere di mia nonna. E così la sua bambina venne educata a una visione drammatica della vita: non strada ricca di possibilità ma selva di pericoli, non regno dell’amoroso dare e avere ma notte buia in cui bisogna tenersi stretto tutto quel che si ha, perché i maschi sono lì fuori per prendertelo e portartelo via. Il risultato di questa educazione puritana è che mia madre è rimasta vergine fino a venticinque anni.
La sua natura libertaria sbocciò comunque, anche se tardi. Sbocciò quando, innamorandosi per l’ennesima volta, decise che stavolta il ragazzo era troppo bello e lei troppo adulta per continuare a sostenere il ruolo della vergine. Quel ragazzo era mio padre. Bello, era bello. Ma aveva detto a mia madre di avere ventidue o ventitré anni, e invece, quando lei gli comunicò che in quella prima notte insieme era rimasta incinta, venne fuori che di anni ne aveva diciassette, forse diciotto. Bastardo di un ragazzino.
E che cosa vuoi chiedere a un ragazzino di diciassette, forse diciotto anni? Di diventare subito uomo e mettersi a fare il bravo padre? Proprio lui che non aveva ancora finito di fare il cattivo figlio e mai davvero finì di esserlo? Bello e bugiardo, scugnizzo cresciuto, spirito inquieto, uno che non prendeva niente sul serio, né se stesso né il mondo. Uno a cui, quando scoppiava a ridere di quel sorriso luminoso e smargiasso, non potevi che perdonare tutto quanto. Così lei decise da sola.
Le donne fanno questo, quando hanno deciso. Non è vero che vogliono sapere la tua, non è vero che ti stanno dando una scelta: quando vengono a chiederti qualcosa, sanno già che lo faranno quale che sia la tua risposta. Se sentono che le carni e il momento sono maturi, portano questa cosa a termine con o senza di te. La predestinata unione dei vostri geni si è compiuta sopra le vostre teste, e la nascita di quello che le si muove in pancia è ormai cosa fatta. Ogni gravidanza si decide altrove, al di là delle creature. È la biologia a decidere per le femmine e sono le femmine a decidere per tutti. Noi, maschi, siamo il miserabile ultimo anello della catena generativa.
Così lo scugnizzo fu lasciato alla sua giovinezza, e mia madre si tenne me. Aveva l’età, la forza e un lavoro, e di uno scugnizzo riluttante non sapeva che farsene. Certo, in Italia erano ancora gli anni in cui non era ben vista una donna sola, non fidanzata né sposata, con la pancia davanti. Ma in quella giungla di uomini in cui lei si aggirava per lavoro fu forse perdonata per la sua bellezza, per la sua professionalità, per il coraggio di aver voluto essere madre: di essersi prima scelta un maschio adatto e poi di averci rinunciato senza troppi pensieri, ed essersi avviata tutta sola su una strada sconosciuta e in salita, con l’unico appoggio delle proprie gambe. E ai lupi che le puntavano a tette e culo, e a tutte le forme che andavano via via accrescendosi e addolcendosi, facendosi ogni giorno più invitanti, mia madre già raccontava la libertà e l’orgoglio di essere una nuova donna che per andare avanti, vedete?, non ha bisogno della guida di un maschio, perché ormai nell’Italia del 1966 la femmina può decidere di avere o no un maschio accanto, e di vivere bene con lui o meglio senza di lui.
E chissà che dopo essere stata adorata non venne persino anche odiata, se già la presenza di una donna non maritata, incinta e per di più felice, in quegli anni era una pesante offesa all’uomo italico, sessista e paternalista, e se, alle domande che lui si faceva nella sua microtesta, la piccola grande donna libera e audace sembrava rispondere che il maschio è davvero indispensabile giusto quei dieci minuti ma, se è inadeguato e infantile, può anche restare a godersi la sua eterna infanzia, mentre la femmina che si è inchinata alla dea Necessità gli ha appena rubato quello che le serviva, e d’ora in poi lei lo guarderà dall’alto in basso com’è giusto che sia, dal momento che per una femmina non c’è niente di più rinunciabile di un maschio che ha da darle soltanto il seme.
Del resto, a dispetto di quel che racconta la Bibbia a proposito della nascita di Eva da una costola di Adamo, la verità scientifica è che la femmina viene prima. Prima della differenziazione dei sessi, esiste solo il genere dell’individuo che può riprodursi senza la necessità di un secondo individuo. In natura è la femmina la creatura originaria che produce i propri doppi – anzi, le proprie doppie – creando altre se stesse e popolando il mondo di infinite repliche, moltiplicandosi all’infinito. Il maschio appare in tipi di riproduzione più sofisticati, solo quando le femmine sentono bisogno di variare il proprio corredo genetico. Ovvero, il maschio appare quando la femmina ne sente la necessità. Prima di quel momento non è assolutamente previsto. Non era nei piani della natura un individuo che non riesce a riprodursi da solo, e per le spietate regole dell’evoluzione a lungo l’esistenza di un secondo genere ha rappresentato un costo troppo elevato. E direi che con la fecondazione artificiale il maschio si appresta a ritornare nel regno dell’innecessario da cui è apparso, da dove un giorno è stato richiamato dalle femmine, immaginato e inventato dalle femmine.
Per l’individuo femmina, tra l’altro, sono molti gli svantaggi della riproduzione sessuata, quella che impone l’esistenza di un secondo individuo. Il maggiore è la fatica di mettersi alla ricerca dell’altro mentre hai già lì pronta te stessa, e non hai che da farti spuntare una gemma o cadere una mano o un braccio che ti ricresceranno all’istante, e dai quali vedrai venire al mondo una giovane e fresca copia di te. E poi, nella ricerca di individui maschi con cui accoppiarsi, l’individuo femmina ha infinite possibilità di sbagliarsi sulle loro qualità genetiche, mentre non ha una sola possibilità di sbagliarsi sulle sue proprie qualità. Infine, con la riproduzione solitaria la femmina assicura al figlio il suo stesso corredo genetico al cento per cento, mentre con la riproduzione sessuale andrà perso il cinquanta per cento del suo scintillante DNA a favore del cinquanta per cento del DNA di un perfetto idiota.
Sono nato con difficoltà, avevo il cordone ombelicale avvolto due giri attorno al collo. Lo considero il tentativo suicidiario numero zero.
Se i primi tre anni di vita sono preziosi per lo sviluppo del bambino, devo aver vissuto tre anni di paradiso: “il bel tempo delle tenerezze materne”, come in una lettera Baudelaire definisce la sua breve vita felice prima che la madre sposasse l’orribile tenente colonnello Aupick.
Più che la precisione dei ricordi ho di quegli anni la sensazione di una calda felicità, di un perfetto bene. Formiamo una splendida coppia. Mia madre che, già abbandonata dal padre, si è ripromessa di scegliersi uomini da poco che sarà lei per prima ad abbandonare. E io, che ho bisogno solo del suo corpo, della sua tetta, delle sue cure. Una ragazza madre e suo figlio: non si tesse al mondo legame più stretto. Lei progetta di insegnarmi a essere diverso dagli altri uomini. Verrò su l’uomo che giorno per giorno lei inventerà insieme a me, crescerà insieme a me. Se lei si sente donna nuova, anche io verrò su uomo nuovo. Quando ci pensa le sembra che stiamo dando vita al primo organismo, bicellulare, di un mondo più bello e più giusto.
Appena nato, la pediatra mi sottrae all’ostetrica che mi sottrae a mia madre. «Signora, lei è stanca? Anche suo figlio.» E mi porta via. Bionda poi bianca, asciutta ma non rigida nel suo camice, severa ma mai arrogante nelle sue diagnosi, la dottoressa G. è parte del gioco che era allora la vita per me. La serenità e la fiducia con cui ci incamminiamo per viale Michelangelo, il grande portone in legno, la saletta d’aspetto su cui danno da una parte il suo studio e dall’altra il suo appartamento, il pouf con dentro i giochi per intrattenere i piccoli pazienti, tutto è ancora parte di un ininterrotto flusso di gioiosa sorpresa, incantamento. Quando nella sala d’aspetto le madri si sventagliano il sudore dalle fronti, accanto ai pupi avvolti nella flanellina o nel cachemire, la dottoressa G. con in mano un paio di forbici si avventa sui passeggini. «Signora, lei ha caldo? Anche suo figlio.» E taglia via, addosso ai pargoli, maniche di maglie e pigiami e pulloverini troppo pesanti per la stagione.
Mia madre la adora. «Dottoressa, fino a quando potrò portarglielo?»
«Finché non va a fare il soldato.»
La dottoressa G. sarà il mio medico fino alla tarda adolescenza quando, ormai coi peli sul pube, mi rifiuterò di andare a spogliarmi nudo davanti a una settantenne.
Intanto mi svezza con l’alimentazione di un principe: vitamine, il succo di cinquanta grammi di carne rossa, un quarto di mela grattugiata, un cucchiaino di uovo.
La ragazza madre e lavoratrice va subito in cerca di una scuola dove possano tenermi per qualche ora al mattino, mentre lei è in ufficio. Entro alla Florentia a tre mesi, ne uscirò a nove anni. La scuola si trov...