Una vacanza romana
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Una vacanza romana

  1. 224 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Una vacanza romana

Informazioni su questo libro

Settembre 1943. Mussolini è caduto, ma l'Italia è ancora terreno di guerra. A Milano i palazzi crollano sotto le bombe dei Liberatori. Tra le macerie della città distrutta, Matteo e Nora, rimasti senza lavoro, conoscono Otello, camionista romano e combattente nei gruppi partigiani, e decidono di seguirlo nella capitale. I due stanno insieme, ma la loro storia è fragile come le vetrate dell'appartamento in cui vivevano. Nora si invaghisce subito di Otello, del suo coraggio, del suo odio implacabile verso l'invasore nazista. Nella Città eterna, diventata ormai città aperta, i loro destini si sovrappongono e si mescolano a quelli del popolo in subbuglio, mentre la guerra si fa guerriglia e la morte si incontra a ogni angolo di strada: i rastrellamenti si moltiplicano, gli ebrei e gli oppositori politici vengono stanati casa per casa, gli uomini si nascondono nelle catacombe per sfuggire agli arresti.
Otello è tra i principali organizzatori della rivolta, e Nora sa che l'unica via percorribile per lei è seguirlo, nella passione e nella lotta. Matteo, invece, dovrà decidere da che parte stare, in quella sua guerra personale che non è più solo per la liberazione del Paese.
Con il suo stile coinvolgente e inconfondibile, Parazzoli racconta un pezzo di storia italiana, delineando con abilità le fisionomie caratteriali dei suoi personaggi, la forza che li muove e le contraddizioni che li agitano, regalandoci, ancora una volta, un imperdibile affresco dell'animo umano.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2021
Print ISBN
9788817156486

PARTE PRIMA

1

A un’ora dall’inizio del coprifuoco le strade del quartiere Appio non erano deserte. Gli inquilini del grande casamento Incis, il fascio littorio color cioccolato inchiodato sulla facciata, non si facevano problemi ad attraversare l’androne, sotto lo sguardo divagato del capofabbricato, e scivolare oltre il portone che rimaneva chiuso per il resto della notte, anche se ognuno aveva provveduto a procurarsi copia della chiave che apriva il piccolo ingresso laterale.
Se le parole pranzo e cena si potevano ancora usare, a Roma, io non avevo ancora cenato né mi ero dedicato a rintracciare quanto avrebbe potuto giustificare il termine di cena.
Alle otto di sera del mese di aprile c’era ancora luce nei larghi spazi romani specie di periferia dove si allargava quanto restava dei campi incolti in cui nessuno avrebbe osato impiantare neppure un orto di guerra. Il guardiano più esperto non sarebbe riuscito a scoraggiare l’esercito dei ladri, ragazzini contorsionisti sotto il filo spinato, bambini a far da palo ai più pesanti padri, seppure qualche bomba dispersa non avesse rivoltato il terreno come l’aratro di un folle.
Chiusa la porta della rimessa, dalla finestra, aperta sullo spiazzo del garage, il chiarore lontano del cielo permetteva di ottemperare alla norma di oscuramento senza accendere la candela stearica nel casotto dove avevo trascorso giorni improvvisandomi a riempire le nuvolette che uscivano di bocca agli eroi di alcune delle pubblicazioni a fumetti, sopravvissute al tracollo della carta stampata, che mi avevano dato qualche lavoro marginale anche in preparazione e nella speranza della ripresa.
Sul «Messaggero», controllato da fascisti e nazisti, non avevo più potuto contare per alleviare la mia forzata disoccupazione di giornalista, con cronache di vita e di sopravvivenza romane, dopo quelle, uscite a mio nome, sulla difesa di Porta San Paolo. Più sicuri i fumetti per guadagnarsi il pane, quando c’era, e le sigarette di contrabbando.
Non avevo e non ho orologio da polso. In un freddo mattino, era piaciuto a un giovane SS, rimasto un po’ fuori cordata dalla retata dei camerati, come fuori cordata ero fortunatamente anch’io. Ma quelli della retata, anche se di uomini ne avevano rastrellati abbastanza per chissà quali lavori – sempreché si trattasse solo di lavoro –, non avrebbero storto la bocca ad avere un lavorante in più. Il mio orologio d’oro, reduce da un matrimonio fallito, era un buon orologio e con il tedesco avevo fatto un silenzioso scambio, la mia pelle contro il mio orologio: la scelta era obbligata, non c’era da far storie. Non sono più un giovanotto e spaccare pietre non fa per me.
Otello mi aveva prestato la sua sveglia, tanto a lui non serviva: si svegliava invariabilmente alle sei, al canto del gallo, come si diceva un tempo, ma di galli che cantano non ce n’erano più in tutta Roma, scomparsi insieme ai gatti di piazza Vittorio.
Da tempo avevo abbandonato il casotto, se vi ero tornato era perché ero inquieto per Otello. C’erano stati gravi attentati quei giorni in città da parte dei Gap, i gruppi di azione partigiana. Forse Otello sarebbe passato dal suo vecchio rifugio prima di scomparire definitivamente dai quartieri di Roma.
Sentire un passo sul tormentato spiazzo del garage non era allarmante, nessuno cerca un disoccupato fumettista. Poteva essere Otello che rientrava.
Nel periodo in cui eravamo vissuti accanto, trafficava ancora tra copertoni sfondati e macchine rottamate esibendo, a chi volesse indagare, quel commercio in altri tempi impossibile. Non che ci parlassimo ogni giorno, ognuno di noi due faceva i fatti suoi. Lui mi aveva ceduto il casotto a fianco della rimessa, una costruzione di un solo piano rialzato, con una stanza per dormire e mangiare, un cucinotto che offriva, da dietro una tenda, un ripiano con tre fornelli a gas, da tempo senza gas, due grandi e uno piccolo a menzionare lo scomparso caffè, una ghiacciaia senza ghiaccio, e una cassa con due piatti e due pentole. Arredavano la stanza una branda, un tavolo, due sedie e uno scaffale senza libri ma con pile di vecchi quotidiani da ridurre a palle dure, impastati con acqua e seccati, buoni per il fuoco sotto la latta di benzina trasformata in barbecue.
In quella casa Otello era vissuto finché c’erano state auto da riparare e parcheggiare, dopo aver chiuso con i trasporti sul camion sequestrato. Dove acquartierasse Otello, quando lasciava la rimessa, non mi era chiaro, sospettavo fosse imbucato presso qualche compagno dei Gap.
Eravamo amici, a nostro modo: lui, uomo impetuoso, amante dell’azione e di ogni estrema posizione; io, un semplice osservatore di fatti, un cronista, come fino a qualche mese prima era stata la mia professione.
Oltre al casotto avevamo un’altra cosa in comune, faccio per dire, poiché non era una cosa ma una persona, e non era più in comune: una donna, Nora, che aveva trovato in Otello un carattere più interessante del mio. Diciamo pure così.
I passi sul selciato del garage erano quelli di Nora. Nonostante la separazione fisica, lei ospite di sua sorella Elvira, io del garagista Otello, e l’inaspettata separazione sentimentale, avevamo conservato un amichevole rapporto per quanto sia possibile conservarlo tra un uomo e una donna che fino a qualche mese prima andavano a letto insieme.
Aprii la porta e la guardai avanzare con il suo passo sicuro di trentenne, le lunghe gambe nordiche che le uscivano da sotto la gonna per finire in un paio di scarpe da uomo, senza un centimetro di tacco, cosa inammissibile, sia pure in tempo di guerra, per la più modesta casalinga.
Non so se Nora fosse bella, a me erano piaciuti, e mi piacevano ancora, i suoi capelli, lunghi fino alla base del collo, ormai da tempo senza permanente, e la bocca senza rossetto.
«Se cerchi Otello, non è qui.»
«L’ho visto ieri mattina. Non abbiamo potuto parlarci. Era con quel signor Rossi, quello dei Gap.»
«Non si dicono queste cose ad alta voce.»
«In quartiere lo sanno tutti. Abitava con la moglie nell’appartamento di fronte a quello di mia sorella, ma da qualche tempo era sparito. Non mi piace, è anziano, fa il capoccia, ragiona poco. Gira una lista in questi giorni al Comando tedesco. Traduco per loro le scartoffie dei ministeri, ma certe allusioni non mi sfuggono. Conosco il tedesco, lo sai, lo usavo con gli svizzeri quando lavoravo per il notaio.»
«Otello lo hai avvisato?»
«Non ho potuto, non mi fido di quel Rossi. Sa che mio cognato si è nascosto dai Salesiani e che Elvira dopo la morte di nostro padre e la fuga di Isabella ha Domenichino al quale pensare. È sveglio quel ragazzino, se non ci fosse lui a fare da staffetta con i Salesiani della via Appia, non avremmo saputo come andare avanti. C’è quello che mi danno i tedeschi, ma i tedeschi pagano poco gli italiani, quando li pagano. Con me lo fanno, forse perché sono una donna.»
Questa giustificazione, che sembrava buona a Nora, a me non tranquillizzava affatto.
«E tuo cognato, vestito da prete, pare che non voglia più uscire dalle catacombe.»
Sapevo che il mio tono un po’ ironico irritava Nora, ma non potevo fare a meno di immaginarmi quell’uomo serio, dedito al lavoro e alla famiglia, passeggiare nel cortile dei preti, vestito da prete, con il Breviario in mano, o nascosto dietro il muro alzato a chiudere la catacomba, così che i cani non potessero fiutare né lui né gli altri rifugiati, ebrei e ufficiali del disciolto Esercito italiano.
«Era al ministero della Marina, anche se non ha mai visto una nave. Si è rifiutato di andare in Germania.»
«Entra, aspetteremo Otello, sono certo che verrà.»
«Non sono tranquilla. C’era agitazione ieri al Comando. Kappler preparava qualcosa di grosso.»
«Otello e compagni dovrebbero tenere a freno quelli che ammazzano qualunque tedesco venga loro a tiro. Non serve a nulla, solo a provocare rappresaglie.»
I continui attentati, con seguito di deportazioni, di torture, di fucilazioni non mi erano mai andati a sangue, non credevo nell’agitazione di bandiere e negli eroismi che comportano la pelle degli altri, anche se qualcuno è disposto a dar via la sua. La situazione di Roma non sarebbe cambiata finché gli Alleati fossero stati fermi sotto quel maledetto Cassino. Non condividevo la guerriglia metropolitana che si ritorce sulla popolazione. Che andassero con gli altri in montagna a combattere per bande. Così la pensavo io e forse una gran parte della gente che restava indifferente, occupata a procurarsi il cibo per sopravvivere e a non farsi seppellire sotto le macerie delle loro case bombardate dai Liberatori. Indifferente, anche se nessuno avrebbe osato rifiutare un aiuto, un nascondiglio a chi ne avesse avuto bisogno. Così tra il popolo, nei quartieri periferici della capitale dove ognuno conosceva per averne esperienza che cosa fosse la fame, la malattia, la paura. Nei quartieri alti, per la borghesia, rimpinguatasi con il passato Regime, e la nobiltà fasulla bianca e nera, le cose andavano diversamente, si cambiava bandiera, si stava con chi comandava.
Quanto agli intellettuali di città ne avevo conosciuti nel breve periodo in cui, giunto a Roma, avevo collaborato con «Il Messaggero»: giornalisti e scrittori che un giorno avrebbero fatto fortuna raccontando e romanzando le storie del popolo affamato, angariato, sofferente, ma che, per ora, badavano a tenersi in disparte. Questa era stata l’Italia prima della guerra, questa durante la guerra, ma non sarebbe stata più questa nel dopoguerra: una nuova paura avrebbe sostituito la vecchia, la paura del comunismo. «L’Unità», il giornale clandestino del Partito comunista, chi lo voleva poteva sempre trovarlo, tra il silenzio e il collaborazionismo dei grandi quotidiani.
Tramontato il sole, faceva fresco là fuori, sullo spiazzo del garage, senza i grandi condomini popolari a ripararlo, solo la siepe di bosso su un lato del cintato, lo spettacolo di una sera sconfortevole non fosse stato per i due pini dalle larghe ombrelle, due mitici pini di Roma, lontani ma gloriosi della loro romanità, del ricordo augusto dei loro antenati che avevano assistito alla crocefissione dei gladiatori di Spartaco lungo la via Appia e ai cristiani messi a fuoco sul colle Vaticano.
Faceva fresco là fuori, ma Nora non aveva voluto entrare in quella che era stata la mia scomposta dimora. Seduta sul bidone rovesciato, che una volta aveva contenuto benzina, la gonna tirata sulle ginocchia accavallate, era uno spettacolo, per me, condito di desiderio e nostalgia. Ma lei cercava Otello, il camionista, il garagista, il coraggioso combattente di Porta San Paolo, l’accanito nemico dei nazisti.
«L’altro giorno al Quadraro c’è stato quell’oscuro episodio che temo, data l’agitazione al Comando, possa avere fatto precipitare la situazione.»
«Oscuro? Sanno tutti cosa è successo l’altro giorno nella trattoria di Righetto, al Quadraro. Il Gobbo ha assalito alcuni soldati tedeschi che stavano mangiando e li ha ammazzati. Quel ragazzo ha fegato, non c’è che dire, l’ho visto come sparava a Porta San Paolo, ma non ha criterio. Da tempo i tedeschi aspettano l’occasione per spazzare quel quartiere, con Centocelle e il Quartirolo, e cancellare una volta per sempre Bandiera rossa, la brigata comunista, la principale artefice dei Gap. Chi poi sconta questi singoli, scriteriati atti di guerriglia, è la popolazione che vuole starne fuori, ma che ti ha protetto quando ne avevi bisogno, per carità cristiana o per paura.»
«Zia Nora, ti cerca il signor Rossi.»
Domenichino, il figlio di Elvira, la sorella di Nora, era entrato trafelato nello spiazzo scavalcando la siepe di bosso. Gli piaceva fare da staffetta.
«Che vuole?» Nora era impallidita.
«Non me lo ha detto, zia.»
«Era molto serio?»
«Il signor Rossi è sempre molto serio.»
«C’è il coprifuoco» dissi io.
«Il signor Rossi se ne frega del coprifuoco.» Era chiaro che Domenichino lo ammirava quel comunista fiancheggiatore dei Gap. «Aspetta zia Nora nell’androne. È d’accordo con Peppino.»
Peppino, molto popolare nel quartiere Appio, era il capofabbricato del casamento Incis. Fascista per convenienza, dopo il 25 luglio andava d’accordo con tutti.
«Vuoi che venga con te?» chiesi a Nora.
«Il signor Rossi aspetta solo la zia.»
«Al diavolo il signor Rossi.» Lo mandavo volentieri dove si mandano i rompiballe grintosi.
«Andiamo» disse Nora e, preceduta da Domenichino, che le correva davanti e le tornava tra i piedi come un cagnone, voltatemi le spalle attraversò il selciato sconnesso e sparì oltre la siepe di bosso lasciandomi con la consolante visione dei pini di Roma.
Non ci voleva molto a capire che qualcosa di grave era successo. La faccia di Domenichino parlava da sola, era un ragazzo sveglio che capiva al volo certe cose. Otello era stato preso, oppure era già morto. In sostanza, la stessa cosa, soltanto rimandata.
Eravamo amici, io e Otello. Il nostro incontro sotto i bombardamenti di Milano aveva segnato il nostro breve, comune destino.
Lui mi aveva ceduto il casotto, io gli avevo ceduto Nora.

2

Il 16 agosto i Liberator dell’United States Army Air Force avevano provveduto a bombardare Milano per la terza volta in cinque giorni al benefico fine di liberare l’Italia dai fascisti, più fascisti che mai dopo la deportazione di Mussolini all’isola di Ponza, e dai loro alleati del Terzo Reich.
Del «Corriere della Sera» in via Solferino erano rimasti solo pochi muri, già spostato di sede dopo il bombardamento del 14 febbraio in cui era andato distrutto il terzo piano. Dei muri, più o meno ancora in piedi, poco mi importava, il peggio, anche troppo evidente, era l’asservimento del quotidiano, in cui lavoravo come cronista, ai voleri di quanto sopravvissuto al caduto Regime e al già di fatto occupante, se non ancora dichiarato, Comando tedesco.
Se qualcuno i Liberator dell’Air Force avevano liberato, quelli eravamo noi, io e Nora. La censura e le veline della direzione filogovernativa, non si sapeva di quale governo, avevano reso inqualificabile il lavoro giornalistico per cui, precedendo il sempre più prossimo buio dopo il grigio dei tempi, mi ero autosospeso insieme ad altri redattori e, nel giro di una settimana, ci eravamo trovati licenziati.
Quanto a Nora la soluzione di lavoro era stata anche più drastica. Lo studio notarile, in via Torino, dove lavorava, era andato distrutto sotto le bombe del secondo bombardamento di agosto. Il notaio, un distinto signore sessantenne, chiusa l’attività per forza maggiore, si era trasferito in Svizzera.
Quarantenne, disoccupato, divorziato, con una relazione sentimentale di saltuaria convivenza, modesta abitazione in affitto, scarsi risparmi in banca, pedalavo per Milano, non dimentico del mio sguardo di cronista, prendendo mentalmente nota di quartieri e monumenti cittadini distrutti nel giro di una settimana che si aggiungevano a quelli dei mesi precedenti. Ogni volta che rientravo in casa, un vecchio palazzo in corso Buenos Aires, non sapevo se i vetri delle finestre fossero ancora intatti né se i muri fossero ancora solidi poiché gli effetti degli spostamenti d’aria, così familiarmente chiamati, si rivelavano malignamente anche dopo alcuni giorni dallo scoppio delle bombe.
A completare l’opera sarebbe bastato un po’ di vento o uno di quei sonori temporali estivi tipici della Pianura padana, nembi gonfi e tumultuosi in corsa verso il Resegone.
La passeggiata era lunga e istruttiva e il tempo per pensare a cosa avrei detto a Nora circa il nostro futuro non mancava.
Corso Buenos Aires era ingombro di macerie che dai palazzi sfondati si erano rovesciate nella strada, dove i fili della luce e dei tram pendevano strappati sui binari. Era lo spettacolo osceno...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Una vacanza romana
  4. PARTE PRIMA
  5. PARTE SECONDA
  6. PARTE TERZA
  7. PARTE QUARTA
  8. Coyright