Riprendo conoscenza a bordo di un Cessna che sobbalza in aria. La testa mi martella, ho la camicia insanguinata e non ho idea di quanto tempo sia passato. Mi guardo le mani, aspettandomi di vedere le manette, invece no; solo una normalissima cintura di sicurezza alla vita. Chi me l’ha allacciata? Nemmeno ricordo di essere salito in aereo.
Dalla porticina aperta vedo la nuca del pilota: siamo solo noi due. I monti sono innevati e il vento sballotta l’apparecchio. Il pilota sembra totalmente concentrato sui comandi, ha le spalle rigide.
Mi sfioro la testa: il sangue si è seccato e ha lasciato un grumo appiccicoso. Mi brontola lo stomaco; dopo il French toast non ho mangiato più niente. Quand’è stato? Sul sedile a fianco al mio, una bottiglietta d’acqua e un tramezzino avvolto nella carta oleata. Apro l’acqua e bevo.
Poi scarto il panino – prosciutto ed emmenthal – e gli do un morso. Cacchio, la mascella mi fa troppo male per masticare. Devo aver preso un pugno in faccia dopo che sono finito a terra.
«Si va a casa?» chiedo al pilota.
«Dipende da cosa intendi per casa. Siamo diretti a Half Moon Bay.»
«Non t’hanno detto niente di me?»
«Nome e destinazione, poco altro. Sono solo un tassista, Jake.»
«Ma ci sei dentro anche tu, no?»
«Certo» fa lui con tono sibillino. «Fedeltà al Coniuge, Lealtà al Patto. Finché morte non ci separi.» Si gira quel tanto che basta per lanciarmi un’occhiata che significa: «Piantala con le domande». Mai visto prima.
C’è un vuoto d’aria così forte che mi vola via il tramezzino. Parte un cicalino imperioso, il pilota impreca, comincia a pigiare freneticamente i pulsanti e grida qualcosa alla torre di controllo. Perdiamo quota in fretta e io mi aggrappo ai braccioli, pensando ad Alice, ripercorrendo la nostra ultima conversazione, rimpiangendo tutte le cose che non le ho detto.
Poi, all’improvviso, l’aereo si livella, riprendiamo a salire e sembra che vada di nuovo tutto bene. Recupero i pezzi del panino da terra, li rimetto nella carta e poso tutto sul sedile vicino.
«Mi dispiace per la turbolenza» dice il pilota.
«Non è colpa tua. Ne sei uscito bene.»
Sopra una Sacramento soleggiata finalmente si rilassa, e ci mettiamo a parlare dei Golden State Warriors e della loro sorprendente serie positiva di questa stagione.
«Che giorno è?» chiedo.
«Giovedì.»
Il sollievo mi invade quando scorgo dal finestrino la costa familiare, e accolgo con gratitudine la vista del piccolo aeroporto di Half Moon Bay. L’atterraggio è pulito. Una volta arrivati, il pilota si gira e fa: «Non prendere il vizio, mi raccomando».
«Non ne avevo intenzione.»
Acchiappo il borsone e scendo. Senza nemmeno spegnere i motori, il pilota chiude lo sportello, torna indietro e decolla di nuovo.
Entro nella caffetteria dell’aeroporto, ordino una cioccolata calda e mando un messaggio ad Alice. Sono le due di un giorno lavorativo, e quindi sarà senz’altro presa da mille riunioni. Non la voglio infastidire, ma ho proprio bisogno di vederla.
Arriva un messaggio in risposta. Dove sei?
Tornato a HMB.
Esco fra 5 min.
Dall’ufficio di Alice a Half Moon Bay sono più di trenta chilometri. Mi avvisa con un altro messaggio che c’è un sacco di traffico, così ordino anche da mangiare, più o meno tutta la facciata sinistra del menu. Il locale è vuoto, tranne per la vispa cameriera che svolazza qua e là nella sua divisa stiratissima. Quando pago il conto, mi dice: «Buona giornata, Amico».
Esco e mi siedo ad aspettare su una panchina. Fa freddo, la nebbia arriva a ondate e io sono già bello che congelato quando compare la vecchia Jaguar di Alice. Mi alzo e, mentre controllo di avere tutto, ecco mia moglie. È in tailleur, ma per guidare si è messa le scarpe da ginnastica al posto dei tacchi alti. I capelli neri sono umidi di nebbia. Ha le labbra rosso scuro, e mi chiedo se lo abbia fatto per me: lo spero.
Solo quando si alza in punta di piedi per baciarmi capisco fino a che punto mi sia mancata. Poi fa un passo indietro per squadrarmi.
«Se non altro sei tutto intero.» Allunga una mano e mi sfiora la mascella. «Che è successo?»
«Non lo so bene.»
Le do un abbraccio.
«Insomma, perché ti hanno convocato?»
Vorrei raccontarle un sacco di cose, ma ho paura: più sa, più rischia. E poi, a dirla tutta, la verità la farebbe incavolare.
Cosa non darei per tornare all’inizio, a prima del matrimonio! Prima di Finnegan, prima che il Patto mandasse all’aria le nostre vite.
Sarò sincero: il matrimonio è stato una mia idea. Magari non il posto, l’organizzazione, cosa mangiare, che musica sentire, tutta roba di cui Alice era tanto brava a occuparsi. Ma l’idea è stata mia. Conoscevo Alice da tre anni e mezzo, la volevo tutta per me, e sposarla era il modo migliore per essere sicuro di non perderla.
Alice non se la cavava bene con gli impegni. In passato era stata ribelle, impulsiva, a volte fin troppo attratta da luccichii e piaceri effimeri. Temevo che se ne sarebbe andata, se avessi aspettato troppo: il matrimonio, quindi, era solo un mezzo per ottenere la stabilità .
Quando le chiesi di sposarmi era un mite martedì di gennaio. Suo padre era morto e noi eravamo andati in Alabama. Non le restavano altri parenti in vita, e Alice era scossa da quella scomparsa inattesa. Non l’avevo mai vista così. Trascorremmo i giorni successivi al funerale ripulendo la casa dov’era cresciuta, in una periferia residenziale di Birmingham. La mattina riempivamo scatoloni in soffitta, nello studio e in garage. La casa era piena di oggetti che rimandavano alla vita familiare: la carriera militare di suo padre, i successi nel baseball del fratello, i libri di ricette della madre, le foto sbiadite dei nonni. Era come il sito archeologico di una piccola tribù dimenticata di una civiltà perduta.
«Sono rimasta solo io» disse lei a un certo punto. Non in tono lacrimevole: era un dato di fatto. La madre era morta di cancro, il fratello si era suicidato. Lei era sopravvissuta, ma non senza danni. Ripensandoci, mi rendo conto che forse la sua nuova condizione di unico membro vivente della famiglia la faceva sentire più innamorata e avventata di quanto non sarebbe stato altrimenti: non fosse stata così sola al mondo, dubito che mi avrebbe detto di sì.
Avevo ordinato l’anello di fidanzamento già da settimane, e l’UPS l’aveva consegnato pochi attimi dopo che lei aveva appreso della morte del padre. Non so bene perché, ma prima di uscire per andare in aeroporto avevo infilato l’astuccio nel mio borsone di tela.
Quando ormai eravamo lì da una quindicina di giorni chiamammo un agente immobiliare per far stimare la casa. Ci aggiravamo per le stanze mentre il tizio prendeva appunti freneticamente, come se dovesse sostenere un esame. Alla fine ci fermammo sulla veranda, in attesa della valutazione.
«Siete sicuri di volerla vendere?» chiese l’agente.
«Sì» disse Alice.
«È solo che…» Ci sventolò davanti i formulari. «Perché non vi stabilite qui? Sposatevi, fate dei bambini, sistematevi. Questa città ha bisogno di famiglie. I miei figli si annoiano da matti: il maschio è costretto a giocare a calcio perché non ci sono abbastanza ragazzi per fare una squadra di baseball.»
«No» disse Alice con lo sguardo rivolto alla strada. «E basta.»
Tutto qui. «E basta.» Il tizio rientrò nei panni dell’agente immobiliare: fece un prezzo e Alice ribatté con uno lievemente più basso. «È meno del suo valore, per questa zona» fece lui, sorpreso.
«Va bene così, non ci voglio più pensare» rispose Alice.
L’uomo prese un appunto. «Così mi facilita il compito.»
Nel giro di qualche ora arrivò un camion da cui scesero altri tizi, e la casa fu svuotata dei mobili sciupati e degli elettrodomestici obsoleti. Rimasero solo due sedie a sdraio a bordo piscina, che non era cambiata dal giorno in cui era stata scavata e intonacata, nel 1974.
La mattina dopo arrivò un altro camion, con altri uomini ancora: arredatori al servizio dell’agente immobiliare. Allestirono interni completamente nuovi, muovendosi con rapidità e sicurezza, appendendo grandi quadri astratti e disponendo carabattoline luccicanti sui ripiani. Alla fine la casa era la stessa, ma tutta diversa: più pulita, meno stipata, priva di quegli oggetti fastidiosi che però sono l’anima di un luogo vissuto.
Il giorno dopo ancora, una sfilza di addetti portò in giro per tutti i vani una mandria di potenziali acquirenti che bisbigliavano, aprivano pensili e sgabuzzini, studiavano carte e documenti. Quel pomeriggio l’agente chiamò con quattro offerte, e Alice accettò la più alta. Facemmo i bagagli e prenotai il volo per tornare a San Francisco.
La sera, quando apparvero le stelle, Alice uscì ad ammirare il cielo notturno e a dare l’addio all’Alabama. Era una serata tiepida e dall’altra parte dello steccato si alzava l’odore dei barbecue. Le lampade da giardino si riflettevano luminose sulla piscina, e le sedie a sdraio erano comode come dovevano esserlo state il giorno che il padre di Alice le aveva portate sul patio, quando sua moglie era bella e abbronzata e i figli erano piccoli e chiassosi. Sentivo che questo era l’Alabama al suo meglio, ma Alice pareva tristissima, immune alla bellezza che ci aveva raggiunto di soppiatto.
In seguito avrei detto ai nostri amici che l’idea di cogliere l’attimo per chiederle di sposarmi m’era venuta d’istinto: volevo farla sentire meglio, volevo mostrarle che c’era un futuro, volevo donarle felicità in una giornata così luttuosa.
La raggiunsi accanto alla piscina, mi inginocchiai, tirai fuori l’anello dall’astuccio e lo offrii ad Alice, tenendolo sulla mano sudata. Non aprii bocca. Lei guardò me, guardò l’anello e sorrise.
«D’accordo» disse.