L'odore del sangue
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L'odore del sangue

  1. 320 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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L'odore del sangue

Informazioni su questo libro

Roma, fine anni Settanta. Filippo, psicanalista cinquantenne, scopre il tradimento della moglie Silvia, a cui lo lega un sentimento stanco, di sensualità platonica. Lei ha perso la testa per un ragazzo, un picchiatore che incarna lo stereotipo del fascista col culto della forza, e così il loro matrimonio ha una virata radicale. Filippo inizia a proiettare sulla moglie le sue fantasie erotiche, la interroga in modo ossessivo sui dettagli più torbidi della storia, e finisce col costruire insieme a lei una nuova morbosa intimità, in un gioco di specchi travolgente e distruttivo. Scritto con furia da Parise e poi chiuso in un cassetto - "non deve essere pubblicato mai, ma distrutto" - L'odore del sangue esce postumo nel 1997, scandaloso e da subito iconico nel restituire con precisione l'anatomia di un amore anziano, perché capace di dissezionare il desiderio e la natura animale dei suoi protagonisti e di tutti noi, che usciamo dalla tana per uccidere o per essere uccisi.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2021
Print ISBN
9788817001311

Prologo

Il lettore si chiederà la ragione di questo titolo che fa pensare molte cose, alcune, anzi, la maggior parte sinistre, funebri. Me lo chiedo anch’io e dirò che mi è venuto improvvisamente (e un po’ ossessivamente) alla mente una sera a Milano parlando con dei miei amici (marito e moglie) un po’ in crisi. Capii e sentii nel rapporto tra le due persone che a lui, e soltanto a lui, mancava l’odore del sangue. Non mi chiesi di più ma fui affascinato da queste parole che avevo pensato a più riprese guardandoli e continuai a ripetermele durante la notte. Pensai ai due amici, sposati felicemente e ora non più felicemente, con due figli piccoli. Lui, uno scienziato, magro, magrissimo, rossiccio, calmo e lento e preciso nell’esprimersi, razionale al massimo: una specie di frate laico, un certosino, uno tra i moltissimi e ignoti certosini grazie a cui la scienza va avanti. Il suo lavoro era la ricerca, esattamente la ricerca genetica. Ogni giorno partiva prestissimo da Milano, con un modesto treno,1 e andava a Monza dove era la sede dell’istituto: partiva con un panino e fino alla sera non mangiava altro. Per molte ore dimenticava la famiglia, i figli, la moglie e si assorbiva nelle ricerche. Poi tornava e con i figli e la moglie era quello che si dice, un marito e un padre perfetto. Lo guardavo a tavola, nella grande casa borghese, quali ne esistono ancora, e dove dovrebbero abitare e spesso abitano quel particolare tipo di laici religiosi, la cui religione, nel suo caso, era la scienza. Era veramente perfetto: si sentiva che si sentiva a casa, dentro il suo nucleo famigliare, che amava la moglie e i figli e che questi erano, al di fuori dei suoi studi, certamente tutto per lui. Ma attraverso la sua camicia bianca e un po’ larga, di là e dentro il suo collo un po’ largo anche quello, non c’era la carne e il sangue, c’era un’altra cosa che non saprei in quale altro modo chiamare se non “spirito”. Intendendo con questo una vita composta, appunto più di spirito che di sangue.
Guardavo lei: una donna giovane con seni e fianchi rotondi, occhi neri in un volto improntato con chiarezza, specie di profilo, ai tratti dell’ebraismo. Degli ebrei askenazi, quelli dell’Europa orientale: un volto insomma un po’ schiacciato ma forte, vagamente smarrito da quello che lei chiamava “esaurimento nervoso” e che non era niente altro invece che fame e sete di sangue. Nei volti dei due c’era però apprensione: smarrita, quasi rassegnata, ma in profonda attesa di qualcosa, quello di lei; trepidante ma tranquillizzata dalla fede nella ragione, quello di lui.
Mi rimaneva però ancora oscuro il martellamento ossessivo e carico di fascino delle parole l’odore del sangue. Ricordavo benissimo questo odore per averlo sentito, per così dire in profondità due o tre volte: subito dopo un combattimento in Vietnam; dove un soldato, ferito gravemente dallo scoppio di una mina, stava dentro un elicottero in partenza. Era un elicottero-ambulanza, con un piccolissimo ospedale di emergenza. Mi trovai così solo insieme al soldato ferito in barella: la ferita, se così si può dire, era tremenda: più che altro un ammasso di carne annerita dall’esplosione e costellata di flussi di sangue. Gli innestarono immediatamente il becco di un enorme flacone di sangue e uno di plasma dentro quello che doveva essere un braccio e l’elicottero partì. Con il turbine di vento sollevato dalle pale il lenzuolo con cui era coperto, a sua volta zuppo di sangue, sbatté per un po’ fuori dal portello aperto, poi finì per essere succhiato fuori e volare verso terra come una bandiera, lenta e a enormi chiazze rosse, di un rosso che è soltanto il rosso del sangue. Fu in quel momento che mi colpì l’odore, un odore molto simile a quello dei macelli all’alba, ma infinitamente più dolce e lievemente nauseabondo, anzi, per essere più precisi, esilarante. Mischiato a quell’odore c’era quello di alcool, di etere e ancora altri ma l’odore del sangue, con la sua dolcezza, con il suo zucchero umano, con la sua linfa, dominava su ogni altro e nemmeno i flussi d’aria che entravano violenti nell’abitacolo, riuscivano a portarlo via: stagnava, nella sua dolcezza, e per così dire parlava; si esprimeva, un po’ come potrebbe esprimersi un quadro. Quell’odore era un’opera d’arte e, proprio come l’opera d’arte, quando è veramente tale, esprimeva sopratutto il mistero, l’attesa, il rimando a capire. A capire che cosa? Non lo sapevo.
Lo tornai a sentire, forse inconsciamente a cercare, e a cercare per capire, altre due o tre volte in sala operatoria. Era lo stesso, stessissimo odore, ma nel corpo prima di un uomo sui cinquant’anni (il soldato ferito ne avrà avuto venticinque), poi in quello di una donna, poi in quello di una ragazza. Non cambiava, era lo stesso odore, dolce, leggermente esilarante, dolcemente nauseabondo. Il che significa che, almeno in materia ematica, gli uomini nascono con uguali diritti. Ma continuavo però a venirne attratto e a non capire. Sì, era chiaro, quello era l’odore della vita, l’odore più profondo essenziale ed unico della vita, ma perché mi attraeva tanto? Perché mi attraeva tanto, quale tipo, qualità di attrazione esercitava su di me? Forse quel tanto di belluino, perfino di antropofagico e vampiresco che, nel profondo più profondo, esiste ancora nell’uomo? Forse. Forse come una metafora, cioè come qualche cosa che allude ad altra o altre cose, per esempio alla brevità della vita, alla sostanza di cui siamo fatti, al fagotto di ossa carne e appunto sangue di cui siamo al tempo stesso contenuto e contenitore? Forse al dove andiamo, chi siamo, da dove veniamo? a cui appunto allude Paul Gauguin in un suo famoso quadro? Certamente a tutto questo perché in quell’odore, nella dolcezza di quell’odore c’era anche una punta dell’odore di secrezioni, di sperma, cioè di acque e di ittico, una punta di quell’odore di mare che si coglie alle volte quando si ingoia un’ostrica fresca insieme alla sua acqua marina. Ma non più di una punta che bastava a spiegare tutto in una sola, chiara, ma in realtà vaghissima parola: la vita. Ancora, dunque, non capivo. E di tanto in tanto quando mi capitava di pensare a quell’odore, a risentirlo netto e chiaro dentro le mie narici, o quando mi capitava di sentirlo davvero (ma fu raramente) ancora continuavo a non capire. Ma, come accade da bambini, le due parole, l’odore del sangue, mi impauriva, mi eccitava, la mente, il cuore e in un modo, quello, più oscuro di tutti, la sensualità, l’amore, la sensualità, il sesso.
Continuai per molti anni a non capire fino in fondo il senso di questa emozione che sapevo però si sarebbe potuta afferrare e capire; l’odore del sangue restò lì, nelle zone incerte della mia coscienza come appunto certi sogni che si ricordano solo a mezzo, o certe frasi che appaiono magiche, inspiegabili ma tanto più affascinanti e misteriose proprio per il loro suono e niente più. Poi, un bel giorno, accadde qualche cosa che era, appunto, l’odore del sangue.
1. treno: in un primo tempo Parise aveva ambientato la situazione che sta descrivendo tra Bologna e Ferrara anziché tra Milano e Monza. Si spiega così il riferimento a un treno locale. Evidentemente Parise si è dimenticato di precisare in seguito un altro mezzo di locomozione più adatto a ricoprire la distanza tra Milano e Monza.
Ho guardato, anzi visto Silvia per la prima volta quando ho avuto la sensazione che mi tradisse. È questa una reazione diffusa, anzi banale, un po’ meno banale quando ciò accade a un uomo di cinquantacinque anni come me per una donna di cinquanta come Silvia. È vero che Silvia è ancora quello che si dice una bella donna, “ben tenuta”, e anche piena di fascino, è anche vero che si può essere gelosi a tutte le età come dimostrano le cronache ma nel mio caso non si trattò di gelosia, cioè di una passione antica come il mondo, bensì di curiosità, anch’essa una passione terribile ma di pochi e molto moderna. Sono un solitario, un saturnino, come dicono alcuni, e tendo alla fuga, a quella condizione di solitudine selvatica di certi animali. In particolare tendo a fuggire da lei nonostante la ami molto, anzi proprio perché la amo. Lei lo sa e per vent’anni di matrimonio mi ha sempre visto fuggire e anche tradirla: non con la rassegnazione tipica delle mogli sottomesse e sotto sotto interessate, ma, a sua volta, con la trepidazione delle donne innamorate e [così romantiche da] considerare la fuga della persona amata come una sorta di romantica irraggiungibilità, di mistero, dunque di fascino.
Credo che lei non mi abbia quasi mai tradito o, se l’ha fatto, questo è accaduto al tempo stesso per eccesso di solitudine, per disperazione dovuta ai miei tradimenti, per affermare l’autonomia della propria persona sempre in totale dipendenza da me. Ad ogni modo nessuno di questi tradimenti di cui ho avuto sentore e anche aperta confessione, ha veramente turbato il nostro legame, anzi, sempre è servito a rinsaldarlo. Anche qui, siamo nel banale, infatti accade a un sacco di coppie.
Quando è nata in me la gelosia, anzi la curiosità, per un suo supposto tradimento? Non lo posso dire con precisione ma solo per approssimazione. Non ci fu un fatto preciso ed esterno (ci furono, ma la loro importanza era marginale e per così dire di dettaglio) bensì uno impreciso ed interno. Fu il seguente: io avevo una giovane amante, nel paese di montagna dove sto spesso, per cui Silvia soffriva e ancora più aveva sofferto. Una ragazza di venticinque anni che non mi decidevo ad abbandonare nonostante e forse proprio per la pazienza di Silvia: ero attratto, molto attratto, la ragazza era quello che un mio amico definì con una sola geniale parola a vederla in fotografia. Sospirò, essendo un uomo di mondo e assai pratico di cose del genere, disse: Eros, e non ci fu e non c’è bisogno d’altro. Stavo il più del tempo fuori da Roma, in quel paese, e con Silvia ci si telefonava tutti i giorni perché, non l’ho ancora detto, io amo Silvia come un ragazzo. È possibile? Sì, è possibile. Nonostante l’amante? Sì, nonostante l’amante. Che amavo come un vecchio e non come un ragazzo. All’inizio della mia relazione Silvia si disperò, poi, piano piano, sembrò accettarla e quando me ne accennava io non sapevo cosa dire, paralizzato dal silenzio, frutto di ciò che consideravo colpevole nei confronti di Silvia. Anche qui siamo nel banale. Quando Silvia accennava a qualcosa e trovavo la voce di rispondere dicevo: «non esistono diritti di esclusiva tra le persone» una evidente bugia; su cui però costruivo un intero comportamento, saggio, sociale e cinico. Senonché sapevo benissimo che di noi due, me e Silvia, nessuno dei due era veramente cinico e non lo sarebbe mai stato. Questo il prologo del fatto. Il fatto invece fu che, una sera, squillò il telefono nella nostra casa di Roma. Silvia rispose. Con disinvoltura perfetta disse: «Scusami un momento, passo all’altro apparecchio» e se ne andò in camera a parlare per un bel po’. Tornò, le chiesi chi era.
«Cose mie» rispose, «non esistono esclusive.» Disse questo con un leggero riso tra lusingato e ironico, ad un occhio di persona che avesse conosciuto la mia ultima burrascosa storia si sarebbe potuto dire una chiara quanto gentile e perfino vezzosa risposta polemica. Ne aveva tutta l’aria, sia le parole, sia il tono, sia la civetteria. Invece io sentii chiaramente in quell’istante che non c’era in Silvia nessuna polemica, che la sua tranquillità era totale e finalmente rilassata, che non era una risposta data per ripicca, insomma che era innamorata di un altro, e che quest’altro, quello con cui aveva parlato al telefono era pericoloso, molto pericoloso e portava con sé qualche cosa di buio e di tragico. La interrogai, garbatamente, ironicamente, come si fa in questi casi sempre stando dentro il banale, il sociale, il cinico, tutte cose che non c’entravano nulla, specie in quel momento, con me e il mio animo inspiegabilmente e assurdamente sconvolto.
«Ma niente» rispose sorridendo, «è un ragazzo, figurati, un ragazzo che ho conosciuto per strada. Fascista per di più. Figurati, alla mia tenera età.»
Disse queste parole come ho già spiegato con la massima disinvoltura, con la massima sincerità, si sentiva, e tuttavia sentii che se pure queste parole corrispondevano esattamente alla verità, tuttavia erano una menzogna: non una menzogna detta da Silvia a me, ma da Silvia a se stessa. Da quell’istante si impadronì di me una strana passività, quasi narcotica, di cui mi resi conto perfettamente ma come il malato steso sul letto operatorio si rende conto che sta per precipitare in quel sonno artificiale e non naturale che è appunto la narcosi. E in quell’istante, l’ultimo di coscienza, sentii l’odore del sangue umano, quello della sala operatoria, quando si è curvi sopra il paziente già aperto, quell’odore dolce un po’ nauseabondo e un po’ esilarante, ma sopratutto dolce, e dolcemente funebre.
Partii il giorno dopo sempre in quelle condizioni di lieve narcosi e raggiunsi la mia casa di montagna. Silvia, perfetta come al solito, mi accompagnò al treno, come sempre mi baciò in modo affettuoso, veramente affettuoso, e al mattino successivo eravamo già al telefono a comunicarci allegramente la nostra giornata. Ad un certo punto della telefonata (erano sempre lunghe, lunghissime telefonate le nostre, anzi, si può dire che, come i ragazzi, si faceva all’amore per telefono ormai da anni) domandai con un sorriso:
«E i tuoi corteggiatori, anzi, il tuo corteggiatore?»
Rise subito. «Sta’zitto» rispose, «me lo ritrovo che cammina su e giù sotto casa, cose dell’altro mondo.»
Di nuovo l’odore del sangue: di nuovo la narcosi.
«Ma è proprio fascista?»
«Più che altro è un confusionario, un disadattato.»
«Ma è molto giovane?»
«Venticinque anni, potrei essere sua madre.»
Ancora l’odore del sangue, più forte, come ricordavo tra i feriti in Vietnam, ammassi di carne con polle di sangue qua e là, che buttavano. E quell’odore dolce, di macelleria al mattino, ma molto più dolce e di sperma e di linfa e di secrezioni.
«Te l’ho sempre detto che sei una donna bella e piena di fascino. Anche i venticinquenni abboccano. Sarai lusingata spero.»
Inutile. Non sono cinico. Sentivo la mia voce forzata e ancora più forzata doveva apparire al telefono. Poi di nuovo la narcosi dovuta a quell’odore, che io conoscevo bene e che è, a pensarci bene, l’odore dell’origine della gioventù, della passione, della vita.
Nella narcosi, vedevo la ragazza e facevo all’amore con lei, in modo un po’ narcotico anche quello a dire il vero, da molti mesi, badavo sopratutto a starmene lontano da Roma e da Silvia. Perché, se la amavo tanto? Qui la spiegazione diventa più complicata. Ma cercherò di spiegare lo stesso. Il sentimento tra me e Silvia, figli unici tutti e due, nato vent’anni fa era, salvo eccezioni non rarissime ma rare, si potrebbe definire in due parole: amor platonico. Il sesso non è mai stato per Silvia la cosa più importante tra un uomo e una donna, e forse nemmeno relativamente importante. Donna sensuale Silvia ha sempre, nella sua vita, sublimato il sesso come si dice con parola molto moderna: in sentimento, in dedizione quasi religiosa e sopratutto in sentimento materno non avendo mai avuto figli né dai precedenti mariti né da me. Dedizione a chi? Alla persona amata e da amare, perché Silvia ha sempre abbandonato chi la amava e sempre scelto chi amava e da cui temeva di non essere amata...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Al lettore, Silvio Perrella
  4. DOPO
  5. L’ODORE DEL SANGUE
  6. Prologo
  7. Appendice – Roma
  8. Nota al testo, Giacomo Magrini
  9. PRIMA
  10. FONTI. (TITOLI DI CODA)
  11. “Ecc., Ecc.”, Silvio Perrella
  12. Copyright