Partiamo da un assunto: non sono e non sarò mai obiettiva parlando di mio padre; nonostante i miei sessantadue anni il mio Edipo è ancora arzillo, e chi si appresta a sentire il mio racconto di lui sappia che è parziale e fazioso.
Ridendo e scherzando è il documentario che Silvia e io abbiamo fatto su di lui, costrette da mamma.
Da anni papà era subissato da richieste che arrivavano da tutto il mondo per l’avallo di un documentario su di lui. Le declinava tutte, non gli piaceva parlare di sé, non gli piaceva essere al centro dell’attenzione; amava il suo lavoro e quello doveva bastare: le sue idee, i suoi pensieri erano lì, nei suoi film. Per lui la questione era chiusa.
Ma non era affatto chiusa e le richieste continuavano ad arrivare, specie una dal Giappone, di uno studente particolarmente accanito.
Un giorno mamma ebbe l’idea: «Ci vogliono Paola e Silvia! Perché mai uno studente di Tokyo dovrebbe saperti raccontare meglio delle tue figlie?» (da allora lo «studente di Tokyo» è diventato la nostra «casalinga di Voghera», una figura retorica che sta a rappresentare chiunque conosca papà solo attraverso la sua opera). Mamma insisteva: «Tanto prima o poi qualcuno lo farà questo documentario, con o senza la tua approvazione».
Successe che nel luglio del 2012 una galleria d’arte di Parigi allestiva una mostra di disegni di papà . Silvia e io fummo convocate sul lettone della loro camera d’albergo che affacciava sui giardini di Champ-de-Mars, e da lui informate: «Dice mamma che dovete fare un documentario su di me». Come al solito risate, cazzeggio, forse un brindisi in mutande con la Torre Eiffel di sfondo… E ridendo e scherzando, nacque Ridendo e scherzando.
Ha avuto tre anni di gestazione; Silvia e io lo abbiamo scritto e riscritto, e poi, dopo aver trovato i materiali d’archivio, lo abbiamo riscritto ancora. L’idea era quella di usare le interviste che Scola ha rilasciato durante tutta la vita, per rispondere alle nostre domande di oggi.
La scelta di colui che avrebbe fatto quelle domande era delicata: ci voleva qualcuno che non solo tenesse testa a papà ma che fosse in grado di sfotterlo, aizzarlo e farlo reagire alle nostre provocazioni.
Abbiamo pensato a Pif perché ci piaceva l’ironia dissacratoria e graffiante delle interviste per le quali era diventato famoso, che si sarebbe sposata perfettamente con il copione che avevamo scritto.
Lui ha accettato entusiasticamente, ma a una condizione: non incontrare Scola prima delle riprese. Non lo conosceva personalmente e voleva che l’impatto fosse vero e spontaneo.
Ci sembrò una bella idea, fummo tutti d’accordo e così facemmo: Scola e Pif si incontrarono solo sul set, nel Cinemetto dei Piccoli di Villa Borghese, al momento di girare.
Solo che ci fu un imprevisto: Pif al cospetto di Scola non era più la «iena» irriverente che conoscevamo ma un ammiratore emozionato e in soggezione che non riusciva a seguire la chiave dello sfottò che gli avevamo tracciato: la presa in giro, quindi, era fuori discussione.
Non da parte di papà , però, che molto divertito – e ben disposto verso quel giovanotto ironico e coraggioso del quale aveva molto apprezzato La mafia uccide solo d’estate – aveva colto la palla al balzo cominciando da subito a sfotterlo lui: le parti si erano invertite.
Con un Pif improvvisamente inoffensivo, Silvia e io ci siamo trovate a dover cambiare rotta al volo, dopo un momento di panico abbiamo trovato la chiave giusta e forse il risultato è stato migliore di quello che avevamo immaginato in partenza.
Anche papà alla fine ci è sembrato soddisfatto, lo abbiamo dedotto da due indizi: non ci ha massacrato di obiezioni (come è nel suo stile di pignolo patologico) e alla domanda di un giornalista che all’uscita della proiezione gli ha chiesto: «Scola, le è piaciuto il ritratto che le sue figlie hanno fatto di lei?», lui ha risposto: «Be’, diciamo che non ho trovato gli estremi per querelarle». Allegoria che ovviamente è entrata subito nel lessico familiare quotidiano, anche se tardivamente.
Così nella stesura di questo libro è stata la nostra preoccupazione principale: scrivere di lui facendo in modo che non trovasse gli estremi per querelarci. Operazione non facilissima dato che aborriva le celebrazioni, la retorica, l’esibizione; figurarsi un libro tutto su di lui.
Ne abbiamo tenuto conto per quanto possibile anche se, per quel che mi riguarda, come ho detto, è il mio Edipo che parla per me.
Dunque «ridendo e scherzando» è il principio per cui passa tutto il cinema di papà : un mezzo con cui si possono dire cose molto serie, si possono raccontare meglio le ingiustizie, le iniquità , le sofferenze delle persone: toni leggeri per trattare temi pesanti. E soprattutto si possono raggiungere molte, molte più persone: la gente preferisce ridere che dilaniarsi.
Non bisogna però confondere questo suo vedere sempre il bicchiere mezzo comico con la serietà che metteva in tutto quello che faceva e che non gli impediva anche di essere il più meticoloso dei rompicoglioni, sia durante la scrittura sia nelle riprese, fino all’edizione e all’uscita in sala: non c’era fase della realizzazione del film che non seguisse personalmente, serissimamente, maniacalmente.
Mentre cercavamo il materiale di repertorio nelle Teche Rai per Ridendo e scherzando Silvia mi sfotteva perché restavo continuamente imbambolata a guardarmelo e, specie in certi spezzoni degli anni Settanta-Ottanta, mi sembrava bellissimo (prima meno, da giovane era glabro e cicciottello, «un bell’abbacchio» come direbbero oggi i miei figli). Non che Silvia fosse immune al suo fascino ma il suo amore è meno viscerale e acritico, più adulto forse, anche se lei è «la sorella piccola».
La cosa però non si fermava mica qui. Se avesse potuto il mio Edipo avrebbe risalito tutto l’albero genealogico, fino a chissà dove; fortuna che le mie conoscenze dirette degli antenati si sono fermate al papà di papà , nonno Peppino. Il mio secondo primo amore.
Fra i suoi (per me) mille fascini di uomo del Sud, nonno presentava anche tutta la gamma di difetti del listino. Era diffidente, scontroso, chiuso, suscettibile, tribale, pigro e timidissimo.
Ma anche furbetto: quando voleva sottrarsi a qualcosa che non aveva voglia di fare o a un invito che gli era sgradito, usava una sua formula: «Sarei una nota stonata». In questo modo fingeva di declinare per discrezione, per non disturbare, quando invece voleva evitarsi una rogna. «Sarei una nota stonata» è ovviamente nel nostro lessico familiare, sinonimo di abilità nel cercare di ribaltare a proprio favore una situazione scomoda.
Poi era fragile, spaventato, insicuro, si fidava solo della famiglia strettissima e quando suonavano alla porta si metteva sul chi vive, perché «chi viene in casa viene per rubare». Essere fatto fesso era uno dei suoi peggiori incubi. A Trevico, ma in tutta la Campania e forse in tutto il Sud, è quanto di peggio possa capitare, un’onta sanguinosa, intollerabile.
Una mattina, dopo essere stato su un autobus non si ritrovò più il portafogli (allora abitava a Roma ormai da decenni ma la forma mentis era rimasta inalterata):
NONNA: Oh madonna, Peppi’, te l’hanno rubato!
NONNO: Ma no, l’ho perso.
NONNA: Macché, te l’hanno rubato sull’autobus.
NONNO: No, no, l’ho perso.
NONNA: Noo, te l’hanno rubato.
NONNO: Insomma, Dina: ti dico che l’ho visto cadere!
Preferiva sostenere un paradosso pur di non ammettere che era stato fatto fesso da un borseggiatore.
Un caposaldo del nostro lessico familiare: quando qualcuno, anche di fronte all’evidenza, la nega, parte un coro di «L’ho visto cadere!».
Penso proprio che fosse una deformazione professionale: quella regola numero uno dei contratti con i produttori, fare ridere, papà e tutti loro se la portavano anche a casa.
Un po’ come la politica: fondante dei loro film (e parlo di Age-Scarpelli-Scola-Maccari-Monicelli) ma presente anche nel privato, prima ancora che nel «pubblico». Ecco perché ci faceva tanto ridere il personaggio del «burlone» di Se permettete parliamo di donne, un cazzone assoluto fuori casa e poi musone e sempre afflitto davanti ai suoi.
Noi no, papà in casa era l’opposto di quel personaggio bipolare e il buon umore che circondava il suo lavoro tornava paro paro in casa.
Quando eravamo solo noi quattro, per esempio, in privato e al riparo da occhi indiscreti, si divertiva a recitarci il suo pomposo nome per intero, «Ettore Euplio Emidio Scola», fingendo di darsi grandi arie: sia per Ettore, il gentile eroe omerico; sia per Euplio, Santo patrono di Trevico, il paesino in provincia di Avellino dove era nato; sia per Emidio, nientedimeno che «semidio».
L’autoironia, che praticava spesso, era finalizzata a farci ridere ma anche evidentemente a tenere a bada il narcisismo: la modestia prima di tutto, e la presa per il culo subito dopo.
Papà vedeva il lato buffo dell’esistente dovunque, anche su di sé. I tic, le manie, i difetti, le debolezze o le storture della gente comune, le vedevamo fiorire nei personaggi dei suoi film, nelle sue sceneggiature, nei suoi disegnetti. A volte la sua ironia era graffiante e il suo sarcasmo feroce, eppure il suo amore per la gente e la fiducia nell’uomo e nel suo inalienabile diritto alla felicità , non lo abbandonavano mai. In Il mondo nuovo, suo film «francese» sulla fuga di Luigi XVI durante la Rivoluzione del 1789, tra i protagonisti a bordo della diligenza che corre sulle tracce della carrozza di Sua Maestà , c’è il giovane costituzionalista Tom Payne, personaggio a cui papà teneva molto, interpretato dall’attore americano Harvey Keitel. Il personaggio era americano e per papà era fondamentale che anche l’attore lo fosse; e Keitel accettò quel ruolo minore con entusiasmo. Nel film, Payne racconta ai suoi compagni di viaggio di aver appena scritto la prima Carta costituzionale americana, e spiega che dopo la Rivoluzione l’articolo 1 non poteva che essere il diritto alla felicità . Di tutti, nessuno escluso. Questo 230 anni fa.
In Ridendo e scherzando Scola dice a Pif: «La diversità è già un valore in sé. Che poi i diritti alla felicità siano negati è un altro discorso. Però, bisogna avere l’orgoglio della propria diversità ». E non lo diceva per posa da intellettuale, era un sentimento sincero. Le sue origini meridionali e la sua infanzia sotto la guerra lo hanno segnato moltissimo. E anche se al Sud è vissuto poco, il legame con la sua terra è rimasto sempre molto vivo.
Penso che nasca proprio da qui la sua attenzione verso gli emarginati, i diversi, le vittime di una società ingiusta, ed è stata sempre quella la sua spinta nel fare tutti i film, anche le commedie.
Quando ci apprestavamo a scrivere un film, da un’idea iniziale da sviluppare o da una semplice suggestione, l’obiettivo era sempre quello di raccontare qualcosa che avesse un’importanza etica precisa, un fulcro, una necessità . Durante le riunioni di sceneggiatura, Furio (Scarpelli) ripeteva continuamente: sì, ma il cuore, l’anima del racconto, qual è? Ecco, trovato quello si era già a metà dell’opera. E il cuore, ancora sanguinante, di Una giorna...