Teyo Verada arrancava sotto il peso dello zaino e sotto i soli gemelli del suo mondo lungo la cresta di una duna. Cercava di ignorare i peti della bestia da soma davanti a sé e intanto fantasticava di un miracolo… un bagno.
Nato diciannove anni prima in un villaggio minuscolo, a quello stesso villaggio stava facendo ritorno dopo la sua prima visita in una grande città , Oasis. Con grande disappunto dell’Abate Barroz, la tenutaria dell’unica locanda di Oasis si era rifiutata di ospitare gli accoliti nelle stalle. Era così onorata di avere come ospiti dei veri Scudomanti che aveva insistito per alloggiarli nelle camere per lo stesso prezzo di una stalla piena di paglia. L’Abate aveva tentato di spiegare che gli accoliti non erano ancora Scudomanti, e che pertanto non meritavano quel trattamento di riguardo, ma la voce della sua autorità , per una volta, era caduta nel vuoto.
Perciò Teyo aveva condiviso con un altro accolito una stanza grande il doppio della sua cella al monastero, che in genere condivideva con Arturo, Peran e Theo. Ma la sua meraviglia era dovuta a ben altro. Non c’erano pitali per la notte, lì. Nessuna latrina. E non c’erano nemmeno tinozze da riempire con l’acqua di una caraffa, che a sua volta andava riempita con una pompa a cento metri di distanza. L’acqua, in quel posto, era trasportata da tubature direttamente in un piccolo bagno in fondo al corridoio dove gli ospiti potevano dissetarsi, lavarsi e… fare i propri bisogni. E quei bisogni, poi, in qualche modo, non finivano da qualche parte fuori dalla finestra producendo un tanfo più mefitico dei gas emessi dalle bestie da soma. Per Teyo era una specie di miracolo, e non riusciva a toglierselo dalla testa.
Ma Oasis era a due leghe di distanza ormai, e adesso, con un carico di provviste per un anno, il gruppo percorreva in fila indiana le dune di sabbia di Gobakhan: in testa l’Abate seguito da una bestia da soma, dietro di lui gli accoliti seguiti da un’altra bestia, seguita da altri accoliti e da un’ultima bestia. A chiudere la fila, infine, c’era Teyo Verada, ultimo tra gli ultimi, il meno dotato tra gli studenti dell’Abate Barrez (come lui stesso si premurava sempre di rammentargli).
Teyo sognava di diventare un distinto monaco dell’Ordine degli Scudomanti e di venire assegnato a una grande città come Oasis, dove la puzza che ti portavi addosso si disperdeva al vento come per magia.
Questa è una magia che potrei padroneggiare, rimuginò Teyo tra sé. Sospirò rumorosamente e arrancò dietro il gruppo, consapevole che le sue scarse abilità con lo scudo non gli avrebbero mai fatto ottenere uno stanziamento a Oasis o in qualsiasi altro grande centro abitato. Sarebbe stata già una fortuna finire in un villaggio come il buco senza nome in cui era nato, e dov’era diventato orfano dopo la sua prima…
Qualcuno lo afferrò per le spalle riportandolo al presente. «Sta per abbattersi la Tempesta» urlò l’Abate per farsi udire sopra l’ululato del vento. «Sei sordo oltre che cieco?! Togliti lo zaino e preparati! Stiamo per finirci in mezzo! Svelto!»
Teyo si affrettò a obbedire e sfilò lo zaino mentre la sabbia della Nube Orientale gli sferzava le guance scoperte. Socchiuse gli occhi e alzò le mani, si sforzò di concentrarsi e cominciò a intonare l’evocazione geometrica dello Scudomante.
Barrez avanzò. «Sollevate gli scudi!» gridò amplificando la voce con la magia per farsi sentire sopra le raffiche di vento, ora impetuose.
Teyo era pronto. Un triangolo di luce bianca scintillante si formò al centro del palmo di entrambe le mani, poi due triangoli più piccoli si originarono lungo gli angoli dei primi due. Comparve una terza coppia. Sulla sua mano sinistra, la più potente, si formò un quarto triangolo. Teyo sapeva che tre punte non erano sufficienti. Gli servivano dei diamanti per bloccare altri diamanti. Peccato che l’evocazione di forme a quattro punte non fosse così semplice per l’Accolito Verada. Soprattutto quando era sotto pressione, per esempio durante gli esercizi mattutini, con l’Abate sempre pronto a rimproverarlo. O di fronte a un’imminente tempesta di diamanti.
I suoi scudi erano sbilanciati. La mano sinistra, il suo chakra orientale, era sempre stata più potente della destra. Si voltò di profilo, verso la tempesta, per controbilanciarsi ed evocò un cerchio perfetto di luce bianca sotto l’orecchio destro, un tentativo per uniformare i livelli del mana. E funzionò, più o meno.
Teyo conosceva la procedura e raddoppiò gli sforzi.
Quattro punte. Quattro punte. Quattro punte. Quattro punte.
Cerchi concentrici si formarono sopra, sotto, a destra e a sinistra dei due scudi triangolari che aveva creato.
Forma le linee.
Collegò i gruppi di quattro cerchi tracciando con la forza del pensiero linee di vivida luce bianca.
Riempi le sagome.
Dilatò il chakra orientale e quello occidentale per generare due scudi sovrapposti a forma di diamante. Adesso era protetto. Poteva tirare il fiato. Però era soltanto a metà del compito.
Come dice l’Abate, se uno Scudomante è in grado di proteggere solo se stesso, allora non vale niente.
Teyo era l’ultimo della fila, ma come minimo doveva allargare gli scudi per difendere la bestia da soma accucciata e le provviste caricate sul suo dorso coriaceo.
Mosse mezzo passo in avanti, piegato contro le raffiche di sabbia e vento che iniziava già a luccicare. Un secondo di troppo e i microgranuli di diamante gli avrebbero lacerato gli indumenti e la pelle. In realtà , stavano già conficcandosi nella spessa pelliccia dell’animale, che aveva preso a mugolare di dolore. Teyo sfruttò il vento come piattaforma verticale sopra cui espandere gli scudi. Non era una procedura ortodossa.
L’Abate non sarebbe d’accordo.
Ma si rivelò la mossa giusta. Gli scudi – i sette triangoli e la coppia di diamanti – si fusero in un unico grande rombo. La geometria reggeva, e la bestia da soma ora protetta lo ringraziò con un gemito di sollievo e un peto particolarmente puzzolente.
Appena in tempo. Diamanti grandi come chicchi di grandine cominciarono a tempestare il suo scudo e quelli degli altri accoliti. Teyo sbirciò a sinistra e vide che Arturo aveva evocato un imponente trapezio.
Sbruffone! Teyo rosicò tra sé. Chi vuoi impressionare?
Ovviamente conosceva la risposta. Infatti l’Abate si spostava tra loro, protetto soltanto da un piccolo ovale personale, urlando con la voce potenziata dalla magia di tenere la posizione, incitandoli a essere la geometria. I diamanti trasportati dal vento erano sempre più grandi, adesso avevano le dimensioni di prugne del Solstizio, e impattavano contro lo scudo di Teyo producendo tonfi sordi. Una decina di diamanti si abbatterono all’improvviso su di lui, e per un attimo Teyo temette che la sua concentrazione venisse meno interrompendo l’evocazione. Invece resistette, Teyo si sporse in avanti, rinnovò l’incantesimo e mantenne la posizione.
Poi apparvero le luci.
Luci?! Come possono esserci luci?! Impossibile.
La sabbia e i diamanti sollevati dal potente vento del deserto avrebbero dovuto oscurare il cielo e ogni fonte di luce. Eppure eccole, sopra e davanti a lui, abbaglianti come enormi rubini, smeraldi, zaffiri e ossidiana e, sì, altri diamanti. Lo spettacolo attirò la sua vista, confuse la mente, dissolse la concentrazione e infine l’evocazione. Un diamante grande come una mela gli scivolò sulla spalla e Teyo si accorse che lo scudo stava vacillando. Cercò di rafforzarlo, ma aveva perso la geometria. La bestia uggiolava per il dolore mentre lui cercava di recuperare l’evocazione. E persino in quel frangente le luci che non potevano esistere nel cielo che avrebbe dovuto essere oscurato lo chiamavano.
L’Abate Barrez apparve dal nulla ed evocò un ampio scudo a quattro punte per proteggere Teyo e la bestia. «Sul serio, giovanotto, che cos’hai nella testa?!»
«Le luci…» rispose Teyo indicando vagamente il cielo.
«Quali luci? Sei fortunato che ti abbia visto fallire e agitarti in questo buio. Ragazzo mio, tra tutti gli studenti sei l’unico a insegnarmi la disperazione.»
«Sì, Maestro» rispose Teyo con l’attenzione sempre rivolta alle luci. Per una frazione di secondo pensò che forse l’Abate non le vedeva, e si domandò cosa poteva significare. Ma persino quel mistero riusciva ad attirare il suo interesse. Le luci gli stavano parlando, le sentiva vibrare nel profondo del cuore, pervadendolo di un oscuro sentimento di fatalità e, nonostante ciò, spingendolo a proseguire.
La tempesta di diamanti cominciò a placarsi. Non piovevano più pietre, solo il vento continuava a soffiare la sabbia con violenza, ma Teyo quasi non se ne accorgeva. Allontanandosi, l’Abate lo apostrofò: «Recupera l’evocazione, accolito, o finirai scuoiato dalla sabbia» disse. Teyo non poteva sentirlo: senza creare scudi, senza evocare l’incantesimo, si trascinava verso le luci nel cuore della tempesta calante.
«Teyo!» chiamò Arturo.
L’Abate Barrez gettò un’occhiata dietro di sé e gridò: «Verada, mantieni la posizione!».
Ma il suo studente non riusciva a fermarsi. La sabbia (e un ultimo diamante precipitato dal cielo) lo stava scorticando. Sentiva il sangue rigargli le guance. Chiuse gli occhi. Ma le luci erano ancora lì, le vedeva luccicare, lo chiamavano a sé. Mentre perdeva l’equilibrio e rotolava lungo il fianco di una duna, gli parve di udire le voci lontane del maestro e degli altri accoliti che lo chiamavano. Cercò di rialzarsi, ma la sabbia gli si stava già accumulando intorno alle caviglie. Pensò che probabilmente sarebbe morto, e che doveva provare almeno a evocare uno scudo. Solo una sfera poteva salvarlo, ma non era mai riuscito a crearne una più grande del suo pugno. La sabbia ormai gli arrivava ai fianchi, sembrava volerlo trascinare verso il basso. Lottò per liberarsi, ma il cumulo di sabbia gli artigliò il braccio tirandolo giù con sé. Un frammento di duna alle sue spalle si staccò, e lui si ritrovò sommerso.
Sepolto vivo.
Non riusciva a muoversi né a respirare. Disperato e in preda al panico aprì la bocca in cerca d’aria, ma non risucchiò altro che sabbia. Stava soffocando. L’oscurità era totale. No, non proprio. Le luci. Le luci sarebbero state l’ultima cosa che Teyo Verada avrebbe visto in vita sua.
Poi qualcosa, al centro del chakra del suo cuore, un tizzone, avrebbe detto, si trasformò in Scintilla. In un lampo finale di geometria bianca, in cui fu certo di morire, Teyo si sfaldò in minuscoli granelli di sabbia.
Chandra Nalaar, planeswalker e piromante, sprofondò ancora di più nella poltrona ultra morbida del nuovo appartamento di sua madre nella città di Ghirapur, nel piano di Kaladesh. Era ansiosa, frustrata, arrabbiata, spaventata e oltremodo annoiata.
Pia Nalaar aveva preparato un vassoio di cioccolata scura e densa per sua figlia e i suoi amici prima di salutarla, al solito come se non dovesse rivederla mai più, e di uscire per presenziare a una riunione del concilio.
Chandra, la cioccolata ancora intonsa su un tavolino, era stravaccata con il mento quasi contro il petto e studiava a turno i suoi amici. Sul divano, il Mago Mentale Jace Beleren, con un’aria esausta e smunta, fissava il liquido scuro nella tazza neanche contenesse il segreto per sconfiggere Nicol Bolas. Accanto a lui Teferi, arcimago temporale, se ne stava con gli occhi chiusi e respirava sonoramente. Appollaiati sugli sgabelli del banco della cucina, il guaritore dalla testa leonina Ajani Criniera d’Oro e la piromante Jaya Ballard, che a volte faceva da mentore a Chandra per l’osservazione degli uccelli, chiacchieravano allegramente. Il golem d’argento Karn era in piedi immobile in un...