1989
È seduta in un mare di lenzuola e coperte aggrovigliate, tra creste bianche di patatine da imballaggio e vecchie lettere stropicciate strappate dalle buste con crescente impazienza. Il letto è solido: la stessa testiera massiccia in rovere, lo stesso materasso macchiato e imbarcato sul quale ha dormito e allattato e letto e disegnato per più di dieci anni; l’unico luogo dove riesce a sentirsi realmente in pace. In questo momento, però, è come se stesse fluttuando via e sprofondandovi dentro, leggera come una piuma e pesante come una pietra.
Sollevati gli occhiali da lettura sulla testa, Ava Fischer si stringe le ginocchia al petto. Con il volto teso e caldo di lacrime versate, asciugate e di nuovo versate, abbandona l’ultima lettera. Scruta lo spazio provato dal sole, che le serve da studio per disegnare e da camera da letto, e si sorprende che sia esattamente identico a com’era poco più di un’ora fa, mentre in quel lasso di tempo il suo mondo è stato distrutto, bruscamente capovolto. È sul tavolo da disegno, però, che si trova tuttora l’illustrazione alla quale sta lavorando, un angolo ancorato da un piatto intatto con una fetta di pane tostato spalmata di marmellata d’arancia e un altro bloccato da una tazza di caffè ormai freddo con la scritta Drink Me. Alcuni pezzetti di polistirolo sfuggiti nell’iniziale frenesia di svuotare la scatola giacciono sparsi sul tappeto spesso, come stelle gonfie d’aria disposte in eccentriche costellazioni porose contro un cielo marrone-grigiastro esausto.
Ma è il letto, a conservare le prove del disfacimento emozionale di Ava. Il letto, con le sue lenzuola sgualcite e le federe mal assortite, la mantovana impolverata e la trapunta rosicchiata dalle tarme, l’odore acre di tabacco stantio nonostante lei abbia smesso di fumare da quattro anni. Il letto, con la scatola di posta aerea ora vuota. Ha firmato sua figlia, e gliel’ha portata con blanda curiosità (Viene da Brema. Non è dove sei cresciuta?).
Il letto sul quale Ava in seguito aveva aspettato per un tempo che le era parso lunghissimo, ore, con quella scatola in grembo, nell’attesa che Sophie uscisse con gli amici. Quando finalmente aveva sentito il rumore delle suole di plastica delle ballerine di sua figlia scendere le quattro rampe prima di uscire sulla Second Avenue, aveva abbandonato il pacco per il breve tempo necessario a raggiungere la finestra con un balzo e seguire con lo sguardo la tredicenne che si allontanava con le mani affondate nelle tasche del gilet scozzese da uomo, mentre il sole si rifletteva sulle cuffiette cromate del suo walkman.
Il letto sul quale aveva letto la breve lettera formale dell’avvocato non tanto sotto shock, quanto con un senso di vuoto e di impotenza:
Sehr geehrte Frau von Fischer:
In quanto avvocato di sua madre e suo esecutore testamentario mi corre l’obbligo di darle la triste notizia che sua madre – la signora Ilse Maria von Fischer – si è spenta il giorno 12 aprile dopo una lunga lotta contro un tumore all’utero.
Come da sue disposizioni, acclusi a questa mia troverà i suoi resti, di cui le chiedo di voler confermare la ricezione tramite fax o telefono ai numeri dello studio indicati nell’intestazione. Una volta ottenuta la sua conferma, sarà nostra cura provvedere alla liquidazione della parte restante della sua eredità che ammonta a circa 71.000 marchi. In assenza di conferma di ricezione, ho avuto istruzioni di donare tale importo a The Blue Card, l’ente di beneficenza indicato da sua madre.
Accludo alla presente alcune lettere che sua madre mi ha affidato per lei, con preghiera di ulteriore conferma di ricezione.
Con le più sentite condoglianze, le porgo cordiali saluti,
Bernard Frankel, LLP
Rigida contro la testiera del letto, Ava si sforza di trovare la connessione apparentemente impossibile tra l’idea di resti e il contenitore tipo Tupperware che ha estratto tra le patatine di polistirolo un’ora fa. Tra mamma – quel pensiero inevitabilmente carico e doloroso – e la polvere granulosa che ha trovato all’interno del contenitore. Non aveva l’odore di Ilse, quel misto così familiare e inquietante di saponetta per il viso, acqua di colonia 4711, con un tocco di sudore. E certamente non aveva il suo aspetto; perché agli occhi della memoria di Ava, la madre era una donna con pelle color latte, muscolosa, i capelli dorati e gli occhi d’argento. Ed era soprattutto, più d’ogni altra cosa, violentemente consistente.
Tuttavia, mentre scrutava negli abissi cinerei aveva registrato la portata dell’affermazione dell’avvocato: questo era molto letteralmente tutto ciò che restava di Ilse von Fischer, la madre evasiva, algida, che aveva abbandonato Ava fisicamente durante la guerra, ed emotivamente subito dopo; che l’aveva lasciata in quello stesso appartamento dodici anni prima, con Sophie che strillava nel suo lettino. E per quanto la rattristasse constatare che sua madre non camminava né respirava più, alla fine non era stato realmente uno shock; per Ava, Ilse aveva in effetti cessato di esistere quando era uscita dalla porta di casa sua in quella calda estate del 1977. Sì, per alcuni anni c’era stata l’occasionale telefonata intercontinentale che Ava tagliava corta dopo avere sentito il secco Hallo di Ilse. C’era stato il lento stillicidio di cartoline e lettere e un pacchetto ogni tanto, e Ava aveva restituito tutto al mittente a Brema, senza mai aprire nulla. Ma una volta che Sophie era stata abbastanza grande da rispondere al telefono e da leggere l’indirizzo del mittente sulle buste, Ava aveva cambiato numero e inviato un ultimatum telegrafico attraverso la Western Union:
NON CONTATTARCI (STOP) PER NOI TU SEI MORTA (STOP)
No, non erano tanto i resti fisici di Ilse ad averla fatta precipitare in questa buia vertigine. Erano le parole che si era lasciata dietro. Dettagliate, attente relazioni sigillate dentro più di una dozzina di lettere. Accludo alla presente alcune lettere che sua madre mi ha affidato per lei, aveva scritto l’avvocato, quasi fosse una postilla e niente più. Conosceva forse il loro contenuto: le verità schiaccianti e le tristi confessioni. Per quanto alcune di esse non fossero altro che mere conferme dei sospetti che Ava stessa nutriva da tempo. Ho cominciato a scriverti, diceva in una lettera, da una vecchia prigione di Heidelberg, dove gli americani speravano di potermi denazificare.
Denazificare! Aveva sgranato gli occhi davanti a quel verbo sconosciuto e vagamente assurdo (come se il marciume morale fosse asportabile al pari di un’appendice infetta!). Ma il suo brivido non era stato tanto di sorpresa, quanto di vendetta. Tutti si iscrivevano al partito, diceva Ilse, e si stringeva nelle spalle, per quanto Ava avesse sempre sentito aleggiare una verità più oscura, dietro quella particolare giustificazione.
Abbandonata la lettera dell’avvocato, riprende in mano la sua eredità epistolare. Ingiallite dagli anni e di spessori diversi, le lettere sono sparpagliate sulla trapunta. Nessuna sembra essere stata spedita, e tutte sono indirizzate alla stessa donna:
Renate Bauer
163 Eldridge St
New York, New York 10002
USA
È la prima volta che Ava incontra questo nome: Renate Bauer. Ma un fatto è chiaro: Ilse le scriveva in modo ossessivo. Le lettere sono tutte vergate con la sua scrittura antiquata, leggermente gotica. E l’indirizzo del mittente è molto chiaramente quello della casetta di Schwachhausen che lei sogna tuttora nei minimi dettagli: il giallo limone con cui Ilse aveva dipinto la sua stanza quand’era bambina. La tazza verde sbeccata nella quale tenevano i loro due spazzolini da denti. La macchia scura circolare sulla scrivania di legno nella stanza della madre, segno di un caffè traboccato, di vino o acqua rovesciati.
Ava prende la più vicina, datata agosto 1976, liscia i due fogli sottili sul tessuto stropicciato dei pantaloni del pigiama, e avverte un sentore di muschio e di canfora, una traccia vaga di vaniglia. Come le altre, anche questa è scritta nella forma informale del «Du», omettendo le maiuscole come sua madre avrebbe potuto fare per un’amica intima:
Mia cara Reni!
Ieri sera ho fatto un sogno. Cominciava il giorno in cui ci siamo conosciute, alle medie, quando tu, perennemente in ritardo, mi sei venuta addosso mentre correvi verso la nostra aula lasciando cadere i libri che avevi in mano. È strano, come tanti episodi di anni più recenti siano sbiaditi nella mia memoria, mentre ricordo ancora con precisione i piccoli dettagli del nostro primo incontro, come il nocciola dorato dei tuoi occhi, il nastro rosso nei tuoi capelli. E il libro consunto che ti ho riconsegnato dicendoti che, per qualche motivo, avevo letto soltanto il seguito, ma mi era piaciuto tantissimo.
Poi era più tardi, molto, molto più tardi, e camminavo per Unter den Linden, vicino all’edicola e alla stazione della metropolitana, lungo il tragitto che percorrevamo tutti i giorni per tornare a casa tua dopo la scuola. Avevo il libro, e sapevo che restituirlo (non a te, ma a Franz, per qualche motivo) era di estrema importanza, quasi vitale. La strada era pulita e grigia e talmente affollata che riuscivo a respirare a stento. Ma era anche completamente silenziosa. Mi sentivo molto sola, ed ero molto preoccupata di non riuscire a portare a termine il mio compito.
Poi ti ho vista, solo un paio di metri più avanti, che correvi nella direzione opposta. Portavi il tuo cappotto verde e il cappellino nero, e Franz aveva in testa uno di quei berretti in tweed che gli piacevano. Che gioia e che sollievo per me! Cercavo di raggiungervi, ma la folla continuava a spingere, a trattenermi, a spingermi indietro. Cercavo di chiamarvi, ma per quanto foste vicini, non mi sentivate. Continuavate ad andare avanti, e a un certo punto siete scomparsi.
Mi sono svegliata in lacrime, ma anche stranamente rassegnata. Non so granché di sogni, certamente non quanto tua madre (ricordo ancora le ore passate a parlare con lei dei nostri sogni e di cosa significavano). Ma mi è sembrato che questo forse fosse un segno del fatto che era finalmente ora di guardare in faccia la realtà : che mentre continuo a immaginare di raggiungere te e Franz, magari perfino di venire a New York e portarti a mano le mie lettere, la realtà è che, almeno per il momento, mi manca perfino il coraggio di impostarle. Forse, quindi, dovrei semplicemente smettere di scrivere. Se fossi una persona meno ostinata, probabilmente avrei smesso già molto tempo fa.
Ma entrambe sappiamo che mi tengo stretta alle cose.
Reni, se potessi dirti un’unica cosa in tutte queste lettere, sarebbe questa: che se potessi tornare indietro e cambiare tutto, lo farei. Tutto. Cambierei perfino la mia esistenza, la mia nascita, se servisse ad annullare ciò che è stato fatto a te e alla tua famiglia. L’impossibilità di farlo mi addolora ogni singolo giorno.
In fondo, forse, questa è la mia vera prigione.
Ilse
Ava chiude gli occhi. Per un momento l’antico panico si affaccia: la certezza insopportabile che il soffitto e le pareti stiano per collassare, soffocando tutta l’aria e la luce. Per frenare l’attacco pensa all’immagine confortante suggerita dal suo ultimo terapista: la spiaggia dorata di Montauk, in piena estate, sotto una leggera brezza.
Invece riaffiora un ricordo di una spiaggia totalmente diverso.
Lì Ava aveva forse sei anni, durante una rara gita madre-figlia al Großer Wannsee poco dopo essersi ritrovate nel dopoguerra. La sabbia bagnata e ruvida, la giornata abbagliante e cruda come sanno esserlo i giorni di inizio primavera. A un certo punto Ava vede Ilse allontanarsi da lei con passo deciso, la sua testa attorno alla quale sono avvolte le trecce è una chiazza chiara sempre più piccola nella fredda luce del mattino. Quella vista apre un buco nero di panico dentro Ava: Torna qui, geme. Non mi lasciare. Balza in piedi, scalza, e rincorre la figura che si allontana, ma si sente trattenere alle spalle da un paio di braccia robuste. Per un momento si divincola e scalcia, prima di riconoscere la forma tuttora estranea, il busto robusto e i seni tondi premuti contro la sua piccola schiena.
Sciocchina, mormora Ilse, che era rimasta dietro di lei tutto il tempo. Cosa diavolo ti succede?
Il ricordo porta con sé la percezione di un dolore quasi fisico. Quello che la fa tornare con i piedi per terra sono dei colpi improvvisi alla porta, abbastanza forti da far tremare l’antico condizionatore sul suo supporto.
«Mamma!» grida Sophie con quella rabbia spontanea e implacabile tipica delle adolescenti. «Mi ero completamente dimenticata che avevo promesso a Erica di restituirle la sua felpa di Lou Reed. L’hai lavata? Avevi detto che la lavavi.»
Sophie? Perché era tornata? E come aveva fatto a entrare senza che Ava la sentisse?
Dopo un momento di vuota paralisi, si mette in ginocchio e comincia a r...