Magari avrete già votato, nella vostra mente, ma attendete un attimo prima di prendere una decisione definitiva. Non tutti potrebbero conoscere così a fondo la Morte Nera (Death Star – «Stella della Morte» – in inglese). Molti potrebbero persino non ricordarsi che ci siano state una prima Morte Nera (DS I), vista nel film Una nuova speranza, e una seconda (DS II) più grande apparsa in Il ritorno dello Jedi.a Per darvi qualche informazione sulle tecnologie presenti a bordo credo che l’aiuto del pubblico possa essere quello che fa al caso giusto.
Vediamo quindi di interrogare dei rappresentanti di una popolazione galattica riguardo a queste terribili armi che hanno per loro rappresentato un terribile pericolo. Il nostro pubblico non voterà, ma vi darà delle informazioni utili.
All’inizio avevo pensato di chiedere a un gruppo di jawa, quei piccoli monaci cleptomani che contrattano con chiunque – Impero incluso – e sanno tutto di tutti – Impero incluso. Il problema è che capiscono le lingue ma, per limitazioni vocali, parlano solo il jawaese, un insieme di sillabe senza senso supportate da emissioni di feromoni. Che io non riesco a emettere a comando.
Gli ewok, gli orsacchiotti pacioccosi con le lance di legnetti, meglio evitarli: passerebbero il tempo ad abbracciarci e comunque hanno avuto a che fare solo con la seconda Morte Nera e non con la prima.
I gungan li ho esclusi a priori sia perché temporalmente… comunque fidatevi, vi ho fatto un favore.
Sinceramente avrei voluto chiedere a dei tusken (anche detti sabbipodi, anche se loro chiamano sé stessi ghorfa), perché sono spesso ritenuti cattivi, violenti e arretrati, ma sono un popolo tutto da scoprire. Intanto sono più o meno nemici di tutti, quindi anche dell’Impero. E poi ricordano anche tutto di tutti. I loro cantastorie hanno infatti una memoria strepitosa, perché non avendo una lingua scritta basano tutto sulla tradizione orale per trasmettere informazioni ai discendenti. Un cantastorie ghorfa deve per esempio ricordare la storia di ogni membro del clan. Se non lo fa, viene ucciso. No pressure.
Il problema è che i ghorfa parlano il tusken, un idioma gutturale con lunghi vocaboli compositi come Grk’Urr’Akk, Grk’kkrs’arr, Orrh Or’Ur e Orr’UrRuuR’R. E io non lo parlo.
Ho deciso dunque di affidarmi a un gruppo di mon calamari, per tre ragioni. La prima è che sanno parlare il basic galattico, la lingua più comunemente parlata nella galassia. Il che è un vantaggio non da poco. La seconda è che, dai tempi in cui conobbi per la prima volta l’ammiraglio Ackbar, mi ispirano fiducia: hanno l’aria di quelli che ne sanno, che al gioco non li freghi con trucchetti e trappole. La terza è che, per prepararsi a distruggere la seconda, hanno studiato molto a fondo anche la prima Morte Nera.
Leggiamo dunque la loro descrizione delle tecnologie di queste armi di distruzione di massa.
La struttura della prima Morte Nera aveva un diametro di 120 chilometri ed era divisa in due emisferi composti da 12 zone ciascuno, come spicchi di quel succoso frutto chiamato arancia che si narra mangiassero i senatori di Naboo. Era talmente massiccia da avere una propria attrazione gravitazionale, ma era estremamente resistente e solida: questo le permetteva di non collassare su sé stessa. All’interno c’erano 357 livelli capaci di ospitare quasi 2 milioni di persone tra personale, truppe d’assalto e guardia dell’Imperatore. Oltre a 7000 caccia TIE, 3600 navette, 2800 camminatori AT e quasi 1900 mezzi da sbarco.
La seconda Morte Nera era addirittura più grande, con un diametro di 160 chilometri. Una volta completata avrebbe ospitato quasi 2 milioni e mezzo di persone a bordo, quasi 30.000 fra navette e mezzi e addirittura 16 navi capitali lunghe centinaia o migliaia di metri. Non aveva le vulnerabilità che ci avevano permesso di distruggere la prima durante la Battaglia di Yavin. Il condotto di scarico termico connesso direttamente al reattore centrale era stato sostituito da milioni di microcondotti larghi un millimetro sparsi sulla superficie della stazione. Sulla superficie esterna erano inoltre stati montati migliaia di cannoni turbolaser in più, per diminuire i punti deboli.
L’iperguida è un sistema di propulsione che permette a un’astronave di raggiungere la velocità della luce e addirittura superarla, attraversando lunghe distanze nella dimensione dell’iperspazio. Grazie all’iperguida è quindi possibile inoltrarsi nello spazio profondo senza essere vincolati come i caccia TIE a una nave capitale o a un pianeta. Bisogna però stare molto attenti quando si viaggia grazie all’iperguida: oggetti di grandi masse nello spazio – come pianeti, stelle e buchi neri – proiettano ombre di massa nell’iperspazio, delle specie di firme gravitazionali. I salti nell’iperspazio richiedono dunque un tracciato accurato per evitare queste ombre, che possono essere fatali.
Il Superlaser è un dispositivo che unisce diversi raggi laser molto potenti in un unico raggio estremamente potente. Il Superlaser Mk I, della Prima Morte Nera, era alimentato dal reattore centrale della nave. Questo funzionava a ipermateria, una materia composta da tachioni, ovvero particelle che viaggiano più veloci della luce. La seconda Morte Nera possedeva invece tre reattori a ipermateria, di cui uno dedicato esplicitamente al Superlaser Mk II. Questo le permetteva di caricare l’arma in soli tre minuti, invece delle 24 ore necessarie alla stazione precedente. In entrambe le armi, però, la potenza prodotta dal reattore veniva poi convogliata in appositi tubi ottici (64 nella DS I, 56 nella DS II). A gruppi da 8 i tubi ottici facevano convergere i fasci laser in camere di convergenza (8 nella prima Morte Nera, 7 nella seconda), dove degli appositi cristalli amplificavano i raggi laser creando fasci di luce che affluivano sommandosi tutti in un unico potentissimo raggio laser. Questo veniva sparato dal centro del piatto concavo presente nell’emisfero superiore delle due stazioni spaziali. Grazie ai cristalli la quantità di energia sprecata era bassissima, e ciò consentiva di avere raggi laser in grado di colpire a grandi distanze: la distanza ottimale era di 2 milioni di chilometri (quasi sette volte la distanza fra la Terra e la Luna), ma si poteva arrivare a 420 milioni di chilometri (quasi tre volte la distanza tra la Terra e il Sole). I Superlaser delle Morti Nere erano i più potenti mai realizzati, in grado di distruggere all’istante un intero pianeta con un solo colpo. Mentre il primo Superlaser poteva sparare solo a grossi bersagli di dimensioni planetarie, però, il secondo aveva una precisione che gli consentiva di colpire anche le navi capitali nemiche.
Beh, possiamo dire che il nostro pubblico di Mon Calamari ci ha dato un quadro molto esaustivo delle tecnologie delle due Morti Nere. Avete dunque tutti gli strumenti per poter prendere la vostra decisione, dopo aver modificato la domanda in seguito all’aiuto.
DOMANDA
Quale delle tecnologie presenti sulla Morte Nera sarebbe oggi realizzabile a livello puramente teorico (anche non avendo ancora la tecnologia necessaria)?
| A | – | la struttura sferica con un diametro fino a 160 chilometri, con centinaia di livelli e fino a 2,5 milioni di persone a bordo, capace di non collassare su sé stessa |
| B | – | il motore che le permette di superare la velocità della luce |
| C | – | il laser distruggi-pianeti |
| D | – | nessuna delle tre |
Via, più veloce della luce!
Mi sia concesso distruggere subito le speranze di molti: niente può superare la velocità della luce nel vuoto.a E nemmeno raggiungerla davvero.
Non lo possono fare le particelle elementari (qualcuno ha detto «neutrini»?), figurarsi gli oggetti.
Non solo. Non è che non sappiamo farlo ora, per un limite tecnologico: a meno che non cambi qualcosa di grosso, non potremo mai farlo in futuro.
E la cosa che dovrebbe cambiare è la fisica.
Immaginiamo di essere all’interno di una astronave. Secondo la relatività di Einstein, man mano che viaggeremo a velocità più elevate, il nostro tempo scorrerà sempre più lentamente (e le distanze che percorreremo si contrarranno). Inoltre, per accelerare sarà necessaria sempre più energia. A un certo punto sarà richiesta energia infinita. Ma, anche se misteriosamente avessimo questa energia infinita, una volta raggiunta la velocità della luce il tempo si fermerebbe. E col tempo fermo sparirebbe anche il concetto di velocità, che è quanto spazio percorriamo in un lasso di tempo.
Certo, potremmo sperare che Einstein si sia sbagliato, e che quindi in futuro potremo scoprire una nuova fisica. Per carità, nella scienza non si può mai dire, ma è più di un secolo che mettiamo alla prova questa e altre parti della sua teoria o che proviamo a smontarla senza successo. Quindi il dubbio che sia corretta ci è venuto, nel frattempo.
La velocità della luce nel vuoto sembra proprio essere un limite fisico invalicabile.
A essere onesti, verso la metà del Novecento sono state teorizzate delle particelle capaci di viaggiare a una velocità superiore: sono i tachioni che, a parte nella frase sull’ipermateria di poco fa, forse avrete sentito nominare altre volte. Sono infatti molto sfruttati nella fantascienza quando si vuole parlare di viaggi nel tempo (oltre a Star Wars li ritroviamo anche in Star Trek, Watchmen, Doctor Who, I Fantastici Quattro, e chi più ne ha più ne metta). I tachioni avrebbero una particolarità difficile da figurarsi: una massa immaginaria. Che non vuol dire che crederebbero di averla senza esserne davvero in possesso: in matematica immaginario è un numero il cui quadrato è negativo. Cosa vorrebbe dire fisicamente? Non ne abbiamo la più pallida idea.
Ciononostante i tachioni compaiono in alcune versioni della cosiddetta teoria delle stringhe. Sono dunque reali o plausibili? Non è affatto detto: spesso esistono soluzioni di equazioni matematiche che poi non corrispondono a nulla nella realtà fisica. Uno dei problemi della fisica deriva proprio da uno dei suoi strumenti più portentosi: l’uso della matematica come linguaggio. La matematica spesso giunge a soluzioni che la fisica non sa come interpretare. Basti anche solo pensare all’infinito: per la matematica non è affatto un problema, per la fisica sì, e pure grosso. Soltanto gli esperimenti, ossia le misure di effetti osservabili e riproducibili, possono stabilire dunque la validità di una teoria. E ciò che sappiamo è che dagli anni Sessanta a oggi sono stati effettuati diversi esperimenti alla ricerca dei tachioni, ma tutti hanno prodotto risultati negativi.
Oltre alla mancanza di evidenze sperimentali (cosa che, nella scienza, è di solito spiacevole), anche qualcos’altro fa pensare che i tachioni non siano reali: una loro eventuale esistenza implicherebbe la violazione del principio di causalità, che è uno dei fondamenti della fisica e – mi permetto di dire – della scienza, della filosofia e della nostra esistenza. Stiamo parlando della relazione causa-effetto: faccio una cosa e a causa di questa ho una conseguenza. Se i tachioni esistessero e potessero interagire con la materia che conosciamo, la causalità sarebbe violata: queste particelle potrebbero infatti mandare energia o informazioni nel loro passato, formando un cosiddetto paradosso temporale.
Quindi, per quanto ne sappiamo, il limite della velocità della luce nel vuoto non è oltrepassabile.
E non solo: è anche irraggiungibile. A meno che non siate luce, che non ha massa. O onde gravitazionali, deformazioni dello spaziotempo anch’esse senza massa.
Vermi nello spazio
A proposito, due parole sullo spaziotempo forse è il caso di farle. Nella nostra vita di tutti i giorni noi sperimentiamo continuamente le tre dimensioni: altezza, larghezza e profondità. Secondo i fisici però, dal tizio baffuto e con la lingua di fuori in poi, bisogna ragionare anche con una quarta dimensione: il tempo. Questo nella nostra testa è un qualcosa a sé stante, che scorre per i fatti suoi, ma è in realtà strettamente intrecciato alle tre dimensioni spaziali. E questa trama a quattro fili, formata da spazio e da tempo, è il tessuto che con uno sforzo di fantasia degno di nota i fisici hanno nominato spaziotempo. Immaginarcelo è molto difficile: la nostra mente non sa pensare in quattro dimensioni. Dobbiamo quindi arrangiarci con esempi tridimensionali, imbrogliando un po’. L’analogia più utilizzata è quella dello spaziotempo come un telo elastico, che si stiracchia e si deforma quando sopra ci poso delle masse, come ad esempio delle bocce pesanti. Come tutte le analogie, però, questa non è precisa al 100%: il telo ha solo tre dimensioni, e quindi le deformazioni sono sempre verso il basso. Per avere un’idea più corretta dovreste immaginare che lo spaziotempo sia una specie di gelatina: la boccia, dunque, non sarebbe poggiata bensì immersa in esso. La deformazione a quel punto non sarebbe solo sotto la boccia, ma tutto attorno. Visto però che l’analogia della gelatina è più complicata da utilizzare, mi perdonerete se l’abbandonerò mentre parliamo di iperspazio.
Perché sì, l’iperspazio esiste.
Il termine iperspazio è ...