Avevo visto i ballerini della Full Tilt mille volte, ma avevo deciso che volevo essere uno di loro soltanto all’inaugurazione della sala bingo di Frankie McCall. Forse era il modo in cui i loro costumi scozzesi risplendevano sotto l’insegna al neon. Forse era il ticchettio delle scarpe sull’ampia pedana di compensato che Frankie aveva allestito sul marciapiede. Era più probabile, però, che il motivo fosse un altro: nell’ultimo anno mi ero fatto sbattere fuori da ogni circolo e attività extra scolastica a cui mi ero iscritto e nonna Squires aveva detto che se non avessi trovato un modo per dare sfogo al mio caratteraccio, prima dei vent’anni mi sarebbe venuto un infarto.
Il parcheggio davanti alla sala era stato transennato per lo spettacolo. La mamma era dietro di me e mi teneva le mani sulle spalle mentre papà, da bravo figliolo qual era, aveva portato la nonna tra le prime file per cercare un posto a sedere. Avrei voluto che ci fosse anche il mio fratellino Gord, perché la musica tradizionale di Terranova gli sarebbe piaciuta un sacco, ma era con mia sorella maggiore, Shelagh, che era rimasta a casa a riordinare dopo il pranzo della domenica. A Pius, l’altro mio fratello, lo spettacolo non interessava granché. «Smettila di fare l’angioletto, ti dispiace?» aveva detto. «Ci farai sembrare tutti una manica di stronzi.» Pius, o “il mio dolce sedicenne”, come lo chiamava la mamma da quando aveva compiuto gli anni, aveva la lingua lunga e criticava sempre tutti. Quando aveva saputo che saremmo andati a vedere i Full Tilt, aveva detto: «La danza tradizionale irlandese è roba da mezze seghe». Mentre ero nel parcheggio gremito, ipnotizzato dai frenetici passi di danza dei ballerini, mi sentii come il nostro seghetto alternativo a velocità regolabile da 400 watt. Perché se la danza tradizionale irlandese era roba da mezze seghe, io ero la più grande, nel capanno degli attrezzi di papà.
Frankie McCall era sotto la luminosa insegna al neon, tutto preso a tamburellare il piede e a battere le mani.
«Guardatelo» disse la mamma. «Sta gongolando.»
I Full Tilt avrebbero dovuto esibirsi alla casa di riposo Un Gradino dal Divino, ma McCall li aveva attirati con la promessa di cinque partite a bingo gratis a testa. I ballerini di Padre O’Flaherty erano l’attrazione più ambita della città, seguiti a ruota dal famoso Alfie Bragg e la sua Cornamusa Delusa.
I fissati del bingo di St John’s avevano accolto con entusiasmo la notizia che Frankie McCall stava costruendo un nuovo locale. Nella sala della parrocchia in cui si giocava di solito, c’era un problema di topi. La nonna attribuiva l’invasione ai salatini al formaggio che vendevano al bar. «Trovarne uno per terra è come fare tombola, per un topo» aveva detto. Non potevo darle torto. Io stesso ero famoso per averne mangiato più di uno, raccogliendolo dal pavimento.
La gente aveva cominciato a disertare la sala e quando la lingua più lunga della città, Bernadette Ryan, aveva chiamato la radio locale per dire che la nonna novantanovenne, appassionata di bingo, mostrava i sintomi della peste – naso che cola, spossatezza, senso di prostrazione – le persone smisero di andarci del tutto. Il nostro vecchio parroco, Padre Molloy, cercò di far ragionare i parrocchiani, dicendo che la sala era stata disinfestata non una, bensì due volte, ma Bernadette continuò imperterrita. Disse che la disinfestazione non era sufficiente, che durante la Grande Peste di Londra lenzuola e abiti contaminati venivano bruciati per impedire il contagio; perciò, la sala della parrocchia infestata dai topi avrebbe dovuto essere rasa al suolo. Fu allora che intervenne Frankie McCall, informando tutti che avrebbe costruito una nuova sala bingo per conto della chiesa. Il giorno dell’annuncio, Padre Molloy disse che McCall era un “grandissimo benefattore”. La mamma commentò: «Un grandissimo penefattore, vorrai dire». Quando le chiesi cosa intendesse, mi disse di andare a chiedere a Tizio e a Caio. Soltanto che non conoscevo nessuno con quel nome.
Dopo il numero d’apertura dei ballerini, Frankie indicò le doppie porte, transennate da un nastro giallo da scena del crimine.
«Ecco il risultato» disse Frankie, «quando affidi il compito di tagliare il nastro all’idiota del villaggio.»
“L’idiota del villaggio” era la madre novantaquattrenne di Frankie. Mi avvicinai alla donna. «Suo figlio è proprio un uomo senza scrupoli.»
«Non preoccuparti» disse. «Avrà la punizione che si merita.»
Frankie mimò il gesto di tagliare il nastro. «Dove sono le forbici?»
L’idiota del villaggio gli passò un paio di forbici di plastica rosa con la punta arrotondata. Scoppiai a ridere e dissi: «Ben fatto, signora».
Frankie cominciò a tagliare, sudando sette camicie. Sull’ultimo colpo di forbici, i Full Tilt eseguirono un’altra danza per festeggiare. Fu una bella esibizione, ma I’se da B’y era troppo scontata. Se fosse stato per me, avremmo cantato Bingo: “C’era un signor che aveva un gioc-o, e bingo era il suo nom-e. b-i-n-g-o”. Era chiaro: la compagnia di ballo aveva bisogno delle mie idee fuori dagli schemi. Quando l’applauso si spense, dissi ai miei genitori che il mio nuovo obiettivo nella vita era diventare un ballerino della Full Tilt.
«Scordatelo» disse papà. «Tutto quel fracasso ci farebbe diventare matti.»
«Ma ho un presentimento» protestai. «È come un fuoco sacro che mi brucia i lombi.»
«Per l’amor di Dio, Barry» mormorò la mamma. «Non dovresti mai parlare dei tuoi lombi all’ombra della basilica.»
«Questa te la sei appena inventata» dissi. «Nella Bibbia parlano di lombi tutto il tempo.»
Papà ci sospinse verso la sala. «Andiamo. Il bingo sta per cominciare.»
«Chissenefrega del bingo» dissi. «Qui si sta parlando dei miei sogni.»
«La risposta è no» ribadì la mamma. «Tanto ti stuferesti dopo qualche settimana.»
«E vederti saltellare per casa come un idiota è l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno» aggiunse papà.
Raccolsi un sasso da terra e lo lanciai contro l’insegna al neon. «Be’, ’fanculo tutti!»
Il sasso atterrò a mezzo metro dal bersaglio.
«Sei fortunato a non averla colpita» disse Frankie McCall. «Una mossa del genere e avrei bandito per sempre tutta la tua famiglia dalla sala.»
«Che Dio me ne scampi» disse la mamma. «Se mandi tutto all’aria, ti diseredo.»
Adorava giocare a bingo.
Mentre entravamo nella sala, papà mi prese da parte afferrandomi un gomito. «Si può sapere cosa ti prende, Barry? Tua madre esce di casa per la prima volta da quando è nato Gord e tu decidi di trasformarti nell’Anticristo.»
Mi divincolai. «Per sua informazione» dissi, «sono membro onorario del Fan Club di Gesù e questo, buon uomo, fa di me un sostenitore di Cristo. Un acceso sostenitore, a dire il vero.»
«Non chiamarmi “buon uomo”» disse papà. «Sono tuo padre, per Dio.»
«A proposito di pronunciare il nome di Dio invano» dissi, «chi è l’Anticristo adesso?»
Raggiunsi nonna Squires, che mi aspettava al bar. Mi comprava un dolcetto tutte le settimane: una ricompensa perché l’aiutavo a star dietro alle venti cartelle che giocava contemporaneamente. «Prendi quello che vuoi» mi disse. Mentre davo un’occhiata, con lo stomaco che brontolava, aggiunse: «A parte i salatini al formaggio. Hanno fatto scoppiare l’epidemia, lo sai».
Frankie McBingo aveva fatto un lavoro incredibile e il nuovo bar era super rifornito. Avevo l’imbarazzo della scelta! «Guarda, nonna» dissi, «hanno anche le tortine al cioccolato!» Ma lei non rispose. Era troppo occupata ad ammirare la lucentezza del nuovo bancone. «Spero che utilizzino un prodotto specifico per le superfici in acciaio inox» disse. «Così non perderà il suo splendore.»
Presi un sacchetto di patatine e raggiungemmo i miei genitori a un tavolino affollato.
«Cos’è successo alle cartelle?» chiesi. Erano diverse da quelle con cui giocavamo di solito. Non c’era nemmeno la parola Bingo scritta sopra.
«Frankie vuole provare il Bingo90» disse la nonna.
«Ci ha giocato quando era in vacanza in Inghilterra» aggiunse la mamma.
«Adesso concentrati, Finbar» disse la nonna. «Chiameranno soltanto numeri, niente lettere.»
«È un’assurdità» protestò papà. «Un’assurdità totale.»
Ci sedemmo tutti e quattro con i nostri pennarelli sospesi sulle cartelle, aspettando che chiamassero i numeri. L’impianto audio cominciò a crepitare.
«Sessantadue, quarto di bue.»
«Cosa cavolo sta dicendo?» chiese papà.
«In Inghilterra si gioca così» rispose Frankie McCall, che era lì vicino. «Non è ancora più divertente?»
«Numero tre, una tazza di tè.»
Riconobbi la voce. Era Steven lo Storto, l’eccentrico inglese ospite fisso dei vicoli del centro.
«Numero trenta, ma non mi spaventa.»
«Che mucchio di sciocchezze antiquate» disse la mamma.
«Diciassette, sono il re delle piroette.»
Papà mi diede di gomito. «Hai sentito, Barry? Il tuo nuovo numero fortunato.»
Scoppiarono tutti a ridere e qualcosa cominciò a ringhiare in fondo al mio stomaco.
«Controllati, Fin-bear» disse la mamma.
Serrai le dita attorno al pennarello, finché le cartelle della nonna non scomparvero sotto un lago di inchiostro.
«Guarda cos’hai fatto!» esclamò lei. «Mi mancava solo un numero per completare i quattro angoli.»
«Questi artisti sono così suscettibili» disse papà.
Diedi un pugno al mio sacchetto di patatine.
«Quarantaquattro, sto dando di matto.»
Corsi fuori e lanciai un altro sasso all’insegna.
«Ehi, fa’ attenzione!»
Billy Walsh, un ragazzo ...