Il grande assedio di Przemysl
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Il grande assedio di Przemysl

1914. Storia di una battaglia dimenticata

  1. 400 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il grande assedio di Przemysl

1914. Storia di una battaglia dimenticata

Informazioni su questo libro

Il 14 settembre 1914 la città-fortezza di Przemysl fu raggiunta dalle truppe in ritirata dell'esercito asburgico: a pochi mesi dalla dichiarazione di guerra, le propaggini nordorientali dell'impero stavano già cadendo in mano all'armata russa. L'Europa era ormai sprofondata in un conflitto che in molti avevano reputato impossibile, ed entrambi gli schieramenti avevano già subìto perdite inimmaginabili prima di allora. Di lì a poco i piani strategici elaborati tanto sul fronte occidentale quanto su quello orientale si sarebbero sgretolati, per lasciare spazio a una disperata improvvisazione tattica; e mentre a ovest lo scontro si trasformava in una guerra di trincea, a est gli occhi erano tutti puntati sulla vecchia fortezza austroungarica, giudicata la più grande e solida del tempo. Ma assaltandola a due riprese, tra l'autunno del 1914 e la primavera del 1915, le truppe dello zar avrebbero dimostrato che il gioiello degli Asburgo non poteva nulla di fronte ai progressi compiuti dall'artiglieria moderna.La vicenda di Przemysl tenne con il fiato sospeso l'opinione pubblica e suscitò una vasta eco nella stampa popolare; la strenua difesa di quella che sarebbe passata alla storia come la «Stalingrado austroungarica» ebbe il suo altissimo tributo di sangue tra soldati e popolazione civile. Alla fine, l'esercito nemico riuscì a espugnarla, ma quell'assedio - il più lungo della Prima guerra mondiale - fiaccò le forze russe prima che potessero dilagare nell'Europa centrale. Entrambi gli imperi uscirono indeboliti da quello scontro, che segnò uno dei punti di svolta nel conflitto. Eppure la tragica storia di Przemysl è stata quasi dimenticata in Occidente.Oggi, grazie a una rigorosa ricerca tra i documenti dell'epoca e i diari inediti degli abitanti assediati, lo storico e saggista Alexander Watson ci restituisce il vivido racconto di quell'epica resistenza. Mostrandoci che proprio lì vanno cercate le radici dell'orrore che avrebbe travolto la regione nei decenni a venire, tra nazionalismo, antisemitismo e furia sterminatrice.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2021
Print ISBN
9788817155007
eBook ISBN
9788831803472
Argomento
Storia
1

Un esercito disfatto

Al centro della città vecchia di Przemyśl si erge una torre dell’orologio del XVIII secolo, alta quaranta metri. La mattina del 14 settembre 1914 chiunque fosse salito in cima a quella struttura barocca, lascito di un’epoca più pacifica, si sarebbe trovato davanti un panorama terrificante. Lungo la strada principale da Łwów, a est, una caotica massa di uomini e animali avanzava verso la città. Veicoli militari, disposti in fila per quattro, ruota contro ruota, riempivano la strada ridotta a un nastro di fango. Dietro di essi barcollavano i superstiti di quelli che un tempo erano stati fieri reggimenti. Il capo chino, gli occhi incavati e lo sguardo spento raccontavano di settimane insonni e orrori indicibili. La colonna procedeva in modo disordinato. Un cavallo crollava a terra stremato; un carro finiva in un fossato bloccando il traffico dietro di sé. Partivano le imprecazioni, l’ostacolo veniva rimosso e la processione continuava dolente. Colonne dall’aspetto altrettanto miserando, che si estendevano a perdita d’occhio, bloccavano tutte le vie d’accesso a Przemyśl, in ogni direzione. Soldati laceri, che avevano abbandonato la propria unità e mollato l’equipaggiamento nella fretta di mettersi in salvo, arrivavano dai campi. Alle spalle di questa massa scura che convergeva sulla città, una scia di morti e moribondi abbandonati nei fossi o tra le sterpaglie, falcidiati dal colera o dal tifo. Era ciò che restava del disfatto esercito austroungarico.1
I cittadini di Przemyśl, come molti di coloro che vivevano nell’impero asburgico, non avevano previsto lo scoppio di una guerra di portata europea. Certo, era stato dato ampio risalto all’assassinio dell’erede imperiale e di sua moglie a Sarajevo, alla fine di giugno. La stampa locale aveva condannato «l’orrendo crimine» e avanzato congetture sull’eventuale coinvolgimento della Russia.2 Tuttavia, nessuno poteva immaginare che la morte di un solo uomo, sebbene importante quanto l’arciduca Francesco Ferdinando, avrebbe messo fine a quasi mezzo secolo di pace. L’Europa era terra di ragione e umanità. Le crisi nei Balcani, territori considerati non del tutto civilizzati, non erano una novità. I giornali erano presto passati ad altri argomenti. E poi, era estate. L’intellighenzia della città era in vacanza, a godersi il caldo. I contadini nei villaggi circostanti erano troppo impegnati a preparare la mietitura per preoccuparsi di una cosa tanto astratta quanto un conflitto tra grandi potenze.3
L’annuncio della mobilitazione generale del 31 luglio, perciò, «ci ha colpiti come un fulmine a ciel sereno» ricordò un residente.4 Grandi manifesti apparvero per le strade ordinando a tutti i maschi adulti, fino all’età di quarantadue anni, di presentarsi in servizio. L’esercito, sempre centrale nella vita della città-fortezza, divenne onnipresente. Già prima del 6 agosto, il giorno in cui l’impero asburgico dichiarò guerra alla Russia, le scuole erano state destinate a ospitare ospedali militari. La vivace stampa locale di Przemyśl, piena di opinioni contrastanti in tempo di pace, chiuse i battenti. Le informazioni, pertanto, arrivarono in forma di monolitici, incontestabili e innumerevoli proclami ufficiali. Passo dopo passo, misero la città sul piede di guerra.5 I più perspicaci si resero conto che il conflitto sarebbe stato globale. Il dottor Jan Stock, fisico dell’Università di Łwów arruolato nei ranghi e di stanza a Przemyśl, si stupì dei preparativi.
Ogni essere umano non è solo inghiottito dalla guerra, ma vi prende parte attiva. Non avrei mai creduto, se non l’avessi visto con i miei occhi, che tutto ciò che si definisce «vita» potesse subordinarsi a un’unica volontà e alla guerra. Comunicazioni telegrafiche e telefoniche, traffico ferroviario, marittimo e stradale: tutto quanto destinato all’impiego bellico.6
La frenesia di quei giorni era qualcosa di impressionante. Przemyśl, in piena mobilitazione, divenne «movimento, urla, rumore».7 Tutti erano in strada. I riservisti le percorrevano di corsa per raggiungere le rispettive unità. Le loro mogli se ne stavano lì ferme, in fila fuori dalle banche per ritirare i risparmi di famiglia o in attesa davanti ai negozi per comprare cibo. I più sventurati, arrestati perché sospettati di spionaggio o tradimento, vi passavano in preda all’agitazione o mogi, sotto scorta. I soldati vi marciavano e cantavano. I mezzi di trasporto dell’esercito le percorrevano rumorosi. Alla partenza della 24a divisione di Przemyśl, gli uomini avanzarono a passo svelto, al ritmo della musica della loro banda di ottoni, con fiori e foglie di quercia – il simbolo tradizionale dell’esercito asburgico in guerra – infilati nei cappelli. Sarebbe apparsa come una scena gioiosa, osservò un astante, «se non fossero stati accompagnati da tante donne in lacrime».8
Nella principale stazione ferroviaria della città, il fermento era ancora maggiore. Qui si poteva vedere ancora meglio che la mobilitazione di Przemyśl faceva parte di un vasto sforzo imperiale. Quell’agosto l’esercito asburgico schierò in Galizia due terzi della propria forza, circa un milione e duecentomila uomini. Questi soldati erano stati arruolati da tutto l’impero e molti di essi passarono per Przemyśl. Al grido di giubilo «Hoch!», nel nasale timbro viennese, rispondevano lo sloveno «żivi!» o il polacco «Niech żyje!». Gli sgargianti soldati dell’Honvéd (una delle forze armate dell’impero, i cui effettivi erano reclutati dalla regione ungherese) arrivarono cantando, a bordo di carri decorati con i colori rossobiancoverdi del loro Paese. Su altri mezzi di trasporto truppe erano disegnate con il gesso le caricature dei monarchi nemici e le battute aggressive riflettevano i tanti avversari e l’immensa portata geografica del conflitto:
Ogni sparo un russo,
ogni pugno un francese,
ogni calcio un britannico
e i serbi fatti a pezzi!9
Il destino di Przemyśl era legato a questo impero multinazionale. La prima vittoria asburgica sui russi, a Kraśnik, centocinquanta chilometri a nord, nella Polonia zarista, il 25 agosto, parve sottolineare proprio questo, dal momento che vi avevano preso parte reggimenti locali. Il consiglio cittadino fece affiggere manifesti che annunciavano la buona notizia. Si tenne una fiaccolata celebrativa.10
Poi, alla fine di agosto, le notizie divennero meno buone. Arrivarono masse di feriti. La vista di quei treni carichi di umanità sofferente fu profondamente scioccante. «Sparati al cuore e ai polmoni, terribili ferite allo stomaco, sangue, vomito, feci… Non un lamento, apatia» fu come riassunse lo strazio una signora del posto che serviva bevande calde alla stazione principale. Quelli in grado di parlare raccontavano di combattimenti in assoluta contraddizione con i proclami ufficiali. L’artiglieria asburgica aveva sparato alla propria fanteria. Le uniformi grigio azzurro, in teoria mimetiche, erano troppo evidenti e rendevano i soldati facili bersagli. «Vittoria» si rivelò essere solo un eufemismo per «pesanti perdite». Il fronte orientale si avvicinava sempre più. Il tradimento era ovunque. I soldati ce l’avevano in particolare con la popolazione di lingua ucraina per la sua slealtà. Bandiere, specchi e fumo, raccontavano amareggiati, tutto ciò era stato utilizzato per segnalare la loro posizione al nemico. In un villaggio, si raccontava, i civili erano arrivati al punto di tenere una processione, con il pretesto di pregare per la vittoria asburgica, ed erano passati vicino alle postazioni dell’artiglieria, attirando l’attenzione su di esse in modo che i russi sapessero dove lanciare le proprie granate.11
Come a confermare la verità di questi racconti, il 30 agosto, per la prima volta, a Przemyśl si udì il cupo rimbombo dell’artiglieria a est.12 Le misure per preparare la fortezza all’azione accrebbero l’inquietudine dei residenti. Di notte, un cerchio di fuoco circondò la città: i militari avevano dato alle fiamme i villaggi antistanti i fortini. La conferma definitiva del disastro imminente giunse sotto forma di treni di sfollati, carichi fino all’inverosimile, provenienti da Łwów. La gente voleva fuggire a tutti i costi, viaggiando perfino sui tetti dei vagoni ferroviari. Laggiù, nella capitale della Galizia, appena novanta chilometri a est di Przemyśl, regnava un caos mai visto sin dall’invasione dei tartari nel XVI secolo. Il sindaco della città, le autorità provinciali e le banche erano tutti fuggiti. Sia lo stato di diritto sia l’approvvigionamento alimentare erano crollati. Rifugiati traumatizzati raccontavano di fiumi di feriti asburgici in ritirata per le strade, di ospedali sovraffollati, di soldati lasciati feriti e moribondi nei parchi cittadini.13
Gli abitanti di Przemyśl ascoltavano inorriditi questi racconti. Ma fu ancora peggio quando, dopo il 1° settembre, i treni con i rifugiati smisero di arrivare. Si sparse la voce che adesso era Przemyśl il capolinea. Łwów era caduta. Le notizie ufficiose inaugurarono quelli che i cittadini definirono in seguito «i giorni del panico».14
Chiunque dotato di denaro o conoscenze fuori dalla città si precipitò a fuggire. Il comando della fortezza annunciò un’evacuazione obbligatoria per il 4 settembre. Seimila persone, perlopiù ruteni ed ebrei, ricevettero l’ordine di partire, insieme a chiunque non possedesse scorte di viveri per tre mesi.15 L’esercito contava sulla partenza di circa ventimila persone. Tuttavia, i ripetuti appelli alla popolazione sin dall’inizio di agosto perché facesse scorta di cibo o si tenesse pronta a partire nel giro di ventiquattro ore erano stati ascoltati. Perfino i poveri avevano fatto scorta di viveri e, senza un posto dove andare, si rifiutavano di salire a bordo dei treni per l’evacuazione. L’11 settembre, fu pertanto emanato un altro proclama che annunciava altri treni gratuiti nei due giorni successivi. Il linguaggio, stavolta, era molto più duro. «Chiunque non obbedisca volontariamente a questa convocazione,» ammoniva «sarà esiliato dall’esercito e le misure coercitive saranno applicate con la massima spietatezza.»16 Quando l’esercito schierato cominciò a ritirarsi in maniera consistente, passando per la fortezza, il 13 e il 14 settembre, a Przemyśl erano rimasti diciottomila civili, secondo i rapporti dei militari. In realtà, ne erano rimasti molti di più, sfuggiti al conteggio nel caos generale.17 Quello che i residenti videro era un esercito disfatto. Per alcuni, la cosa più impressionante fu l’entità della ritirata, l’apparentemente «catena infinita» di carri che sferragliavano nella piazza principale della città. Più angosciante per altri fu l’assoluto sfinimento dei soldati, gli stracci che indossavano e «la tristezza su tutti i volti».18 Per quanto inquietanti queste scene, ancora più ansiogeno era il pensiero di ciò che le seguiva, avanzando lentamente verso Przemyśl. Gli abitanti ne avevano già qualche sentore. Giorni prima, un treno che trasportava prigionieri russi era passato dalla stazione della città. Un prigioniero, un polacco al servizio dello zar, aveva infilato la testa tra le sbarre del suo vagone e urlato agli astanti: «Oh! Povera, povera gente. Una grande potenza sta venendo verso di voi. Vi uccideranno».19
L’uomo che aveva la responsabilità maggiore del disastro era il generale di stato maggiore dell’esercito asburgico Franz Conrad von Hötzendorf. Prestava servizio con quell’incarico, stratega e istruttore operativo dell’esercito, fin dal novembre 1906. Conrad apparteneva a quel tipo di uomini molto pericolosi, il romantico che si crede un realista. Abbracciava la tesi del darwinismo sociale dell’inevitabilità dello scontro e non era ottimista riguardo alle prospettive austroungariche. I compromessi politici che mantenevano in vita l’impero erano, a suo parere, ignobili. Aveva assistito inorridito a come, negli ultimi decenni di pace, la rilevanza internazionale dell’impero fosse crollata e la sua potenza militare fossilizzata, mentre i potenziali nemici diventavano sempre più forti. Solo un’immediata azione violenta e decisiva era in grado, secondo Conrad, di impedire il declino, imporre una riforma interna e garantire la sopravvivenza dell’impero come grande potenza. Il sessantunenne generale aveva anche una ragione personale per prediligere una politica bellica. Per quasi dieci anni, aveva sviluppato una disastrosa ossessione per una donna sposata, con poco più della metà dei suoi anni, la bellissima Gina von Reininghaus. Nonostante la crisi europea stesse ormai precipitando, trascorreva un’incredibile quantità di tempo a scriverle lunghe lettere appassionate. Conrad aveva finito per convincersi che, tornando romanticamente come eroe di guerra, avrebbe avuto un’esile possibilità di superare l’inflessibile legge sul divorzio austriaca e la titubanza della stessa Gina, riuscendo così a sposare l’oggetto del suo desiderio.20
Le sfide affrontate da Conrad nel preparare alla guerra l’esercito di Francesco Giuseppe furono indiscutibilmente temibili e non attribuibili alla sua volontà. Lo stesso generale, e per decenni a seguire i suoi apologeti, sosteneva che la responsabilità della sconfitta dell’impero era da attribuire ai suoi politici, che in tempo di pace si erano rifiutati di assegnare all’esercito fondi e manodopera sufficienti.21 C’era un fondo di verità in questa argomentazione. Nel 1912, il budget militare dell’impero ammontava a poco più di un terzo di quanto stava spendendo la Russia e a circa due terzi dei fondi che la Francia assegnava al proprio esercito. La leva annuale restava fissa a un livello stabilito nel 1889. Mentre la Germania addestrava ogni anno lo 0,49 per cento dei suoi cittadini e la Russia, che grazie alla colossale popolazione di centosettanta milioni di anime non aveva bisogno di essere minuziosa, ne arruolava lo 0,35 per cento, l’impero asburgico, con i suoi cinquantuno milioni di abitanti, ne adibiva ogni anno al servizio militare solo lo 0,27 per cento. Il parlamento ungherese, popolato da piccoli nobili che esigevano un proprio esercito nazionale, aveva bloccato ogni aumento fino a due anni prima della guerra. Di conseguenza, le difese dell’impero non furono modernizzate, gran parte dell’artiglieria rimase antiquata e l’esercito sottodimensionato. Alla mobilitazione del 1914, contro 3.400.000 russi e 250.000 serbi, l’esercito asburgico poté schierare solo 1.687.000 uomini.22
In quella polveriera che era l’Europa negli anni precedenti il 1914, un uomo saggio avrebbe guardato queste cifre e consigliato cautela nel dare inizio a eventuali ostilità. Conrad agì invece con estrema bellicosità. Il generale di stato maggiore aveva avanzato ripetute, aggressive richieste all’impero perché sferrasse una guerra preventiva. Queste richieste l’avevano messo in conflitto con il ministro degli Esteri dell’imperatore, Alois Lexa conte di Aehrenthal, e, infine, avrebbero portato al suo allontanamento. Era stato richiamato oltre un anno dopo, in occasione della crisi dei Balcani. L’ira di Conrad era indirizzata soprattutto verso due avversari che covavano mire irredentiste sul territorio asburgico e con i quali era convinto che il conflitto fosse inevitabile. L’Italia, per quanto fosse alleata degli Asburgo, era il primo dei suoi spauracchi e così aveva incanalato le scarse risorse per rafforzare le fortificazioni sul confine sudoccidentale e procurare nuova artiglieria da montagna per combatterla. A pochi mesi dalla sua nomina nel 1906, il generale di stato maggiore aveva invocato un attacco a sorpresa contro l’alleato. Cinque anni dopo, accarezzava ancora l’irrazionale idea, nonostante la disapprovazione dei diplomatici e dell’imperatore. La sua destituzione, durata un anno, era scattata quando aveva tentato di esigere un attacco all’Italia per la primavera 1912.23
L’altra ossessione di Conrad era la Serbia. Sebbene dapprima ritenuta una minaccia inferiore all’«ereditario nemic...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il grande assedio di Przemyśl
  4. Introduzione
  5. 1. Un esercito disfatto
  6. 2. «Gli eroi»
  7. 3. Assalto
  8. 4. Lo sbarramento
  9. 5. L’isolamento
  10. 6. La mancanza di cibo
  11. 7. Armageddon
  12. Epilogo. Nelle tenebre
  13. Appendice I. L’organizzazione dell’esercito asburgico nel 1914
  14. Appendice II. L’organizzazione dell’esercito russo nel 1914
  15. Ringraziamenti
  16. Note
  17. Bibliography
  18. Crediti iconografici
  19. Inserto fotografico
  20. Copyright