Cani di paglia
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Cani di paglia

Pensieri sull'uomo e altri animali

  1. 228 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Cani di paglia

Pensieri sull'uomo e altri animali

Informazioni su questo libro

Possiamo considerare questo testo del filosofo inglese John Gray una guida essenziale per il nuovo millennio: Cani di paglia sfida infatti tutte le nostre convinzioni su cosa voglia dire essere uomini, e si propone di raccontare la vera natura dell'essere umano attraverso il pensiero filosofico. Sradicando ogni idealismo sul mito del progresso, sulle utopie politiche, sull'incondizionata fede nell'aldilà e sulla centralità dell'essere umano tra le specie animali, Gray attraversa i campi di scienza, fede, economia e sociologia, - i saperi che ci hanno abituati a essere gli unici e soli padroni della realtà -, avendo per primo il coraggio di dire che un futuro potrebbe esistere anche senza l'uomo, esattamente come è avvenuto per i dinosauri. Parlando al lettore con un linguaggio narrativo, Gray punta ad aprire le porte dell'accettazione del limite come possibilità di godimento pieno, ci insegna la natura dell'agire morale come gesto distaccato, e mira a mostrarci l'inconsistenza della nostra idea di realtà con un invito a guardare al compiersi della vita come unico obiettivo possibile.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2021
Print ISBN
9788817155649
Capitolo 1

L’UMANO

Tutte le religioni, quasi tutte le filosofie, e persino una parte della scienza, sono testimonianza dell’instancabile, eroico sforzo del genere umano di negare disperatamente la propria contingenza.
JACQUES MONOD

Scienza versus umanesimo

Oggi sono in molti a credere di appartenere a una specie che un giorno sarà padrona del proprio destino. Ma questo è un atto di fede, non è scienza. Nessuno parla di un futuro in cui le balene o i gorilla saranno padroni dei loro destini. Perché per gli esseri umani dovrebbe essere diverso?
Non c’è bisogno di Darwin per rendersi conto che anche noi siamo come gli altri animali. È sufficiente osservare anche superficialmente le nostre vite. Ma dato che la scienza gode oggi di un’autorità con cui l’esperienza comune non può avere la pretesa di competere, conviene ricordare che Darwin ci ha insegnato che le specie sono soltanto apparati genetici che interagiscono casualmente tra loro, con l’ambiente circostante e con i suoi cambiamenti. Le specie non possono controllare il proprio destino. Esse non esistono. Ciò vale anche per gli uomini. Eppure ce ne dimentichiamo ogni volta che parliamo di «progresso del genere umano». Abbiamo riposto la nostra fede in un’astrazione che nessuno si sognerebbe di prendere sul serio se anch’essa non fosse intrisa delle logore speranze del Cristianesimo.
Se Darwin fosse vissuto in una cultura taoista, scintoista, indù o animista, molto probabilmente la sua scoperta avrebbe creato soltanto un nuovo filone all’interno delle intricate mitologie che a quel tipo di cultura appartengono. In queste religioni, infatti, gli umani e gli animali sono specie affini. Darwin ha fatto però la sua scoperta rivoluzionaria all’interno della cultura cristiana, una cultura che pone gli umani al di sopra di tutti gli altri esseri viventi, e ha suscitato un acceso dibattito che è ancora in corso. In epoca vittoriana la discussione vedeva i cristiani da una parte e gli atei dall’altra. Oggi impegna da un lato gli umanisti e dall’altro quei pochi che comprendono che gli umani non possono essere padroni del proprio destino più di quanto non lo sia qualsiasi altro animale.
Il termine umanesimo può avere molti significati, ma fondamentalmente equivale a fede nel progresso. Credere nel progresso significa credere che, grazie ai nuovi poteri messi a nostra disposizione dalle conoscenze scientifiche, gli umani possono liberarsi dalle restrizioni che vincolano le vite degli altri animali. Oggi, questa è la speranza condivisa praticamente da tutti. Ma è una speranza priva di fondamento. Per quanto possa ampliare le sue conoscenze, per quanto possa accrescere di conseguenza il suo potere, l’animale umano rimarrà sempre lo stesso: una specie molto creativa e, al contempo, una delle più rapaci e distruttive.
Darwin ha mostrato che gli umani sono come tutti gli altri animali; gli umanisti affermano esattamente il contrario. Essi credono fermamente che grazie alle nostre conoscenze siamo in grado di controllare l’ambiente che ci circonda e prosperare come mai prima nella nostra storia. Affermando ciò, essi perpetuano una delle promesse più ambigue del Cristianesimo, ossia che tutti possono salvarsi. La fiducia umanista nel progresso è soltanto una versione laica di questa fede cristiana.
Nel mondo mostratoci da Darwin non vi è nulla che possa essere chiamato progresso. Per chiunque si sia nutrito delle speranze umaniste ciò è intollerabile. Per questo l’insegnamento darwiniano è stato rovesciato e all’errore fondamentale del Cristianesimo (la convinzione che gli umani siano diversi dagli altri animali) è stata offerta una nuova possibilità.

Il miraggio dell’evoluzione consapevole

Gli umani sono le creature più avventizie, il risultato di una cieca deriva evoluzionistica. Ma grazie al potere dell’ingegneria genetica oggi non siamo più in balia del caso. Il genere umano, ci viene detto, può plasmare il proprio futuro.
Secondo E.O. Wilson, il controllo dell’evoluzione umana non è soltanto possibile, ma addirittura inevitabile:
… l’evoluzione genetica è destinata a diventare presto consapevole e dotata di volontà, ad avviare una nuova epoca nella storia della vita… La prospettiva di questa «evoluzione volitiva» (una specie in grado di decidere del futuro della sua stessa discendenza) porrà l’umanità di fronte alle scelte intellettuali ed etiche più radicali che essa abbia mai dovuto affrontare… come un dio, l’umanità sarà chiamata a controllare il suo stesso, supremo, destino. Se lo vorrà, potrà modificare non soltanto l’anatomia e l’intelligenza della specie, ma anche le emozioni e l’impulso creativo che costituiscono l’essenza stessa della natura umana.
Queste parole sono state scritte dal più grande darwiniano dei nostri giorni. Wilson è stato attaccato dai biologi e dai sociologi convinti che la specie umana non sia soggetta alle stesse leggi che governano gli altri animali. In questa disputa, Wilson si trova senza dubbio dalla parte della verità. Ma la sua visione dell’evoluzione consapevole del genere umano è un miraggio. L’idea di un’umanità in grado di controllare il proprio destino è plausibile soltanto se attribuiamo consapevolezza e finalità alla nostra specie; Darwin insegna però che le specie sono soltanto correnti nel mare dei geni. L’idea che l’umanità possa plasmare il proprio futuro si basa sul presupposto che per essa non valga questa verità.
Da un punto di vista scientifico, è molto probabile che nel corso del prossimo secolo si potrà rimodellare la natura umana. Ma se ciò avverrà, non sarà diverso dall’esito fortuito delle guerre che vengono combattute in quel regno corrotto dove la legge dei grandi profitti, il crimine organizzato e il lato oscuro dei governi si contendono il potere. Se la specie umana verrà re-ingegnerizzata, non sarà grazie a un’umanità che, come un dio, assume il controllo del proprio destino, ma solo un altro giro nella ruota del destino dell’uomo.

Primatemaia disseminata

James Lovelock ha scritto:
Gli umani sulla terra si comportano per certi versi come un organismo patogeno, o come le cellule di un tumore o di una neoplasia. Siamo cresciuti così tanto in termini di numeri e disturbi arrecati a Gaia che la nostra presenza è diventata sensibilmente molesta… la specie umana è oggi talmente numerosa da costituire una grave malattia planetaria. Gaia soffre di Primatemaia disseminata, un’epidemia di genti.
Circa sessantacinque milioni di anni fa i dinosauri sono improvvisamente scomparsi dal pianeta, assieme a tre quarti delle specie allora viventi. La causa di quell’estinzione di massa è ancora oggetto di dispute tra gli scienziati, anche se molti ritengono che fu provocata dall’impatto di un grande meteorite con la terra. Oggi le specie stanno scomparendo a un ritmo destinato a superare quello dell’ultima grande estinzione. La causa non è una catastrofe cosmica. Come afferma Lovelock, è un’epidemia di genti.
Wilson fa notare che «i dadi di Darwin non sono stati favorevoli per la terra». Il lancio fortunato con cui la specie umana ha conquistato il suo attuale potere ha significato la rovina di altre, innumerevoli forme di vita. Quando, circa dodici secoli fa, l’uomo è arrivato nel Nuovo Mondo, il continente brulicava di mammuth, mastodonti, cammelli, giganti del passato e decine di specie simili. La maggior parte di queste specie autoctone è stata cacciata in modo indiscriminato, fino all’estinzione. Secondo Diamond, il Nordamerica settentrionale ha perso oltre il settanta per cento, il Sudamerica l’ottanta per cento dei grandi mammiferi autoctoni.
La distruzione del mondo naturale non è il risultato del capitalismo globale, dell’industrializzazione, della «civiltà occidentale» o di qualche crepa nelle istituzioni umane. È la conseguenza del successo evolutivo di un primate eccezionalmente rapace. Nel corso della storia e della preistoria, l’avanzata dell’uomo è andata di pari passo con la devastazione ecologica.
È vero che per lunghi periodi alcuni popoli hanno vissuto in armonia con la terra. Ma gli inuit e gli aborigeni hanno finito per scontrarsi con modi di vivere per i quali il loro passo era troppo leggero. Noi non sappiamo camminare sulla terra con la loro stessa delicatezza. L’homo rapiens è diventato troppo numeroso.
La demoscopia non è una scienza esatta. Non è riuscita a prevedere, ad esempio, l’attuale collasso demografico della Russia europea post-comunista o la portata del calo di fertilità che si registra oggi in gran parte del mondo. Anche se il margine di errore nel calcolo della fertilità e delle aspettative di vita è ampio, un ulteriore, cospicuo aumento è inevitabile. Come fa notare Morrison, «anche se presupponiamo un calo della natalità a causa di fattori sociali o di un aumento della mortalità per fame, malattie e genocidi, l’attuale popolazione mondiale, oltre 6 miliardi di persone, è destinata a crescere di 1,2 miliardi di persone entro il 2050».
Una popolazione mondiale che sta per sfiorare gli otto miliardi di individui può sopravvivere soltanto spogliando la terra. Se gli habitat naturali vengono destinati all’agricoltura e alle abitazioni, se la foresta pluviale può essere trasformata in deserto verde, se l’ingegneria genetica consente di ottenere raccolti sempre più ricchi da terreni sempre più aridi, allora gli umani avranno creato per se stessi una nuova era geologica, l’Eremozoico, l’Era della solitudine, nella quale sulla terra rimarrà poco altro all’infuori di loro stessi e un ambiente a mo’ di protesi che li mantiene in vita.
La prospettiva è inquietante, ma è soltanto un brutto sogno. O i meccanismi di autoregolazione della terra renderanno il pianeta meno abitabile per gli umani, oppure gli effetti collaterali dell’attività antropica bloccheranno l’attuale tasso di crescita della popolazione.
Lovelock avanza quattro possibili esiti della primatemaia disseminata: «Distruzione degli organismi patogeni invasori; infezione cronica; distruzione dell’organismo ospite; oppure simbiosi, ossia una relazione duratura di reciproco vantaggio tra organismo ospite e organismo invasore».
Fra questi quattro esiti, l’ultimo è il meno probabile. L’umanità non avvierà mai un rapporto simbiotico con la terra. Ma nemmeno distruggerà il pianeta che la ospita, il terzo dei possibili scenari prospettati da Lovelock. La biosfera è più antica e più forte di quanto potranno mai esserlo gli umani. Come rileva Margulis, «nessuna civiltà umana, per quanto grande possa essere la sua creatività, potrebbe distruggere la vita su questo pianeta, anche se ci provasse».
Né gli umani possono ammorbare in modo cronico il loro ospite. È vero: l’attività antropica sta già alterando l’equilibrio del pianeta. La produzione dei gas serra ha alterato in modo irreversibile gli ecosistemi globali. Con l’industrializzazione su scala mondiale, questi cambiamenti non possono che accelerare. Nello scenario più negativo, preso sul serio da alcuni scienziati, il cambiamento climatico potrebbe far scomparire regioni costiere densamente popolate come quelle del Bangladesh e mettere in crisi l’agricoltura in altre parti del mondo, riducendo in povertà miliardi di persone prima della fine del secolo.
La portata dei cambiamenti in corso non può essere stimata con certezza. In un sistema caotico non è possibile prevedere nel dettaglio neanche il futuro più prossimo. Sembra tuttavia molto probabile che le condizioni di vita muteranno per la maggior parte del genere umano e che ampie fasce della popolazione dovranno affrontare climi molto meno ospitali. Come ha osservato Lovelock, il cambiamento climatico potrebbe essere un meccanismo di difesa con cui il pianeta allevia il fardello umano che lo appesantisce.
Nuove malattie, effetti collaterali del cambiamento climatico, potrebbero sfoltire la popolazione umana. I nostri corpi sono comunità di batteri, legati indissolubilmente a una biosfera in gran parte batteriologica. L’epidemiologia e la microbiologia indicano il nostro futuro in maniera più affidabile di qualsiasi speranza o progetto.
La guerra potrebbe avere conseguenze enormi. Attorno alla fine del XIX secolo, Thomas Malthus indicava nella guerra uno dei modi con cui, assieme alle carestie ricorrenti, veniva mantenuto l’equilibrio tra la popolazione e le risorse disponibili. Nel XX secolo le tesi di Malthus furono oggetto di satira da parte di Leonard C. Lewin:
Come gli altri animali, l’uomo è soggetto a un costante processo di adattamento alle restrizioni imposte dall’ambiente. Ma il meccanismo principale che l’uomo ha utilizzato a tal fine non ha uguali tra le creature viventi. Per prevenire gli inevitabili cicli storici di carestia, l’uomo post-neolitico si libera dei membri in esubero della sua stessa specie con la guerra organizzata.
L’ironia di Lewin è fuori luogo. Se è vero che raramente la guerra ha provocato una riduzione stabile del numero degli umani è anche vero che un conflitto bellico oggi avrebbe conseguenze immani. Da un lato perché le armi di distruzione di massa, notoriamente le armi biologiche e (presto anche) quelle genetiche, sono diventate sempre più temibili, dall’altro e soprattutto perché il loro impatto sui sistemi di supporto della vita nella società umana sarebbe maggiore. Non bisogna dimenticare che un mondo globalizzato è un meccanismo molto delicato. La popolazione mondiale, mai così numerosa come oggi, dipende da reti di supporto molto estese: un conflitto delle dimensioni di quelli del XX secolo potrebbe avere come effetto una riduzione della popolazione nel senso descritto da Malthus.
Nel Seicento sulla terra viveva mezzo miliardo di persone. Negli anni Novanta del Novecento, la popolazione mondiale è cresciuta di mezzo miliardo: chi oggi ha più di quarant’anni ha visto la popolazione umana raddoppiare. Per questa generazione è forse naturale pensare che questi numeri rimarranno stabili. Naturale ma, a meno che gli umani non siano veramente diversi da tutti gli altri animali, erroneo.
Nel corso degli ultimi cento anni la popolazione umana è cresciuta raggiungendo picchi che si registrano tra i conigli, i gatti domestici o i ratti. Come nel caso degli animali, questa crescita abnorme ha necessariamente una durata limitata. I tassi di fertilità sono già in calo in tutto il mondo. Come fa notare Morrison, la reazione degli umani allo stress è uguale a quella degli altri animali. L’uomo reagisce alla scarsità di risorse e al sovrappopolamento abbassando la spinta riproduttiva:
Molti altri animali sembrano rispondere allo stress ambientale con un meccanismo ormonale, che fa entrare il metabolismo in una modalità di risparmio energetico ogni volta che le risorse iniziano a scarseggiare. I processi metabolici che risentono per primi del cambiamento sono sempre quelli della riproduzione, che richiedono un grande dispendio d’energia… Il segnale ormonale che attiva questo processo… è stato riscontrato in alcune specie di gorilla in cattività, e nelle donne.
Rispondendo allo stress ambientale con un arresto della spinta riproduttiva, gli umani non si rivelano diversi dagli altri animali.
L’attuale picco nel numero degli umani sulla terra potrebbe abbassarsi per una serie di ragioni: il cambiamento climatico, una spirale discendente nel tasso di natalità o un insieme di questi e altri fattori, ancora sconosciuti. Quale che ne sia la causa, la fine di questo picco sarà un disastro di proporzioni immani:
… Se l’abnorme crescita numerica degli umani è davvero così normale come sembra, la curva discendente dovrebbe seguire la curva della crescita demografica. Ciò significa che la parte più cospicua del calo non durerà molto più di cent’anni, ed entro il 2150 la biosfera dovrebbe essere ritornata ai numeri sicuri della popolazione homo sapiens pre-crescita abnorme: tra cinquecento milioni e un miliardo di persone.
Gli umani non sono diversi da qualsiasi altro animale infestante. Da sol...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. CANI DI PAGLIA
  4. Capitolo 1. L’umano
  5. Capitolo 2. L’inganno
  6. Capitolo 3. I vizi della morale
  7. Capitolo 4. I non salvati
  8. Capitolo 5. Non-progress
  9. Capitolo 6. Così è
  10. Bibliografia
  11. Ringraziamenti
  12. Copyright