Le verità nascoste
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Le verità nascoste

Trenta casi di manipolazione della storia

  1. 336 pagine
  2. Italian
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Le verità nascoste

Trenta casi di manipolazione della storia

Informazioni su questo libro

L'eroico ingresso a Fiume del poeta guerriero D'Annunzio è stato usato come mito fondativo dei Fasci di combattimento, eppure molti dei legionari che parteciparono all'impresa non aderirono mai al fascismo. Questo è uno dei trenta episodi di manipolazione della storia che Paolo Mieli smaschera invitando il lettore a diffidare di fonti inattendibili e versioni adulterate. In alcuni casi si tratta di falsi d'autore, come il diario di Galeazzo Ciano corretto ad arte dallo stesso genero del Duce. Altre volte sono invece tentativi, più o meno consapevoli e strumentali, di imporre slittamenti interpretativi e di senso a pagine salienti del nostro passato. Troppo di frequente si riscontra invece un uso politico della - presunta - verità raggiunta. Ecco il filo rosso che collega i saggi qui raccolti: le verità nascoste sono quelle - indicibili, negate e capovolte - che Mieli indaga con il rigore dello storico e l'acume dell'osservatore vigile e inflessibile. Un'analisi che dall'Italia del Novecento, con le sue più ingombranti e fondamentali figure (Mussolini, De Gasperi, Togliatti), attraversa alcuni temi ancora oggi di grande attualità come l'antisemitismo e il populismo. Fino a gettare nuova luce su personaggi dello scenario internazionale quali Churchill, Stalin, Mao e su passaggi poco conosciuti o spesso misconosciuti della storia antica e moderna, dalla rivolta di Spartaco alla "congiura" di Tommaso Campanella. Un tracciato, quello indicato in Le verità nascoste, che suggerisce, nelle parole del suo autore, che "in campo storico le verità definitive, al di là di quelle fattuali e comprovate (ma talvolta neanche quelle), non esistano".

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2019
Print ISBN
9788817142700
I

LE VERITÀ INDICIBILI

Le origini rivoluzionarie della mafia siciliana

In molti abbiamo un’idea approssimativa della mafia e delle sue origini. Essa ci appare come un’incarnazione del male venuta fuori dal regno delle tenebre o, più prosaicamente, come una delle tante organizzazioni della malavita organizzata. Organizzazioni malavitose che, pur assai diverse tra loro, sono sempre esistite e ovviamente hanno preceduto la vita della mafia propriamente detta.
La mafia vera e propria nacque in realtà a metà Ottocento da una costola in un certo senso della «rivoluzione» siciliana. Questa in sintesi la tesi del libro La mafia. Centosessant’anni di storia tra Sicilia e America di un grande studioso di questa materia, Salvatore Lupo. Qualche lontana origine del fenomeno – sostiene Lupo – può essere rinvenuta nel partito democratico del proprietario terriero Francesco Bentivegna il quale nel 1848 a Palermo guidò un manipolo di uomini per sostenere l’insurrezione antiborbonica e successivamente si collegò con i circoli radicali che – dopo la sua morte – avrebbero ispirato la sfortunata impresa di Carlo Pisacane a Sapri; lui nel frattempo aveva mobilitato una «squadra popolare» per «sollevare» nuovamente Palermo ma era stato catturato e fucilato dai soldati borbonici. I suoi seguaci nel ’60 si schierarono con la corrente radicale garibaldina. Suo fratello, Giuseppe Bentivegna, nel 1862 sarebbe stato a fianco di Garibaldi sull’Aspromonte. Identiche considerazioni valgono per Giovanni Corrao, anche lui rivoluzionario del ’48, finito poi in prigione e in esilio. Mazziniano «spinto», Corrao fu con Garibaldi al tempo dei «mille» e lo seguì fino alla battaglia finale sul fiume Volturno. Cospiratori antiborbonici erano stati anche due amici di Corrao, Giuseppe Badia e Francesco Bonafede. «È possibile che i Corrao e i Bentivegna» scrive Lupo con le dovute cautele «si siano rapportati, lungo il loro percorso, anche ad elementi definibili come protomafiosi.» Quanto a coloro, prosegue Lupo, che furono qualificati come capimafia in tempi successivi, vale a dire in età postunitaria, «troviamo nella loro biografia non pochi punti di contatto con l’esperienza rivoluzionaria». In questo senso Lupo crede «si possa dire che la mafia rappresentò il frutto tossico di una stabilizzazione postrivoluzionaria».
Come ciò avvenne lo si può capire da un opuscolo pubblicato nel 1864 dal senatore della sinistra «moderata» Nicolò Turrisi: Cenni sullo stato attuale della sicurezza pubblica in Sicilia. Turrisi racconta come sia nel 1848 sia nel 1860 nell’isola «era in armi tutta la vecchia setta dei ladri, tutta la gioventù che viveva col mestiere di guardiani rurali, e la numerosa classe dei contrabbandieri dell’agro palermitano». Poi, dopo l’impresa garibaldina, era mancato un governo in grado di restaurare l’ordine, sicché a quella setta di «tristi» si affiliarono altri personaggi della stessa risma. Turrisi, nota Lupo, non usa il termine «mafia» ma ricorre ad altre parole chiave: «setta», appunto, e poi «camorra», «infamia», «umiltà». In che senso «umiltà»? Spiega Turrisi: «Umiltà comporta rispetto e devozione alla setta ed obbligo di guardarsi da qualunque atto che può nuocere direttamente o indirettamente agli affiliati». Due anni dopo lo stesso Turrisi chiamerà la setta con il suo nuovo nome, «mafia», testimoniando davanti alla Commissione parlamentare sulla rivolta del 1866. Dirà: questi uomini armati «si fanno o si impongono guardiani della proprietà; proteggono le proprietà e ne sono protetti; ma restano malandrini; la mafia fu protetta da’ signori che se ne valsero nel ’48». E il cerchio si chiude.
La prima volta che il termine «maffia» (con due effe) compare in un documento governativo è in una relazione del prefetto di Palermo Filippo Gualterio (nel 1865). Il funzionario spiegava che la mafia era una specie di «camorra», un’«associazione malandrinesca» in rapporto con i «potenti», a suo tempo guidata dal già citato Corrao e ora capeggiata dal suo sodale Badia. In altre parole «la faceva coincidere col partito repubblicano, col chiaro intento di delegittimarlo», osserva Lupo. L’operazione politica di Gualterio consisteva nel «mettere insieme promiscuamente l’aspetto politico e quello criminale». Il primo giuramento di mafia registrato in un rapporto di polizia è del 29 febbraio 1876. Il rito, scrive Lupo, ci rinvia non solo al futuro della mafia, ma anche al passato della rivoluzione, in particolare alle “vendite” carbonare e a quei patti “giurati” (di cui dicono le fonti sul 1848), in forza dei quali il popolo prometteva di seguire le classi superiori nella lotta contro il dispotismo borbonico, ma impegnandosi a non mettere in discussione l’ordine sociale». Dopodiché la mafia non solo trasse originariamente suggestioni o modelli dalla massoneria, ma condivise con la stessa massoneria «alcuni caratteri di fondo». Qui Lupo afferma – pur senza «voler criminalizzare la tradizione massonica», mette in chiaro – che «le cosche mafiose e le logge massoniche sono società di confratelli che si basano sull’idea del mutuo sostegno, usano rituali barocchi per l’ammissione dei neofiti, puntano sul mantenimento del segreto». E in questo sono assai simili tra loro.
Nel 1874 l’ultimo governo della Destra storica, guidato da Marco Minghetti, propose una legge per l’ordine pubblico, una legge «straordinaria» e specifica per la Sicilia. Minghetti citò la statistica sugli omicidi del 1873 che vedeva l’isola in testa tra le regioni d’Italia con un omicidio ogni 3194 persone, laddove la Lombardia era in coda con un ucciso ogni 44.674 abitanti. Il prefetto di Palermo, Gioacchino Rasponi, protestò per il varo della «legge straordinaria» e si dimise. Quello di Caltanissetta, Guido Fortuzzi si disse invece entusiasta e volle specificare che l’idea di governare i siciliani «con leggi e ordinamenti all’inglese o alla belga, che suppongono un popolo colto e morale come colà o come almeno nella parte superiore della penisola», implica «un azzardoso e terribile esperimento». Destinato a fallire.
Successivamente i sospetti di collusione si spostarono sulla Destra per iniziativa del procuratore generale del re Diego Tajani che ebbe uno scontro con il questore di Palermo Giuseppe Albanese, da lui accusato di essere il mandante di una catena di omicidi. Nel giugno 1875 il caso arriva in Parlamento, dove il deputato della Sinistra Francesco Cordova puntò l’indice contro i banchi governativi: «Signori del governo» urlò, «il centro della maffia è nelle fila della vostra forza pubblica, i manutengoli siete voi». E quando Leopoldo Franchetti con Sidney Sonnino andò a trovare Tajani prima di «scendere» – tra il marzo e il maggio del 1876 – a studiare il «caso siciliano», l’uomo del re rivelò loro che la degenerazione del governo della Destra in Sicilia era cominciata, a suo avviso, nel 1866-67, essendo prefetto Rudinì. Il quale Rudinì, disse Tajani, «principiò a impiegare assassini contro assassini, per modo che per un assassino che distruggeva ne creava quattro».
E l’uso della forza per combattere la mafia? Negli anni iniziali della storia d’Italia, quando il Paese fu governato dalla Destra storica (1861-76), «ancora non era ben consolidato il sistema delle garanzie liberali e si era appena avviato il tormentato percorso verso la democrazia politica». La prima battaglia di quell’epoca contro la mafia fu combattuta sotto il segno di un sistema di governo centralistico, autoritario, che non disdegnava di far ricorso allo stato d’assedio e di affidarsi ai militari. Accadeva che «per difendere la propria rozza idea di legalità, indulgesse ad ogni genere di sostanziale illegalismo». In alcuni periodi storici, almeno due, «la lotta alla mafia», sostiene Lupo, «confinò con la negazione di valori, che per noi sono irrinunciabili, di rispetto dei diritti individuali e collettivi, insomma di libertà». La mafia, è vero, rappresenta una patologia delle relazioni sociali e dei sistemi rappresentativi. Ma, afferma Lupo, alcune delle soluzioni che storicamente sono state proposte possono ai nostri occhi essere considerate peggiori del male.
Dopodiché vanno annotate anche le due stagioni, quella tardottocentesca della Sinistra storica e quella della prima età repubblicana, che Lupo definisce del «lungo armistizio». Ne parlò per primo subito dopo la Grande Guerra il giurista Santi Romano, il quale notò come ai suoi tempi l’«ordinamento giuridico maggiore» (lo Stato) si mostrasse tollerante verso quelli «minori» (le associazioni) reagendo solo contro quelle che ne minacciavano il potere (le organizzazioni rivoluzionarie). La mafia poteva agevolmente essere collocata in questo schema. Sotto la minaccia delle leggi statuali, scriveva Santi Romano, «vivono spesso, nell’ombra, associazioni, la cui organizzazione si direbbe quasi analoga, in piccolo, a quella dello Stato: hanno autorità legislative ed esecutive, tribunali che dirimono controversie e puniscono, agenti che eseguono inesorabilmente le punizioni, statuti elaborati e precisi come le leggi statuali». Esse dunque, proseguiva Santi Romano, «realizzano un proprio ordine, come lo Stato e le istituzioni statualmente lecite».
Lo Stato italiano (liberale-monarchico, fascista e repubblicano) ha oscillato tra fasi di tolleranza e fasi di repressione. Ma le prime sono state assai più lunghe delle seconde. Lo storico propone un paragone tra la lotta alla mafia di Mori (1926-29) e quella degli anni Ottanta rilevandone le differenze a partire da quelle concettuali. Il fascismo «aborriva l’idea di una spinta dal basso nonché di un’autonoma partecipazione della società civile» e «sosteneva l’incompatibilità tra logiche liberaldemocratiche da un lato e legalità dall’altro». Sul piano pratico la repressione fascista fu pesante, «spesso indiscriminata» e «si accompagnò ad ogni genere di abuso». Però dai processi di quell’epoca la grande maggioranza degli imputati «uscì bene»: molte delle condanne furono di «modesta entità» e seguì un’amnistia. Niente a che vedere, sottolinea l’autore, con le pesantissime pene inflitte ai mafiosi dai tribunali della Repubblica a partire dal 1985-86. Quindi anche la mitologia del fascismo baluardo antimafia deve essere, quantomeno, ridimensionata.
Lupo non crede alla «leggenda» («priva di qualsiasi base documentaria») stando alla quale lo sbarco in Sicilia del luglio 1943 sarebbe stato «il frutto di un complotto tra mafiosi e servizi segreti statunitensi». E anche a proposito della strage di Portella della Ginestra (1° maggio 1947) non gli sembra «sia venuto qualcosa di serio dai vari tentativi di dimostrare che gli americani abbiano avuto in essa qualche responsabilità» mentre «è vero», concede, «che, in generale, intorno alla vicenda del bandito Salvatore Giuliano si intrecciarono complotti a ogni livello». Molti sono stati quelli che (in Italia e altrove) hanno ricondotto i successi della mafia nel secondo Novecento alle «trame del governo statunitense o delle sue agenzie di sicurezza, nell’ambito di strategie della tensione destinate ad inquinare in permanenza la vita democratica della nostra Repubblica». Si tratta, per Lupo, di una tesi «che ha avuto fortuna nella cultura di sinistra, sinistra che è stata a lungo antiamericana per definizione». Ma questa tesi ha spopolato anche «su altri versanti che antiamericani non lo sono stati mai». Ora, secondo l’autore, «può darsi che, nei giochi complicati dei servizi segreti, qualche spezzone di qualche agenzia statunitense abbia tramato con qualche banda mafiosa americana o siciliana». Però in sostanza l’unica cosa «provata» è questa: «Più volte il governo statunitense intervenne, anche su sollecitazione dell’agenzia federale antidroga (il Narcotic Bureau) perché le autorità italiane facessero qualcosa contro la mafia, ottenendo scarso successo». Nient’altro.
Lupo si dice consapevole che solo parzialmente la ricerca può illuminare gli spazi torbidi oscuri in cui si sviluppa questo fenomeno, la rete di intrighi che «costituisce la storia della mafia». Ritiene però che «la storiografia possa fare la sua parte, dal punto di vista conoscitivo e anche da quello civile, evitando di accreditare le mitologie del Supercomplotto». Sottraendosi cioè alla tentazione di «seguire la china della discussione pubblica, che troppo spesso si ubriaca dell’immagine della mafia come invincibile superpotere: finendo per risolversi, quali che siano le sue intenzioni, in una sottile apologia». Un’apologia che rischia di provocare un danno non lieve, che va ad aggiungersi a quelli provocati dalla mafia in sé.

La solitudine di Alcide De Gasperi

A gettare luce inedita sulla vita e le vicende di alcuni personaggi storici sono spesso le parole di quegli stessi personaggi. Suscita interesse in questo senso il Diario 1930-1943 di Alcide De Gasperi curato da Marialuisa Lucia Sergio. Riferisce, nella prefazione, la figlia dello statista trentino, Maria Romana, che negli anni Venti, quando «il potere fascista» era agli inizi, un ex deputato del Partito popolare, Giovanni Maria Longinotti, accompagnandolo a San Pietro, aveva domandato a suo padre: «Quanto credi che durerà questo regime?». E lui, senza esitazione, gli aveva risposto: «Venti anni». Colui che nella seconda metà degli anni Quaranta e nei primi Cinquanta avrebbe guidato la ricostruzione in Italia da presidente del Consiglio, due decenni prima era stato dunque tra i pochi a non farsi illusioni circa una breve durata del regime mussoliniano. E ad azzeccare la previsione.
Durante gli anni Trenta, dopo aver conosciuto il carcere, De Gasperi era stato impiegato alla Biblioteca apostolica vaticana; apparentemente si era appartato dalla politica ma aveva preso nota di quel che andava leggendo e aveva annotato su un taccuino incontri, conversazioni, riflessioni. Taccuino che adesso viene pubblicato nella sua integrità e con il corredo di un apparato scientifico (a cura della Sergio) davvero eccellente. Con il risultato, scrive la curatrice, di far emergere quanto fosse in errore «la storiografia costruita sul paradigma togliattiano della fondamentale adesione di De Gasperi alla posizione della Chiesa che non rifiutava in blocco il fascismo e non ne condannava i connotati antidemocratici». Viene così smentito con vigore «il luogo comune di un De Gasperi in stato d’isolamento, relegato al catalogo stampati della Biblioteca apostolica vaticana, o – al contrario – di un protégé dell’autorità ecclesiastica». De Gasperi – come emerge nitidamente dal diario – non fu né una cosa né l’altra.
Il politico di Pieve Tesino all’epoca in cui iniziò a scrivere il diario era già adulto: un uomo che dai quarantanove anni fino a oltre i sessanta dovrà «arrangiarsi con lavori modestissimi», ha notato Alberto Melloni. Ma aveva una notevole esperienza politica alle spalle: era stato un parlamentare di rilievo del Partito popolare ed aveva raccolto l’eredità di don Sturzo quando, nel 1924, quest’ultimo era stato costretto ad emigrare. Nell’estate di quello stesso 1924, dopo l’uccisione di Matteotti, all’epoca dell’Aventino aveva caldeggiato un’alleanza con i socialisti di Filippo Turati e per questo era stato duramente redarguito dall’organo dei gesuiti, «La civiltà cattolica». Il suo riferimento era stato all’epoca lo Zentrum tedesco del teologo Heinrich Brauns. In ciò sostenuto dal nunzio apostolico a Berlino Eugenio Pacelli (futuro papa Pio XII) che nel ’25, proprio al fine di non destabilizzare lo Zentrum, aveva sconsigliato al pontefice Pio XI di pronunciarsi apertamente contro il socialismo (salvo poi doversi scusare con il capo della Chiesa, indispettito per quella sollecitazione). Successivamente De Gasperi è presente all’ultimo congresso del Partito popolare (giugno 1925), subisce lo scioglimento del partito (novembre 1926), viene rinchiuso a Regina Coeli per un presunto tentativo d’espatrio clandestino (a Trieste).
Uscito di prigione, De Gasperi giustifica i Patti lateranensi del 1929, ma solo perché chiudono una volta per tutte la «questione romana». Spesso, soprattutto nel 1931 al momento del contrasto tra fascismo e Azione cattolica, si trova ad essere polemico con Giuseppe Dalla Torre, direttore dell’«Osservatore romano», per quelli che considera come «cedimenti al regime». Regime che lo tiene d’occhio e in più di un’occasione chiede a Pio XI di intervenire per metterlo in riga. Finché il papa, proprio nel ’31, trasmette a Mussolini il seguente comunicato: «Il S. Padre non si pente e non si pentirà di aver dato ad un onesto uomo e onesto padre di famiglia un poco di quel pane che voi gli avete levato. Dell’azione antifascista di lui risponde il S. Padre; tanto è sicuro che non farà nulla di meno censurabile a questo riguardo». In quello stesso anno – se ne trova conferma nel diario – Pio XI ha frequenti scatti contro il regime mussoliniano. Contro il «negoziatore», padre Pietro Tacchi Venturi: il papa gli avrebbe risposto battendo il pugno sul tavolo per poi esclamare «Mussolini è il demonio!». E contro padre Agostino Gemelli, che gli propone di stringere un rapporto con il fratello del duce, Arnaldo Mussolini (il quale morirà alla fine del ’31): «Quegli è Tartufo» avrebbe detto il pontefice. Non mancano, nelle annotazioni degasperiane, giudizi poco lusinghieri (ancorché riferiti a terzi) nei confronti dello stesso Tacchi Venturi – «fuori dei libri non capisce niente»; «accetta cospicue elemosine per messe» – o di qualche eminente prelato come monsignor Enrico Pucci, definito «figura miserabile».
L’«Osservatore romano», a suo avviso, è eccessivamente corrivo, nel ’32, con le celebrazioni del decennale della marcia su Roma; «rifrigge incontrollate affermazioni sul crocifisso nelle scuole». C’è una reazione indignata a padre Gemelli che ha accompagnato gli studenti della Cattolica ad una Mostra della rivoluzione fascista al Vittoriano e ha reso omaggio al re e al duce. De Gasperi, nota Marialuisa Lucia Sergio, «censisce gli interventi più plateali dei vescovi locali a favore del fascismo». De Gasperi se la prende con l’arcivescovo di Napoli, cardinal Alessio Ascalesi, che nel settembre del 1932 ascrive alla protezione divina l’invulnerabilità di Mussolini di fronte ai vari attentati contro la sua persona, a suo dire investita di un’«alta missione» per il bene del «mondo intero». È infastidito dall’amministratore apostolico della diocesi di Velletri, monsignor Giuseppe Marazzi, il quale ricorda di essere stato tra coloro che applaudivano in piazza all’epoca della marcia su Roma e sostiene essere Mussolini un «uomo mandato da Dio». E anche dall’arcivescovo di Torino, cardinal Maurilio Fossati, che parla del duce come di qualcuno «messo da Dio a reggere questa nostra cara patria, con saggezza, prudenza e fortezza». Secondo De Gasperi, né Pio XI né il cardinal Pacelli gradiscono queste manifestazioni di consenso al fascismo tant’è che, nel maggio del 1933, Pacelli interviene per correggere il discorso d’insediamento del nuovo arcivescovo di Firenze Elia Dalla Costa perché eccessivamente filofascista. Allo stesso modo viene mal considerato un intervento del cardinale Schuster al duomo di Milano nell’ottobre 1935. All’epoca della guerra d’Etiopia, poi, le lodi degli alti prelati alla missione civilizzatrice del fascismo si moltiplicano mettendo in imbarazzo la Santa Sede. De Gasperi riferisce di una confidenza di Bernardo Mattarella secondo il quale l’arcivescovo di Palermo Luigi Lavitrano nel settembre 1935 avrebbe ricevuto da papa Ratti la seguente ingiunzione: «Tacere, tacere, tacere!».
Tutti questi cedimenti della Chiesa al regime provocano a De Gasperi acuta sofferenza. Come quando nel 1932 le suore della scuola Pio X a cui sono iscritte le sue due figlie pretendono che le ragazze prendano la tessera del Partito fascista: lui non accetta e le sposta all’Istituto francese delle suore di Nevers («lacrime», appunta sul diario). Nel 1934 annota sconsolato: «L’adattamento ha fatto passi da gigante. Nessuno si pone più la domanda di nuovi o possibili rivolgimenti. Lo stato d’animo di opposizione va tramutandosi in rassegnazione». Nell’inverno del 1935 scrive delle «grandi umiliazioni sofferte» e aggiunge: «Se un giorno le mie figliuole leggeranno queste righe, sappiano che ho sopportato soltanto per la famiglia e per loro».
Pio XI, però, nelle pagine del diario degasperiano resiste (e con lui il cardinale Pacelli) a questo «codinismo» dei vescovi e della stampa cattolica. «Sì, sì, il fascismo è il nemico» avrebbe detto il pontefice, dispiaciuto perché l’arcivescovo di Firenze Dalla Costa aveva «esagerato in prudenza»: «non mi stanco di ripeterlo da mesi a quanti lo vogliono sentire». Però il papa delude De Gasperi per il rifiuto di appoggiare lo Zentrum tedesco ancora all’inizio degli anni Trenta che si concludono con l’avvento di Hitler al potere (1933). Qui, nota la Sergio, De Gasperi salva solo Pacelli che detta all’«Osservatore romano» una nota in difesa del partito cattolico centrista. Nota che però, a limitarne l’effetto, compare sul giornale della Santa Sede «come corrispondenza da Karlsruhe». E, in quanto tale, anonima. Pio XI avrebbe detto in quei giorni: «Hitler è il primo e unico uomo di Stato che parla pubblicamente contro i bolscevichi. Finora era stato unicamente il papa». De Gasperi, che pure da giovane era stato affascinato dal cristianesimo sociale (e antisemita) di Karl Lueger, appare sconcertato e segnala la «meraviglia» del cardinale Michael von Faulhaber per la circostanza «che nei circoli ecclesiastici di Roma si comprendesse così poco la perniciosità del movimento hitleriano». Secondo voci riferite da De Gasperi, Pio XI avrebbe confidato all’ex cancelliere della Repubblica di Weimar Heinrich Brüning la propria intenzione di condannare sia il fascismo che il nazismo (quasi un’anticipazione dell’enciclica Mit brennender Sorge). Ma Brüning, come nota la Sergio, non menziona quest’episodio nelle proprie memorie pubblicate nel 1977. Quando nel 1938 la Germania nazista annette l’Austria, De Gasperi annota il proprio stupore al cospetto di una dichiarazione dell’episcopato austriaco in favore dell’intervento hitleriano. E condivide questa sua ansia con «il solo cardinale Pacelli» e con Montini (futuro papa Paolo VI) che gli confida: «Così va perso il senso della Chiesa!». Poi, nel 1938, scrive che Pio XI avrebbe avuto parole di fuoco sia contro Mussolini sia contro Hitler.
Secondo la Sergio il diario di De Gasperi «non ci consegna alcun verdetto su Pio XI». Trattandosi di «annotazioni giornaliere, con un carattere di spontaneità e di immediatezza», esse...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Le verità nascoste
  4. Introduzione. Come si nasconde la verità
  5. I. LE VERITÀ INDICIBILI
  6. II. LE VERITÀ NEGATE
  7. III. LE VERITÀ CAPOVOLTE
  8. Conclusione. Il sano esercizio della dimenticanza
  9. Bibliografia
  10. Copyright