Liberarsi dalla disinformazione
USCIRE DALLA CONFUSIONE È POSSIBILE
Negli ultimi anni ho avuto modo di rilevare, con sorpresa sempre maggiore, l’enorme mole di informazioni, consigli, suggestioni, notizie che i genitori riescono a mettere assieme su un qualsiasi argomento a proposito dei figli.
Il problema è che in molti casi finiscono nella girandola dei “si deve/non si deve” o “si può/non si può” che ogni giorno piovono dal web o dai media. Così fanno e disfano, abbracciano un’idea e poi la cambiano, senza capire cosa è davvero meglio per i loro bambini.
Spesso tante informazioni le raccolgo direttamente dai genitori. Sono loro a parlarmi di metodi particolari, “il metodo Bianchi”, “il metodo Rossi”, “il metodo tigre”, il metodo per sviluppare una determinata competenza, quello per gestire una certa fase della vita dei figli e così via.
Da un lato sono sorpreso in senso positivo da tanto interesse: è evidente che
questa generazione di genitori è estremamente attiva, desiderosa di fare bene, di conoscere, di verificare, di confrontarsi, di trovare le risposte più efficaci.
Dall’altro, però, riscontro anche una grande confusione, i genitori vengono letteralmente bombardati da un eccesso di informazioni che li sottopone a uno stress notevole. Spesso si trovano fra l’incudine e il martello: i nonni dicono una cosa, le amiche un’altra e i blog offrono punti di vista molto articolati – ma non sempre i primi risultati di una ricerca su Google sono i più attendibili.
Il genitore emotivo vive un’ansia profonda che lo attanaglia, e che è possibile ritrovare di frequente nelle chat delle mamme su WhatsApp. Basta leggerne qualcuna per incappare in dibattiti a volte interminabili. Nel mio libro Non è colpa dei bambini, come esempio di questo attaccamento soffocante dei genitori, riportavo una conversazione in cui le mamme si scambiavano messaggi (fino all’una di notte…) per scoprire (salvo risolversi tutto in una bolla di sapone) chi fosse il ladro di penne nella classe dei figli!1
Quello che più mi colpisce è la determinazione con cui i genitori difendono le loro conoscenze, a volte i loro pregiudizi. Sembra che il solo fatto di avere un figlio sia in qualche modo sufficiente a considerarsi esperti di bambini. È come se fosse ormai invalsa una sorta di autoreferenzialità, che ha annullato per esempio la trasmissione del sapere proveniente dalle generazioni precedenti.
Nulla di male: è normale, legittimo, positivo che i genitori si sentano in pieno titolari dei loro figli. Ma ce l’hanno un salvagente per non affogare nel mare magnum delle conoscenze estemporanee, per nulla scientifiche, lasciate indisturbate a galleggiare, e tramutate in verità infuse?
L’allattamento al seno a oltranza
Gli esempi di notizie non verificate sono tantissimi. Resto sempre sorpreso dalla convinzione con cui le mamme che allattano in maniera prolungata dopo i 2 anni – fino a 3, 4, 5, addirittura 6 – portano avanti le loro ragioni. E mi risulta estremamente difficile un confronto con loro, far capire, per esempio, anche con motivazioni “tecniche”, che
dal terzo anno di vita del bambino il seno della mamma non è più un dispositivo di alimentazione,
ma diventa qualcos’altro: a un certo punto la ricerca consolatoria del seno rischia di trasformarsi, anche in pieno periodo edipico, in una componente di possibile morbosità sessuale tra mamma e figlio. Mantenere una simbiosi neonatale eccessiva impedisce la crescita, l’autonomia, lo sviluppo delle capacità del bambino.
Il ciuccio
Un altro esempio riguarda il ciuccio e l’assoluta, intransigente passione che tanti hanno per questo strumento.
È ben vero che il ciuccio ha tutta una sua tradizione d’uso, ma non merita certo le iperboliche dichiarazioni d’amore o di fedeltà assoluta che gli rivolgono a volte i genitori.
Anche qui, se analizziamo la questione da un punto di vista tecnico, scopriamo che il ciuccio presenta una serie di inconvenienti. Certo, ha una plausibile capacità di compensazione affettiva sul piano orale, ma i dubbi sorgono quando si mettono insieme informazioni più scientifiche.
- Una delle tappe dello sviluppo neonatale di nuovi apprendimenti passa dalla capacità del bambino di portarsi le cose alla bocca tuttavia, se la bocca è occupata dal ciuccio, questo, evidentemente, non può avvenire.
- L’allattamento, per poter essere sostenuto, ha bisogno di essere l’unico riferimento di quel tipo dal punto di vista orale, in modo che il bambino si “avventi” sul seno materno con l’energia necessaria. L’uso del ciuccio, in quanto succedaneo del seno, potrebbe ostacolare l’inizio e la durata dell’allattamento.
- Le lallazioni neonatali sono importantissime per costruire le basi del linguaggio stesso, ma come fa un bambino a liberare una produzione verbale se ha in bocca un ciuccio?
In condizioni particolari il ciuccio può essere considerato un supporto legittimo, però non indispensabile. Un bambino senza ciuccio non sarà un bambino che piange sempre: se piange esprime un bisogno, ha fame, ha freddo, ha sonno… non piange per dire: “Tappatemi la bocca!”.
Ecco che la fedeltà assoluta a tale strumento risulta eccentrica.
Ma questa sul ciuccio è solo una delle conoscenze spontanee che, a prescindere da una verifica diciamo “scientifica”, o comunque pedagogica, pervadono la relazione con i figli.
In questo libro cercherò di mettermi dalla parte dei genitori, facendomi carico delle loro difficoltà per trasformarle in un momento positivo, in cui si rivela la possibilità di un vero rinnovamento, di
uscire dai vincoli del passato e costruire un nuovo inizio, una nuova storia.
Ma bisogna farlo bene.
Partiamo allora per questo viaggio, verso questa nuova possibilità.
IL GENITORE “FAI DA TE” SI METTE NEI GUAI
Negli ultimi decenni è comparsa sulla scena delle famiglie una nuova figura, che già in altre occasioni ho definito il genitore “fai da te”, quello che si muove un po’ alla cieca e mette in atto interventi spesso improvvisati o mutuati da discipline di diversa natura.2
In qualche modo rappresenta una delle condensazioni di quel tempo narcisistico che analizzerò nel prossimo capitolo, dove la caratterizzazione individuale − la volontà di emergere a tutti i costi − diventa quasi dispotica e tassativa, una sorta di prescrizione assoluta verso se stessi e i propri figli.
È un soggetto, poi, fortissimamente attratto dal nuovo e da tutto quello che è inedito, e che rischia quindi di essere preda di un marketing molto spinto, che punta a invogliare i genitori nei consumi. Ho visto genitori andare in brodo di giuggiole per un passeggino accessoriato con il supporto per il tablet, cosa che non ha alcun motivo di esistere, in quanto il bambino ha necessità di guardarsi attorno, di sensorialità, non di stare appiccicato a uno schermo.
Questo genitore si lascia coinvolgere da modalità educative prive di contenuti pedagogici che generano prassi strane – come permettere al bambino di dormire nel lettone fino a 6, 7 anni – nei più diversi ambiti.
Luana, mamma di Susi (5 anni)
La mia Susi mi dice che vuole dormire nel lettone con me, cosa che ormai stavamo superando, o che addirittura vuole addormentarsi cullata “come i bimbi piccoli” e io mi trovo spiazzata… sono combattuta se essere più severa e dura o lasciarle passare questo momento aspettando che venga fuori la causa. Un’amica mi dice di non farmi problemi e accoglierla nel lettone.
Luana sottovaluta che il “ritorno nel lettone” dei bambini tende ad avvenire proprio attorno all’età di sua figlia e che non si tratta di un bisogno di “tornare piccola”, quanto di intensificare il legame con la mamma.
Un altro esempio è quello dei videogiochi. Capita sempre di notare a ristorante bambini di 6, 7 anni davanti a dei dispositivi digitali, isolati su di essi, impegnati in qualche “sparatutto”.
Anna, mamma di Paolo (9 anni)
Mio figlio fatica a scuola, stenta a socializzare e l’altro giorno mi ha davvero messo in allarme. Mi ha raccontato improvvisamente che in classe ha dei nemici. Ho provato a chiedergli chi sono questi nemici, se qualcuno gli ha fatto del male, se c’è qualcosa che non va, ma non ho ottenuto risposta. Mi devo preoccupare?
Chiedo alla mamma come passa il tempo suo figlio, che tipo di ambienti frequenta, se usa un certo videogioco sparatutto molto famoso in cui bisogna eliminare una serie di avversari.
«Certo, ci giocano tutti» mi risponde lei. «Paolo ci gioca anche per due, tre ore di fila.»
Ha solo 9 anni, è ancora troppo piccolo per distinguere la virtualità del gioco, o presunto tale, dalla realtà. Ecco perché immagina di sentirsi minacciato da nemici.
Lo stesso sarà capitato al bambino di 7 anni protagonista di un episodio curioso che anni fa mi raccontò la mamma. Il piccolo era molto vivace, e si era infortunato a scuola lanciandosi da un banco come un lottatore di wrestling. Mentre i medici lo soccorrevano e lo portavano via in ambulanza, aveva continuato a urlare: «Loro non si fanno niente, loro non si fanno niente», riferendosi ai protagonisti dei programmi che seguiva in tv. Il piccolo aveva immaginato di potersi lanciare dal banco senza subire alcuna conseguenza.
Non tutto ciò che è nuovo attiene ai reali bisogni educativi dei figli.
Al riguardo, mi ha profondamente colpito, come ci racconta la cronaca, la storia drammatica di una donna morta in discoteca vittima, insieme a cinque ragazzini, della calca di chi tentava di fuggire dal locale, probabilmente dopo che qualcuno aveva scatenato il panico con uno spray urticante. Nella discoteca, dove non erano state rispettate le giuste norme di sicurezza, era atteso un famoso trapper italiano, idolo di ragazzini di 10, 11 anni, che già a quell’età vogliono andare ai concerti.
Ho vissuto l’episodio con molto dolore per questa mamma morta per salvare la figlia di 11 anni. Mi sono chiesto che cosa ci facesse lì, che bisogno avesse di condividere con lei un’esperienza così precoce. Forse voleva proteggerla. Ma educare non significa solo proteggere, è poter dare ai figli dei limiti, delle indicazioni, degli orientamenti. Non si può proteggerli limitandosi ad assecondarli.
Il genitore “fai da te” si lascia prendere, trascinare, travolgere da necessità che non appartengono a quelle strettamente educative o comunque della crescita dei propri figli. Uno dei suoi assunti è che “ogni figlio è diverso”.
Mi sorprende, per esempio, l’ingenuità con cui una coppia di genitori descrive i figli: uno è scatenato, l’altro riflessivo, uno va benissimo a scuola, l’altro fa fatica, uno è disponibile all’ascolto, l’altro no. Mi colpisce si pensi che questi siano di per sé aspetti totalmente genetici, biologici, originali e imprescindibili, dimenticando che nel contesto storico narcisistico in cui viviamo ogni figlio cerca invece di caratterizzarsi, di emergere: se il secondogenito fosse semplicemente la fotocopia del primo, bravo o vivace come il fratello più grande, chi si accorgerebbe di lui? Quindi è naturale che trovi e sviluppi la propria identità personale in maniera diversa.
L’inequivocabile diversità di ogni figlio e, per fortuna, di ogni persona non può diventare l’idea eccentrica per cui non esistono più le tappe di sviluppo secondo parametri scientifici e riconosciuti.
Per questo tipo di genitore: «A 3 anni mio figlio dormiva dodici ore al giorno, con l’altro è diverso e dorme otto ore al giorno»; «Uno ha finito l’infanzia a 11 anni ma l’altro già a 8 era grande»; «Con uno a 6 anni si poteva ragionare di tutto, ma l’altro alla stessa età era ancora piccolo»; «La figlia è venuta nel lettone fino a 11...