La via meno battuta
eBook - ePub

La via meno battuta

Tutto quello che mi ha insegnato la montagna

  1. 464 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La via meno battuta

Tutto quello che mi ha insegnato la montagna

Informazioni su questo libro

A Matteo Della Bordella la montagna ha dato e tolto tanto: l'ha consacrato quale uno dei più geniali alpinisti della nuova generazione, ma gli ha anche portato via il padre Fabio, insegnante e istruttore del Cai scomparso nel 2007 in un tragico incidente in parete. Eppure, Matteo ha continuato ad approcciare ogni vetta a viso aperto, con spirito leale e grande rispetto per la natura, lontano da ogni retorica di conquista. Perché l'arrampicata è più di uno sport: è un'inflessibile maestra di vita, un viaggio esistenziale nel quale ci si mette ogni volta alla prova tra gioie e spaventi, sfide e timori, traguardi e fallimenti, ascese e baratri.
Oggi, questo giovane talento ci racconta come l'alpinismo gli abbia cambiato la vita, rendendolo l'uomo che è diventato. Le sfide affrontate in parete - dalle prime scalate con il padre, appena dodicenne, alle eccezionali imprese by fair means, ovvero senza mezzi artificiali - gli hanno regalato enormi soddisfazioni e impartito severe lezioni. Un percorso fatto di successi, di premi, della stima di maestri del calibro di Reinhold Messner, ma anche di cadute, sconfitte e passaggi dolorosi. Esperienze che l'hanno fatto crescere, in tutti i sensi: l'hanno reso capace di affrontare i propri limiti e lottare con quelle paure che si agitano nel profondo di ciascuno di noi.
Immerso in una cornice di paesaggi mozzafiato - dalle Alpi alla Patagonia, dalla Groenlandia al Pakistan - il suo racconto va ben oltre la cronaca sportiva: ci mostra come scalare significhi innanzitutto scoprire se stessi, inventare e inventarsi costantemente, imparare l'arte della perseveranza, dell'accettazione e della rinuncia. E ci ricorda quanto sia importante, in montagna come nella vita, avere il coraggio di ammettere un errore o di percorrere la via meno battuta.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2019
Print ISBN
9788817142113
eBook ISBN
9788858698426
1

Mollare tutto o risalire Le mie prime vie

Quando ho iniziato a scalare, non ero per nulla convinto.
Mi ricordo ancora bene quel giorno di maggio: avevo dodici o tredici anni, e con mio padre e un suo caro amico andammo ad arrampicare al Corno Rat, una piccola parete appena sopra Valmadrera, un paesino poco distante da Lecco.
In quegli anni guardavo alla montagna e all’alpinismo come a qualcosa di molto serio: un’attività pericolosa, da veri uomini; io mi sentivo ancora un bambino, e non pensavo di essere pronto per quel genere di cose.
Non avevo voglia di confrontarmi con la paura e con il rischio, ma avevo una fiducia cieca in mio padre: lo avrei seguito fino in capo al mondo e sapevo che, insieme a lui, tutto sarebbe andato per il meglio.
Non che mio padre fosse un grande alpinista, anzi, erano anni che non arrampicava. Ma era pur sempre mio padre: mi aveva insegnato moltissime cose nei fine settimana insieme, e io desideravo diventare come lui.
Non ho mai capito fino in fondo il rapporto che mio padre aveva con la montagna e non saprei nemmeno dire quanto grande fosse questa passione per lui. Non ne è mai stato ossessionato come invece sono diventato io, ha sempre avuto una vita equilibrata, un lavoro che amava e molti altri interessi.
Nel suo legame con la montagna c’era qualcosa che non quadrava.
Mio padre aveva iniziato a scalare da giovane, intorno ai vent’anni, con i suoi amici del CAI. Pur non essendo un talento, negli anni si era portato a casa qualche bella salita, come la parete Est del monte Rosa o la Sud del monte Bianco. Nel 1982 era stato in spedizione con il CAI di Varese in Perù, dove il gruppo aveva aperto tre vie nuove nella cordigliera Huayhuash. Poi però, poco tempo dopo, ebbe un incidente in Svizzera, in Val Bedretto, dove venne recuperato con l’elicottero. Se la cavò con qualche frattura, ma dopo quell’episodio smise di scalare.
Il motivo per cui si fermò, però, non fu l’incidente – cosa che per altro avrei potuto capire: l’anno successivo sarei nato io, e mia madre gli aveva strappato la promessa di non arrampicare più.
Pur avendo smesso di arrampicare, era rimasto in contatto con parecchi suoi compagni di scalata e da bambino ebbi la fortuna di conoscerne alcuni. Il loro rapporto mi colpiva: nonostante non si vedessero spesso come prima, dai loro discorsi traspariva che erano fatti della stessa pasta e che avevano condiviso momenti ed emozioni importanti. Anche se erano passati anni, il tempo li aveva uniti in un modo speciale. Mi sembrava di riuscire a intuire quando un amico di mio padre era alpinista anziché un collega o un semplice conoscente.
In seguito scoprii che ogni tanto mio padre andava a scalare di nascosto, raccontando a mia madre qualche piccola bugia, lasciando l’attrezzatura a casa di amici.
Quando lo venni a sapere, anni dopo, il suo comportamento non mi parve poi così bizzarro: sebbene all’epoca non fossi ancora un alpinista e ritenessi il tutto pericoloso e ben poco attraente, facevo fatica a capire come una persona potesse rinunciare a una passione. Mi chiedevo già cosa significasse, davvero, andare in montagna.
Mio padre era professore di Storia e filosofia in un liceo di Varese. L’insegnamento per lui non era solo un lavoro, ma una delle passioni che pervadeva la sua vita. Il suo desiderio di trasmettere non si esauriva a scuola. Io avevo la fortuna di essere il suo allievo prediletto.
La sua era una passione spontanea e senza secondi fini, ed era rivolta a tutti – a me per primo – e a tutte le discipline: allo sci, alla bici, all’informatica, alla pesca, poi anche all’arrampicata e alla montagna.
Fu così che un giorno, al posto di andare a pescare, a cercar funghi o a fare una passeggiata, mio padre decise di portare me e il mio amico Fabio in una piccola palestra di arrampicata vicino Varese. Mia madre si infuriò, perché per lei la parola montagna è sempre stata sinonimo di rischio. So che per lei è stato difficile, ma non mi ha mai precluso la possibilità di provare e decidere in autonomia: è una delle tante cose per cui le sarò sempre infinitamente grato.
Quando io e Fabio provammo ad arrampicare, ci fu chiaro sin da subito che quello non era uno sport divertente: sfrecciare sulla neve era divertente, rincorrere un pallone era divertente, giocare a carte poteva essere divertente, ma arrampicare decisamente no. Era tutto molto serio: la preparazione, i nodi, le corde, l’attrezzatura… Bisognava prestare la massima attenzione ai dettagli e non c’era tempo per scherzare.
Solo alla fine della giornata, della quale in verità mi ricordo ben poco, potemmo finalmente tornare bambini e pensare ai nostri giochi, alla scuola e ai nostri amici.
Fu un’esperienza che non ricordo come piacevole: non capivo cosa ci fosse di bello e soprattutto perché lo stessimo facendo. Fui colpito quando, una volta, il mio amico Fabio mi disse che per lui la parte più divertente era calarsi con la corda. Per me, invece, neanche quello era divertente: era solo necessario per tornare a terra.
Ma allora, se non mi divertivo, perché non dissi a mio padre una volta per tutte: «Basta, io a scalare non ci vengo più»? Perché continuavo ad andarci?
Poi un giorno di maggio, dopo che erano passati mesi dall’ultima uscita, tornammo a scalare. Era forse la mia quinta volta sulla roccia, e Fabio non c’era. Insieme a me e a mio padre c’era Luciano, suo grande amico e accademico del CAI.
Sulla strada per Valmadrera ci eravamo dati appuntamento anche con Riccardo e Gianni, altri accademici e amici di Luciano. L’atmosfera era rilassata, per lo meno tra gli adulti. Prima di andare a scalare bevemmo un caffè a casa di Gianni, dove scoprii che il gruppo era composto da alpinisti esperti con un’intensa attività di scalate alle spalle, cosa che faticavo a comprendere, ma che comunque mi lasciò un grande senso di ammirazione nei loro confronti.
Sul breve sentiero che conduceva alla base della parete, gli argomenti si mescolarono: Marmolada, Civetta e grandi avventure dolomitiche da un lato, problemi quotidiani da «mariti in libera uscita dalle mogli» dall’altro. Mi sembrava proprio di essere approdato nel mondo degli adulti. Avevo grande rispetto e ammirazione per tutti quanti, tanto che mi domandavo se mai sarei diventato un uomo come loro e se avrei mai potuto raccontare anch’io di scalate straordinarie in giro per le Alpi. Intanto, però, iniziai a domandarmi: Sarò all’altezza della scalata? Riuscirò a dimostrare di non essere proprio così scarso?
Quando arrivammo alla base della parete, ci dividemmo in due cordate: mio padre con Luciano e Riccardo, io insieme a Gianni. Non presi molto bene quella decisione. Se non posso andare con mio padre perché per lui è troppo difficile, chissà come me la caverò io! pensai. Accidenti, non riesco nemmeno a ricordarmi come si fa il nodo per legarsi alla corda! Non avevo problemi a scalare con Gianni, che, sebbene fosse un estraneo, era pur sempre una persona che mi ispirava fiducia. Il problema era che, senza mio padre, perdevo ogni punto di riferimento. Avevo paura di fare brutte figure, di non essere capace di fare le manovre nel modo corretto e di non essere in grado di salire.
Partì Gianni come capocordata e rimasi sbalordito dalla naturalezza con cui si muoveva, e dalla sua velocità nel procedere verso l’alto. Wow! Gianni è veramente un maestro, pensai.
Quando Gianni raggiunse la prima sosta e arrivò per me il momento di partire mi ritrovai da solo davanti a quella parete di quinto grado. Mi sentii impacciato e goffo, proprio come un pesce fuor d’acqua. Maledissi il momento in cui avevo deciso di andare e mi consolai al pensiero che l’indomani sarei potuto tornare alla mia vita normale.
Non appena arrivai davanti a un tratto leggermente più verticale, mi sentii perso: non riuscivo più a salire e mi si formò un nodo in gola. Che figuraccia! continuavo a ripetermi. Sono con un gruppo di alpinisti fortissimi e non sono nemmeno capace di stargli dietro da secondo. Per fortuna, prima che il panico si impadronisse di me, Gianni tirò uno strattone alla corda e in qualche modo, superata la sezione di parete più ostica, lo raggiunsi in sosta, dove ebbi il tempo di rilassarmi un attimo. Il tiro successivo si rivelò più facile, e pensai di non essermela cavata poi così male. Ma i problemi non erano ancora finiti perché il terzo e ultimo tiro era un bel traverso verso sinistra.
Vidi Gianni allontanarsi e raggiungere velocemente la sosta successiva. Toccava di nuovo a me e quella volta ero davvero spaventato a morte: il vuoto sotto i piedi, la roccia fredda e scivolosa nelle mani e le scarpette che ancora non capivo bene come usare. Non che mi desse fastidio qualcosa in particolare; piuttosto, il fatto di trovarmi in una situazione a cui non ero abituato, la mancanza di fiducia nell’attrezzatura e in me stesso.
Mi fidavo invece del mio compagno di cordata, che in quel caso però non poteva aiutarmi perché eravamo in traverso, e tirandomi non avrebbe fatto che peggiorare la situazione. Fu così che la paura aumentò sempre di più, fino a trasformarsi in panico. Paura di cadere, paura di fare brutta figura e paura di fallire: un mix letale che si impadronì di me fino a non farmi capire più nulla, bloccando ogni mio movimento. Scoppiai in lacrime, e solo dopo aver scaricato tutta quella tensione e grazie all’aiuto e al conforto di Gianni riuscii a riprendermi e a raggiungerlo in sosta.
Scendemmo alla base della parete e, sebbene volessi soltanto sotterrarmi dalla vergogna, Gianni, mio papà e gli altri trovarono le parole giuste per convincermi a fare una via più facile e ritrovare un po’ di fiducia in me stesso.
Solo due possibilità: mollare tutto o risalire. Forse oggi prenderei in considerazione anche la prima, ma quando ero giovane era diverso. Non potevo accettare di fallire. Era una questione di orgoglio. Credevo che arrampicare non facesse per me, ma volevo raggiungere almeno un livello dignitoso, per non fare mai più una simile figuraccia davanti a mio padre e ai suoi amici.
E così volli andare per gradi, un passettino per volta. Decisi che avrei scalato ancora, ma su vie più facili, sempre da secondo di cordata, per accumulare esperienza prima di mettermi nuovamente in gioco su una parete difficile e sconosciuta.
Ovviamente il mio compagno non poteva che essere mio padre, il quale fu ben felice della mia scelta. Inoltre, non scalando da quasi quindici anni, per lui quello era un modo per ricominciare.
Per prima cosa scartammo tutte le pareti verticali. Avevo capito subito che, dal momento che il mio allenamento di braccia era prossimo allo zero, mi sentivo molto più sicuro quando potevo scaricare il peso sui piedi, piuttosto che stando appeso. Così ci dedicammo al granito e alle pareti di bassa valle ben spittate.
Weekend dopo weekend, iniziammo a macinare metri in verticale, o per meglio dire in obliquo, su placche appoggiate. Se capitava che uscissimo dai luoghi dove ci sentivamo a nostro agio, era solo perché venivano con noi amici come Luciano o Attilio, e quindi eravamo nelle loro mani.
A volte il mio amico Fabio veniva con noi, ma non aveva un vero motivo per praticare quello sport e, dopo un’infanzia insieme, l’arrampicata ci stava dividendo. Spesso veniva per passare del tempo con me o per dare un’altra chance alla scalata, sperando forse di capirne il senso, un giorno.
Intanto, seppur molto lentamente, anch’io progredivo. A un paio d’anni da quell’episodio a Valmadrera, scalando da secondo non temevo più nulla e mi sentivo sempre più a mio agio sulla roccia. I pochi nodi che servivano ormai li conoscevo a menadito ed ero già diventato un collezionista di scarpette da arrampicata: in poco tempo ne avevo comprate almeno cinque paia, nella speranza di riuscire a usare meglio i piedi o di imitare l’uso che ne faceva Luciano, il quale tutte le volte che andavamo a scalare insieme mi stupiva per la sua abilità.
Ed è proprio insieme a mio padre e a Luciano che un giorno mi venne la voglia di scalare da primo. Eravamo sulla Solitudine alla Rocca di Baiedo: per la prima volta partii ad arrampicare senza una corda che mi arrivava dall’alto.
Me lo ricordo ancora: dentro di me nessuna esitazione, perché sapevo che quella era la giornata e la via giusta per provarci. Il cuore batteva forte e la fiducia che avevo riposto nelle mie mani e nelle mie scarpette era totale. Pensavo di essere invincibile e che non sarei caduto nemmeno se mi avessero tagliato le mani. Ci tenevo a dimostrare a Luciano che in due anni avevo fatto progressi, che ero cresciuto e che finalmente ero in grado di arrampicare da primo.
Arrivai in sosta a quel tiro di quarto grado e mi sentii realizzato e orgoglioso per quello che avevo appena fatto. Pur consapevole che era solo un piccolo passo, per me era una grande conquista. L’arrampicata mi aveva procurato per la prima volta un’immensa soddisfazione. Stavo bussando alla porta di un mondo per me totalmente nuovo.
Ero sempre più affascinato dai racconti di Luciano sulle salite in Dolomiti, sui viaggi in Vespa verso le pareti e sulle scalate difficili, dove ciò che contava era percorrere l’itinerario giusto ed essere veloci per tornare al lavoro il lunedì mattina. Era un mito e non mi spiegavo come facesse a conciliare una vita normale con tutte quelle grandi avventure in montagna.
Passò qualche anno in cui io e mio padre macinammo chilometri di roccia rodando la nostra cordata, che ormai era a comando alternato e non più tirata sempre e solo da lui.
L’estate del 2003 fu il momento in cui feci i conti con le grandi salite dolomitiche, quelle tanto sognate e ambite, quelle che già conoscevo dai racconti di Luciano e che rappresentavano l’ingresso in un altro mondo: quello degli alpinisti veri.
Subito dopo l’esame di maturità mi fu chiaro ciò che avrei fatto nei mesi successivi: volevo passare l’estate a scalare con mio padre. Al diavolo le feste, le ragazze e il resto. Quella era l’estate giusta per dimostrare a tutti che anche noi eravamo pronti, che eravamo degli alpinisti fatti e finiti.
Tra le tante vie delle Alpi, un paio mi erano rimaste nel cuore.
Una era la via Philipp-Flamm sulla parete Nordovest del Civetta, una via leggendaria che da sempre vedevo come il coronamento di una lunga carriera alpinistica.
La seconda era la via Attraverso il Pesce sulla parete Sud della Marmolada, ritenuta troppo difficile persino da Luciano, un miraggio, una cosa per super uomini. Io e mio padre mai nella vita avremmo potuto affrontarla.
Invece proprio quell’estate salimmo al rifugio Tissi e passammo il pomeriggio a scrutare la parete col binocolo, cercando di indovinare da dove sarebbe salita la nostra via. La parete Nordovest del Civetta è alta 1200 metri e incute timore: avevo già percorso il sentiero che le passa sotto, ma essere lì con l’idea di scalarla era tutta un’altra cosa. Vedere quei 1200 metri fa venire molti dubbi ma ti imponi di non pensarci, di fare un passo alla volta, altrimenti va a finire che non parti nemmeno.
Passata qualche ora di sonno nella speranza di trovare un po’ di tranquillità fisica e mentale, partimmo seguendo la via illuminata solo dalle nostre luci frontali. Dopo la faticosa risalita sul ghiaione che porta alla base della parete, c...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La via meno battuta
  4. Prologo. Vittorie in tasca e voli lunghi
  5. 1. Mollare tutto o risalire. Le mie prime vie
  6. 2. Sentirsi arrivati e ricominciare da capo. Le salite con mio padre
  7. 3. Portami via
  8. 4. Un sabato d’inverno
  9. 5. Maglioni rossi
  10. 6. Chi accetta è già in vetta
  11. 7. Non è un paese per vecchi
  12. 8. Suerte!
  13. 9. Die another day
  14. 10. Notti magiche
  15. 11. Tornare indietro
  16. 12. La grande caccia allo squalo
  17. 13. L’esempio di Casimiro
  18. 14. The Coconut Connection
  19. 15. El valor del miedo
  20. 16. A casa, dall’altra parte del mondo
  21. Copyright