Sono nata a Vaglie di Ligonchio, un puntino isolato sull’Appennino tosco-emiliano, lontano da tutto e da tutti, il 18 gennaio del 19… Oh mio Dio, ho perso la memoria! Va be’, dài, sono nata in tempo di guerra. Mamma diceva che non si era mai vista tanta neve come quell’anno. Quando cominciarono i primi dolori del parto, nonno Adamo e suo cugino Umberto si attrezzarono per andare a prendere l’ostetrica a Ligonchio. L’unica strada che portava al paese era una mulattiera, coperta da quasi due metri di neve. Stava ancora nevicando quando il nonno e Umberto si misero ai piedi le “ciaspole”, tirarono fuori la slitta costruita da Battista per il trasporto degli ammalati in inverno e s’incamminarono con fatica lungo i cinque chilometri che dividevano Vaglie da Ligonchio, immersi in un panorama affascinante ma spettrale.
«Certo che mia figlia è proprio testarda» pensava a voce alta nonno Adamo, «in questo assomiglia a me… che bisogno c’era di spostarsi dai Laghi a Vaglie, capisco che volesse stare vicino a sua madre, a sua sorella e alle sue amiche, ma ecco in che guaio ci ha messi.»
Umberto lasciava che Adamo si sfogasse e scaricasse il nervosismo e la preoccupazione, perché in fondo aveva ragione. Che sciocchezza voler far nascere i suoi figli a tutti i costi nel paese natio! Elsa con la famiglia abitava ai Laghi a soli due chilometri da Ligonchio, in uno chalet un po’ fatiscente ma con tutte le comodità, soprattutto con una vera strada che passava proprio davanti a casa.
Quando giunsero ai Laghi, il pezzo più brutto era stato superato, lo spazzaneve era passato da poco e sulla strada, sebbene ancora innevata, la slitta scivolava via veloce. Lo chalet che tutti chiamavano “la baracca” era l’unica casa dei Laghi ed era in quel momento sommerso dalla neve, tanto che se ne intravedeva solo la sagoma. Nonno Adamo e Umberto salutarono una decina di operai muniti di grandi pale di legno che stavano aspettando che smettesse di nevicare per aprire la strada per Vaglie, dopodiché arrivarono stremati davanti alla casa dell’ostetrica che tutti chiamavano e guff, il gufo, perché era così brutta che i bambini appena messa fuori la testina, la ritraevano spaventatissimi e non volevano più uscire. Nonostante le suppliche del nonno, e guff si rifiutò di salire sulla slitta e fare il viaggio per Vaglie in quelle condizioni.
«Verrò a visitarla domani» disse «quando avranno aperto la strada. Tanto la E è esperta, ha avuto già due figlie e se la caverà benissimo da sola!» E era la Elsa… era un vezzo dei vagliesi chiamare tutti con le iniziali.
Nonno Adamo la voleva prendere per il collo e obbligarla a seguirlo, ma Umberto intervenne e lo trascinò via. Rientrarono a Vaglie senza l’ostetrica.
Nonostante i dolori si facessero sempre più forti, la mamma volle andare nella stalla ad accudire la vacca che le era stata prestata da sua cognata Catirra.
«Te la presto per sei mesi, hai due figlie e ti deve nascere il terzo, il latte è un alimento prezioso, te ne servirà un bel po’, ma trattala bene, accudiscila come si deve perché Nerina se lo merita… è una gran vacca» si era raccomandata.
Mamma si mise a riordinare la stalla, poi prese lo sgabello, si sedette con grande fatica, sistemò il secchio sotto le mammelle della Nerina e iniziò a mungere. Il dolore, ormai insopportabile, la fece urlare, il secchio si rovesciò e dopo pochi minuti nacqui io… la mamma si tolse allora il grande foulard che le nascondeva i bellissimi capelli neri, mi ci avvolse dentro e mi pose nella mangiatoia vicino alla mucca. Poi chiamò i suoi nonni: «Nonno Giuseppe, nonna Maria, venite…».
Ci sarebbe da montarsi la testa… Non vorrei essere irriverente, che Dio mi perdoni, ma il destino mi aveva fatto nascere in una stalla!
Strana cosa, il destino: mi sono sempre chiesta se sia lui a decidere per noi o se siamo noi a costruirlo e a guidarlo… Comunque, aveva smesso di nevicare, un vento gelido aveva spazzato via le nubi e una luna luminosa e bellissima era apparsa in cielo. Il destino o la luna, però, potevano essere un po’ più gentili e aiutare me e la mamma facendomi nascere maschio! Perché tutti in famiglia, ma che dico in famiglia, tutti in paese aspettavano il maschio. In particolare mio padre, che dopo due femmine, era certo che sarebbe nato il tanto sospirato maschio. In questo era stato supportato anche dalle due vecchie prozie che non sbagliavano mai un pronostico. «Senti, Ze’, la E ha una pancia così a punta che non può essere che maschio!»
Lui allora aveva cominciato a festeggiare con i suoi amici. Oltretutto la mamma aveva fatto anche la prova infallibile dell’anello: si era strappata tre lunghi capelli neri, aveva delle trecce bellissime, la mia mamma, aveva sfilato la fede al papà e dopo averci infilato dentro i tre capelli se l’era appoggiata sul pancione. Se l’anello fosse stato fermo, sarebbe stata sicuramente femmina, ma se si fosse mosso, anche poco, sarebbe stato sicuramente maschio.
S’è mosso, direte voi? L’anello aveva cominciato a vibrare, saltare, e poi a ruzzolare sul letto fin giù per terra, allora mio padre lo aveva raccolto, se lo era infilato di nuovo al dito ed era corso fuori casa come un pazzo.
«Non c’è bisogno di aspettare che nasca: è maschio, è maschio!» Così gridando era entrato nell’osteria della nonna Armida detta A, l’unica osteria del paese, dove aveva offerto vino rosso rigorosamente toscano e formaggio pecorino a tutti i paesani.
Invece ero nata io.
Mio padre per tre giorni non mi volle nemmeno vedere, le prozie invece erano incazzate nere perché per la prima volta avevano sbagliato il pronostico. Anche i paesani non erano certamente contenti, perché erano sfumate per tutti loro un’altra mangiata e un’altra bevuta a gratis.
L’unico che mi aveva voluto vedere, mosso dall’affetto e dalla curiosità, era stato il mio bisnonno Lorenzo. Ormai anziano e malatissimo, si era fatto accompagnare fino a casa e dopo aver affrontato con grande fatica delle scale ripidissime aveva raggiunto la mamma in camera. Lei, appena lo aveva visto, si era messa a piangere disperata: «Oh nonno, che disgrazia, è nata un’altra femmina e per di più bruttina».
Al che il bisnonno si era affacciato sulla cestina e aveva pronunciato queste parole: «Oddio, non è poi così bruttina, questa bambina è nata con la Luna buona, sarà fortunata».
Sentendo quelle parole, la mia mamma smise di piangere, poi il bisnonno aggiunse: «E andrà anche in America». La mamma quasi svenne, perché in quegli anni chi andava in America non ritornava più indietro.
Mi dispiace di avere ingannato tutti, ma già dentro la pancia di mamma io cantavo, ballavo, cominciavo a fare capriole e a scalciare ogni volta che sentivo le canzoni trasmesse per radio: Maramao perché sei morto?, Ba ba baciami piccina o Mille lire al mese. Ecco perché era fallita la prova dell’anello… Comunque, aiutai la mamma a partorire, collaborai alla grande, mi spinsi fuori come una forsennata fino a strappare il cordone ombelicale. Era stato un parto doloroso sì, ma tutto sommato veloce.
Nonna Rosa invece aveva messo al mondo mio padre il 10 maggio del 1911 con un parto che fu tribolato e difficile. Nonno Antonio, a differenza delle usanze di allora che vietavano al padre di assistere, volle rimanere vicino a sua moglie durante tutto il travaglio.
Quelli appena passati erano stati anni duri per lui e la sua Rosa. Il nonno era andato in America a cercare fortuna ed era ritornato più povero di prima. La nonna era rimasta a Vaglie da sola con la piccola Caterina e il ricordo doloroso di un bambino morto dopo qualche mese di vita, Zefirino.
«Ti giuro, moglie, che tornerò dall’America con un po’ di soldi per farti una casetta tutta tua. E assieme cercheremo di dimenticare il dolore per la scomparsa del nostro bambino» le aveva detto prima di partire.
Mentre assisteva alla nascita di questa nuova creatura, si augurava che fosse maschio affinché Rosa s’illudesse di avere fatto tornare Zefirino e trovasse finalmente un po’ di pace e di consolazione. Anche perché lui, dal canto suo, si rammaricava fino alle lacrime per non aver potuto mantenere la sua promessa e la casa era rimasta solo un bel sogno.
Zefirino, povero piccino, era nato sano, bello e robusto, e per i primi mesi era andato tutto bene. Poi aveva iniziato a piangere, giorno e notte, scosso da febbri improvvise. Rosa non riusciva più a dormire, ma non voleva lasciare il bambino a nessuno, nemmeno alla sorella a cui invece avrebbe dovuto chiedere aiuto. Giunta allo stremo delle forze, una sera mise il bambino che piangeva nella sua cestina, lo sistemò accanto al letto matrimoniale e si sdraiò. Aveva solo bisogno di riposare dieci minuti. Si rimboccò le coperte perché aveva freddo e grazie a quel tepore chiuse gli occhi e si addormentò.
Suo marito dormiva in un’altra stanza, lavorava tutto il giorno e di notte doveva riposare. I suoceri, di cui erano ospiti, si erano sacrificati cedendo loro la camera da letto e dormendo nel sottoscala.
Rosa si addormentò profondamente e sognò di trovarsi in un campo pieno di margheritine insieme ai suoi due bambini, Caterina e Zefirino, che giocavano felici. Si svegliò di soprassalto, si sentiva riposata, serena, ancora sotto l’effetto di quel bellissimo sogno. Il piccolo non piangeva, lo sollevò dalla cestina ed era freddo. Urlò a sua suocera di portarle subito la coperta che teneva vicino alla stufa sempre accesa. Avvolse il piccolo e iniziò a cullarlo dolcemente.
Din don din don… tre sorell in ca d’marcon – una la fila, l’altra la taja e l’altra la fa un capel de paia. Din don din don… glielo avevano strappato a forza dalle braccia.
Un pianto disperato di bimbo riportò Antonio alla realtà, distogliendolo da quei pensieri dolorosi. Rosa aveva appena partorito. Era un maschio. “Grazie, Signore, per questo miracolo!” si disse tra sé.
Il neonato non assomigliava per nulla a Zefirino: era magro magro, bruttino, con un bel nasino importante, ma Rosa disse che erano identici, anzi gemelli. Praticamente la reincarnazione del fratellino. Chiaramente lo chiamarono Zefiro. E Zefiro crebbe timido, educato, con un rispetto totale e incondizionato verso i genitori. Adorava soprattutto la sua mamma ed era ricambiato dello stesso amore.
Dopo di lui nacquero altri due fratellini, Italo e Jolanda, ma sapeva di essere il più amato dai genitori. Anche perché non disubbidiva mai e non li apostrofava in modo sgarbato come facevano spesso gli altri ragazzi.
Allora i padri picchiavano a sangue i propri figli per un nonnulla. Nonno Antonio invece non aveva mai toccato i suoi neanche con un dito. Si distingueva anche per il fatto che non bestemmiava mai. Gli altri uomini del paese invece bestemmiavano sempre, non lo facevano per offendere Dio, per loro era piuttosto un intercalare appreso in Maremma dai toscani, famosi bestemmiatori.
Tanto era docile che in paese Ze’ veniva portato da tutti come esempio. L’unica volta che aveva osato ribattere a sua madre era stato per via delle scarpe. Siccome possedeva solo un paio di zoccoli e uno di scarponcini ormai vecchi e consunti, da mesi suo padre gliene prometteva di nuovi da mettere la domenica per andare a messa.
Un giorno che Antonio era andato a Sarzana, lui aveva aspettato ansioso il suo ritorno: forse era arrivato il momento tanto atteso. E infatti il padre era rientrato con gli scarponcini che desiderava: erano bellissimi, di pelle marrone, con stringhe forti a coda di topo. Li ripose nel comodino con cura, dentro la loro scatola, la domenica seguente li avrebbe indossati con i pantaloni alla zuava, così si sarebbero visti bene. Non era vanitoso, ma insomma… i suoi amici lo avrebbero invidiato. Poi c’era lei, Elsa, non l’aveva confessato a nessuno, ma l’amava, era la sua morosa e lo sarebbe stata per sempre.
I giorni passarono lenti ma finalmente arrivò la domenica, con la campana grande che chiamava i fedeli in chiesa. Dopo aver fatto il bagno, Ze’ andò in cameretta e si cominciò a vestire: infilò i pantaloni alla zuava, la giacchettina con la martingala, i calzettoni a rombi, si mise anche la berretta. Ora sì… era arrivato il momento solenne di infilarsi gli scarponcini nuovi.
Aprì il comodino, tirò fuori la scatola ed ebbe un tuffo al cuore. Quella mattacchiona di Caterina doveva avergli fatto un brutto scherzo: aveva messo gli scarponcini vecchi al posto di quelli nuovi! Non aveva mai litigato con i suoi fratelli, ma questa volta uno scapaccione se lo meritava.
«Lasciala stare» disse mamma Rosa, «lei non c’entra! Sai, l’altro ieri è venuta quella povera donna da Montecagno con tutti quei bambini…» Era una disgraziata che veniva due volte al mese a chiedere l’elemosina. «Mi fanno sempre tanta pena» continuò, «ha un figlio della tua età ed era a piedi nudi, poverino, tremava dal freddo e gli ho dato i tuoi scarponcini. Non ti dispiace troppo, vero?»
A Ze’ salirono le lacrime agli occhi, avrebbe voluto urlare, ma come sempre si trattenne. «Ma mamma, non potevate dargli quelli vecchi?» si limitò a dire.
«Figlio mio, ma che figura avremmo fatto davanti a Dio, e a quella povera mamma?»
Rosa era di una generosità a volte imbarazzante, divideva con gli altri tutto quello che aveva. E in questo assomigliava alle sue zie, Maria di Sisto e Argentina.
Zefiro aveva cominciato a camminare prestissimo, prima di compiere un anno, sforzando le gambette che erano e sarebbero rimaste per sempre storte. Intelligente, curioso, con una manualità sorprendente che gli avrebbe permesso di realizzare qualsiasi cosa, a scuola era il primo della classe. Avrebbe meritato di andare oltre le elementari, come don Stazzoni aveva consigliato, ma non c’era assolutamente nessuna opportunità.
A Vaglie, da qualche anno, era possibile frequentare fino alla quinta elementare, ed era già un miracolo. Le città più vicine come La Spezia e Lucca erano lontane anni luce, anche a costo di grandi sacrifici, quei pochi soldi che papà Antonio guadagnava bastavano appena per mangiare ed era impensabile usarli per consentire a Ze’ di proseguire gli studi. Don Stazzoni si offrì quindi di dargli qualche lezione, ma essendo parecchio anziano si addormentava di continuo e Ze’, molto timido, non osava svegliarlo. Spesso arrivava la perpetua e lo mandava a casa, senza che il vec...