Settembre
Era l’inizio dell’autunno del 2000 e stavamo per festeggiare il nostro quinto anniversario di matrimonio con una cena fuori. Eravamo arrivati a Norwich da poco e non avevamo ancora dimestichezza con la città , ma tu hai fatto una piccola ricerca e hai prenotato un tavolo in un ristorante di Tombland che, hai detto, aveva ricevuto una recensione positiva su un quotidiano locale. Eri molto bello quella sera, me lo ricordo, indossavi la giacca blu sopra a una camicia di un bianco impeccabile, gli ultimi due bottoni in cima slacciati a lasciare intravedere il torace. Eri stato tutto il pomeriggio in palestra e il tuo viso era radioso, il che mi rammentava il perché ti avevo sempre trovato tanto irresistibile.
Ero stata nell’Anglia Orientale solo una volta, per il colloquio di lavoro, ma tu c’eri andato tre volte, la prima per tenere una lezione di scrittura creativa con gli studenti dell’università , la stessa dove avrei cominciato a lavorare io, e poi per partecipare a un paio di festival letterari.
«Interiora di vitellino da latte ripieni di latte materno» hai detto, godendo immensamente nel leggere ad alta voce un piatto del menu piuttosto disgustoso.
«Di certo non si prendono il disturbo di farlo apparire stuzzicante, vero?» ho detto io.
«Chi lo sa. Magari vale la pena assaggiarlo.»
«Credo che sceglierò un’orata.»
«Codarda.»
Sul tavolo fra noi tremolava il lume di una candela e, una volta ordinati i piatti e arrivato il vino, mi hai inaspettatamente detto di amarmi. Vedevo la fiamma riflettersi nelle tue iridi e avevi gli occhi così umidi che per un momento ho pensato di veder spuntare una lacrima. Ti avevo visto piangere solo una volta, dopo il mio quarto aborto spontaneo, quando abbiamo cominciato a capire che su quel fronte per noi le cose non avrebbero mai funzionato.
Tu volevi dei figli disperatamente. Su quello eri stato chiarissimo fin dall’inizio, cosa che ai miei occhi ti aveva reso molto attraente. Anch’io li volevo, seppure forse non con la tua stessa intensità . Avevo sempre pensato che li avrei avuti un giorno, e perciò era sempre stata questione di quando, non di se. Solo quando mi sono resa conto che era improbabile che succedesse, ho cominciato a sentirmi defraudata. Gli aborti si erano fatti per me sempre più traumatici, quattro vite spietatamente espulse senza preavviso da quello che il mio ginecologo aveva definito un grembo inospitale.
«Sei felice del tuo lavoro?» mi hai chiesto, dopo che ci erano stati serviti i piatti principali, li avevamo divorati, erano stati portati via e avevamo deciso di ordinare una seconda bottiglia di vino.
«Sono un po’ nervosa.»
«Per cosa?»
«Per via degli studenti. Che possano considerarmi un’imbrogliona.»
«Perché mai dovrebbero pensare una cosa del genere?»
«Perché ho pubblicato un unico romanzo.»
«Molto più di tutti loro messi insieme.»
«Lo so, ma fa niente. Per me è importante che non sentano di perdere tempo e denaro, che se solo si fossero presentati un paio d’anni prima avrebbero avuto come insegnante qualcuno di maggiore esperienza.»
«Sono sicuro che saranno felicissimi di avere te. Edith, dopotutto sei famosa.»
«Non sono famosa» ho detto sprezzante, sebbene in realtà fosse vero: una certa fama l’avevo perché il mio debutto aveva riscosso parecchio successo, buone critiche e ottime vendite. Ottenendo perfino un adattamento per la televisione. Ma prima di allora non avevo mai tenuto un corso di scrittura creativa, né vi avevo partecipato come studentessa, e non sapevo bene come affrontarlo. Mi ero candidata per quel lavoro perché erano trascorsi tre anni dalla pubblicazione di Paura e, anche se il secondo libro stava progredendo bene, non prendeva forma con la rapidità che avevo sperato. Pensavo che un periodo in università , dove sarei stata in contatto ogni giorno con la scrittura senza per questo restare incollata al computer dal mattino alla sera, mi sarebbe stato d’aiuto. E tu ti eri mostrato molto favorevole all’idea, accettando senza obiezioni il nostro trasferimento di un anno, lontani da Londra. Hai detto che avremmo potuto subaffittare l’appartamento. Dati i canoni più a buon mercato di Norwich, dalla faccenda avremmo anche potuto uscire con un piccolo profitto.
«Potrebbero essere arroganti» ho aggiunto, tornando alle mie apprensioni riguardo gli studenti. «Soprattutto i ragazzi.»
«Non diventarmi sessista, adesso.»
«No, soltanto realista. Ho solo trentun anni. C’è la possibilità che alcuni siano quasi miei coetanei. Di questo potrebbero risentirsi.»
«Credo tu ti stia angosciando per niente» hai detto, liquidando i miei timori con un gesto della mano. «Il primo giorno devi presentarti a loro fiduciosa, tutto qui. Accettare il fatto di aver realizzato più di loro, e che loro sono lì per imparare da te. Ignora ogni aria di sufficienza.»
«Magari il mio posto potresti prenderlo tu?» ti ho chiesto con un sorriso, sapendo già mentre le parole mi uscivano di bocca che era la cosa sbagliata da dire, perché ti sei rabbuiato e hai buttato giù un lungo sorso di vino. Quando hai rimesso il bicchiere sul tavolo, le tue labbra conservavano un lieve alone color porpora che per qualche ragione mi ha fatto ripensare a un prete conosciuto da bambina che aveva sempre le labbra di quel colore. Veniva a scuola da noi a parlare dell’importanza di mantenerci pure per i nostri futuri mariti e nutriva una particolare ossessione per una mia amica dai capelli rossi che, sosteneva lui, aveva il diavolo in agguato dentro di sé.
«Non vorrebbero uno come me» mi hai detto. «Vogliono stelle nascenti, non al tramonto.»
«Sarebbero fortunati ad avere te.»
Tu mi hai lanciato un’occhiata, come a dire Ti prego di non trattarmi con condiscendenza, e io ho cambiato subito argomento. Mancavano ancora tre mesi a Natale, ma abbiamo parlato di dove avremmo trascorso la giornata, se con la tua famiglia o con la mia, decidendo per la tua. E poi abbiamo parlato di mia sorella Rebecca, che era appena uscita da un divorzio incasinato. C’erano di mezzo due figli, i miei nipoti Damien e Edward, e quello non faceva che complicare le cose perché Rebecca si stava comportando con Robert, il loro padre, in modo atroce, prima rendendogli difficile vedere i figli e poi lamentandosi che lui non passava abbastanza tempo con loro. Mio cognato mi era sempre piaciuto, e mi chiedevo perché mai ci avesse messo tanto a lasciare mia sorella che per tutta la vita non aveva fatto altro che prevaricare gli altri, me compresa, anche se ero tenuta a prendere le sue parti. Tuttavia ti ho confidato che la sera prima Robert mi aveva telefonato, chiedendo di incontrarmi per parlare.
«Per parlare di cosa?»
«Non ne sono sicura. Mi ha detto che preferiva non discuterne al telefono e mi ha chiesto se la prossima settimana posso fare un salto da lui. Gli ho detto che non abitiamo più lì e che vivremo qui a Norwich per i prossimi otto mesi, lui un po’ ha tergiversato, poi ha detto che se ho un pomeriggio libero potrebbe venire qui in macchina.»
«Spero tu gli abbia detto di no.»
«Be’, non sapevo cosa dirgli. Era tutto così inaspettato, e lui era lì al telefono, in silenzio, in attesa di una risposta.»
«Allora gli hai detto di sì?»
«Credo di sì.»
«Credi di sì?»
«Va bene, gli ho detto di sì.»
«Oh, per l’amor di Dio, Edith! Se Rebecca viene a sapere che parli con lui si precipiterà qui gridando come un’ossessa e prima che ce ne accorgiamo proibirà anche a noi di vedere i bambini.»
«Perché dovrebbe venirlo a sapere?»
«Perché alla fine è quello che succede sempre. È impossibile tenere un segreto all’interno di una famiglia. Comunque, difficile credere che faccia tutta la strada fino a qui solo per un incontro amichevole, no?»
«Non lo so perché vuole venire» ho protestato. «Come ti ho detto, per telefono non è entrato nei dettagli.»
«Non porterà che guai, questo te lo garantisco. Vorrà coinvolgerti nell’udienza per la custodia dei figli.»
«Oh, non potrei mai farlo.»
«Certo che no, ma lui te lo chiederà . Vorrà che parli di tutte le cose che ha fatto tua sorella nel corso degli anni, delle sue aggressioni verbali, di quando lo picchiava…»
«Cristo, dici davvero?» ti ho chiesto, perché solo un anno prima avevo incontrato Robert in un supermercato e gli avevo visto l’occhio nero che stava scolorendo e, nonostante lui negasse, sapevo chi era stato a farglielo. Lei picchiava pure me da bambine, anche da adolescenti. Una violenza feroce e incontrollabile che le scaturiva da dentro come lava da un vulcano ogni volta che pensava che i nostri genitori mi preferissero a lei. Ha smesso soltanto quando ho cominciato a restituirgliele.
«Me ne preoccuperò quando succede» ti ho detto, stringendomi nelle spalle.
È di nuovo calato il silenzio, e ho cercato di raccogliere il coraggio per farti la domanda che mi rodeva l’anima fin da quando avevo accettato il posto alla University of East Anglia.
«E tu? Hai deciso cosa ti piacerebbe fare mentre siamo qui?»
«Fare?» mi hai chiesto. «In che senso?»
«Per occupare le tue giornate» ho risposto. «Pensi di scrivere?»
«A che scopo? Non è che gli editori stiano proprio facendo la fila davanti alla mia porta, giusto?»
«Potresti cominciare qualcosa di nuovo.»
«E perché dovrei?»
«Perché sei uno scrittore brillante.» E tu mi hai guardata con un’aria così ferita che ho temuto ti saresti alzato e te ne saresti andato via. «Scusami» ti ho detto. «Non so mai cosa dire quando salta fuori questo argomento. Odio vederti così sconfitto.»
La verità era che odiavo vederti immusonire ogni volta che parlavamo della tua carriera impantanata e, sebbene nel saperlo ti saresti arrabbiato, provavo per te anche dell...