
- 272 pagine
- Italian
- ePUB (disponibile sull'app)
- Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub
L'uomo nero e la bicicletta blu
Informazioni su questo libro
È il 1963 in un piccolo borgo della campagna romagnola, dove il tempo sembra essersi fermato. Gigi ha 10 anni e a farlo sognare sono la bicicletta blu da ventimila lire vista in una vetrina, e che la sua famiglia non può permettersi, e la sua amica Allegra, figlia del direttore della banca da poco trasferito in paese. Il padre vende bestiame, ma gli affari vanno male, il nonno, reduce della prima guerra mondiale, impugna il fucile a ogni occasione e il diabolico fratellino Enrico riesce a spacciarsi per un angioletto e ad averle sempre tutte vinte. Gigi si inventa mille lavori per comprarsi l'oggetto dei suoi sogni, muovendosi in un mondo pieno di personaggi sgangherati, come il Carlino con il suo testicolo enorme, il "Morto" che, dato per defunto, era poi ricomparso tra lo sconcerto generale, e la vecchia "Tugnina", con le sue favole, invariabilmente concluse dall'Uomo Nero che si mangia tutti. Fino a quando, in un pomeriggio di ottobre, l'Uomo Nero esce dalle fiabe per porre fine alla spensieratezza dell'infanzia. E quel meraviglioso 1963 diventa l'anno in cui tutto cambia.
Domande frequenti
Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
- Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
- Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a L'uomo nero e la bicicletta blu di Eraldo Baldini in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Littérature e Littérature générale. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.
Informazioni
1
Agosto 2010
Fa così caldo che non riesco a combinare niente, tranne bere bibite, sudare e passare dal soggiorno alla camera per buttarmi stremato sul letto a guardare il soffitto. Non basta tenere porte e finestre ben chiuse: le dita del sole si intrufolano in ogni spiraglio e frugano nelle stanze, disegnando lame di luce nette e polverose. Devo mettere infissi migliori, mi dico. Devo decidermi a comprare un condizionatore.
È da stamattina che le cicale cantano senza sosta il loro inno di gioia: sembrano divertirsi un mondo quando ci sono quasi quaranta gradi all’ombra. Io invece soffro. Una volta il caldo mi era indifferente, adesso invece mi pesa, quasi mi spaventa.
In tivù non passa niente di buono, del resto di pomeriggio non c’è mai qualcosa da vedere. Non capisco perché si debbano mandare in onda trasmissioni per ventiquattr’ore su ventiquattro se non si riesce a proporne di decenti. È come se fossero proibiti o impensabili un po’ di pausa, un po’ di silenzio.
Sul comodino ho un libro che aspetta, ma sono arrivato solo a pagina cinquanta con grande fatica, perché mi annoia. Ancora una volta mi sono fidato, sbagliando, di una quarta di copertina che prometteva mari e monti. Oppure non riesco ad apprezzarlo perché fa troppo caldo anche per godere della lettura.
Sento che sto per addormentarmi e la cosa mi conforta. Sonnecchiare è un buon modo per far trascorrere le ore e arrivare alla fine di giornate simili.
Quando mi sveglio, istupidito e più stanco di prima, invece del frinire ossessivo delle cicale sento gli strilli dei rondoni. Il peggio è passato: quando quegli uccelli frenetici sfrecciano in voli fitti e caotici, gridando a squarciagola, significa che il sole è tramontato e che la sera sta arrivando a portare una tregua.
Sono stato nel mondo dei sogni per molto tempo, e mi sa che dovrò rassegnarmi a una notte in bianco. Per fortuna, a tarda ora, su qualche canale si riesce a trovare un buon film.
Vado in cucina, tracanno un bicchiere d’acqua e apro il frigorifero. È pieno e ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta, per la cena: non sono bravo a fare la spesa, finisce sempre che compro un sacco di roba in più. Ma di cenare non ho voglia. L’afa mi ha tolto l’appetito.
Guardo un telegiornale e dopo, per un po’, seguo svogliatamente un quiz. Poi esco e vado nel prato davanti a casa, mi siedo sulla vecchia e spartana poltrona da giardino che era del nonno e mi godo l’infittirsi del buio. I giorni si sono già accorciati un poco.
Potrei lavorare un paio d’ore: devo consegnare un articolo entro domani e ancora non l’ho iniziato. Respingo l’intento con un leggero senso di colpa misto a sollievo: quella di rimandare fino all’ultimo minuto è un’arte oltre che un’abitudine, per me.
Da una finestra del piano di sopra guardo il paese, le strade povere di traffico, le case dalle finestre accese immerse tra gli alberi, il campanile che si staglia nero contro un cielo che riflette stelle sbiadite e lampioni al neon.
I rondoni sono scomparsi, le loro scorribande non durano mai molto. Adesso sarebbe il momento di ascoltare i richiami dei rapaci notturni in caccia, o i versi acuti e brevi dei pipistrelli, ma c’è una musica a coprire ogni altro suono. Viene dallo spiazzo che si apre oltre la fontana: lì ogni sera, nella buona stagione, un gruppo di ragazzini si riunisce intorno ai chioschi. In uno vendono piadina e crescioni, nell’altro, più grande e contornato da tavoli e panche, cocomeri e meloni a fette.
L’appetito non è arrivato, ma un po’ d’anguria la mangerei volentieri. Non mi piaceva per niente, una volta, ma adesso l’apprezzo: mi riempie senza appesantirmi e allo stesso tempo mi disseta.
Cerco di vincere la repulsione e il fastidio per quella colonna sonora invadente, mi infilo le scarpe ed esco. Così faccio due passi e risolvo il problema della cena.
Quando arrivo, trovo troppa gente. Almeno per i miei gusti. Oltre a qualche coppietta e a famiglie con bambini che aspettano il loro turno per essere servite, ci sono una ventina di adolescenti che parlano ad alta voce e sussultano al suono della techno che prorompe, sgradevole, da un impianto allestito dal piadinaro.
Mi viene voglia di andarmene, sia per la folla che per quel suono aggressivo e incalzante, un bum-bum che mi vibra fin dentro lo stomaco.
Rimango per un po’ in piedi, indeciso, saluto qualcuno che conosco con un cenno del capo, poi rompo gli indugi e vado a sedermi nel posto più lontano dalle casse dello stereo. Viene una cameriera, dall’accento sento che non è italiana. Ordino una fetta di cocomero.
«E da bere?» mi chiede lei.
Da bere? Col cocomero, che è tutta acqua?
«Niente» rispondo.
Sembra un po’ delusa; forse le danno una percentuale sugli incassi.
Ne ho mangiata pochissima, solo la parte superiore e centrale della fetta. Non è buona, questa anguria, o se lo è non riesco ad accorgermene perché è troppo fredda. L’unica cosa che avverto è una specie di dolore sordo ai denti e alle gengive.
Spingo via il piatto. Lascia una scia umida sulla tovaglia di plastica che ricopre il tavolo. Subito arriva la ragazza di prima e mi chiede: «No piace? Vuoi melone?». Faccio segno di no con la testa. Il melone, se lo servono a questa temperatura, sarebbe ugualmente insapore.
Per fortuna i piadinari hanno cambiato la musica e ne arriva una meno fastidiosa. Hanno pure abbassato il volume, forse si è lamentato qualcuno dalle case vicine. Riesco ad ascoltare gli adolescenti che chiacchierano, ridono e bevono birra. Nessuno di loro parla in dialetto, e neppure predomina l’italiano. Da alcuni capannelli arrivano parole in lingue che non conosco. Potrebbero essere albanese e macedone, marocchino e russo, chissà. Il paese si è riempito di stranieri, come tutta la pianura.
Qualcuno storce il naso, più frastornato che infastidito per questa massiccia presenza di giargianís, come li chiamano i più anziani. Che poi non lo so, da dove derivi quel termine che sta tra lo scherzoso e il dispregiativo. So solo che tempo fa era riservato ai meridionali, adesso a coloro che vengono da ancora più lontano. Tutto sommato, comunque, quella con gli extracomunitari non pare una convivenza troppo difficile. Del resto i campi, le fabbrichette e le case vanno avanti solo perché ci sono loro, i giargianís, a lavorare come braccianti, badanti e operai. Pare che noi, gli indigeni, non le sappiamo o non le vogliamo più fare certe cose.
La cameriera non ha portato via il piatto; lo recupero e riprovo a mangiare il cocomero. È meno gelato, ma non è migliore di prima.
Come tutti i non giovani mi viene istintivo formulare una considerazione che più stereotipata di così non si può: non ci sono più i cocomeri di una volta. Quelli saporiti che raccoglievi caldi di sole dalla terra sabbiosa e secca dell’estate e che ti godevi sbrodolandoti la faccia e le mani. Altro che chioschi e piatti e coltelli di plastica.
Lo ripeto, una volta non mi piacevano, ma riesco nell’intento assai strano di rimpiangere persino un sapore che non gradivo.
Il fatto è che mi divertiva molto andarli a raccogliere, ecco. Dove raccogliere sta per rubare, ovviamente, come facevano tutti i bambini con ogni tipo di frutto. E non si trattava neppure di un furto vero e proprio: era una cosa normale, una specie di sport.
Questi pensieri mi portano alla mente un ricordo lontano, quello di un cocomero rubato e di un bambino che scorrazzava felice nei campi. Faccio un rapido calcolo: era l’agosto del 1963, dunque sono passati esattamente quarantasette anni. Ne avevo dieci e otto mesi, allora.
Una vita fa, anche se mi pare appena ieri.
Come faccio a essere sicuro che era proprio il 1963? Oh, non posso sbagliare, perché di quell’anno non mi sono mai dimenticato, né mi dimenticherò mai. Fu quello in cui ero innamorato di una bicicletta blu che costava troppo e di una bambina con cui mi pareva di non stare mai abbastanza. L’anno in cui le cose e la mia vita cambiarono, e di molto.
Di norma le persone non sanno dire qual è stato il momento preciso in cui hanno smesso di essere bambini e sono passati a un’altra età, diversa, più matura e più difficile. lo invece lo so. So che quell’agosto di quarantasette anni fa fu l’ultimo mese della mia infanzia, l’ultimo in cui la spensieratezza e l’ingenuità furono più grandi della dolorosa consapevolezza che dominò poi.
Per questo, e non tanto per il semplice ricordo di un cocomero rubato, partirò da lì a raccontarvi una storia che era iniziata da prima, come vedrete.
Dunque, era estate e faceva un gran caldo…
2
Agosto 1963
Faceva un gran caldo, ma di colpo fui attraversato da un brivido che mi gelò il sudore nella maglietta, perché la prima cosa che vidi, quando arrivammo, fu la macchina dei carabinieri. Era in mezzo al cortile e quasi ci sbattei contro: ero lanciatissimo sulla mia bici e per evitarla andai addosso al mio amico Francesco, che pedalava di fianco a me.
Frenammo e ci bloccammo lì, ansimanti.
«Ohi ohi!» disse lui.
Io non ebbi la forza di fiatare. Il cuore mi galoppava ai cento all’ora, e mica per la corsa in bicicletta. Era che da una settimana la sognavo tutte le notti, ’sta cosa: che venivano, mi prendevano e mi sbattevano in prigione, in una cella nera e umida come quella del Conte di Montecristo, e i miei genitori, quando una volta al mese me li lasciavano vedere, un po’ piangevano e un po’ imprecavano e cercavano di picchiarmi attraverso le sbarre.
«Dai» diceva Francesco, l’unico a cui raccontavo tutto ma proprio tutto, «sei piccolo, mica ti possono arrestare…»
«Sì che possono» rispondevo io. «Ci sono questi posti che si chiamano riformatori, i bambini li mettono lì, e quando diventano maggiorenni, se non sono morti prima di stenti, gli cambiano prigione.»
In quel momento, comunque, con i piedi piantati nella polvere già bollente nonostante fossero appena le nove di mattina e la sella che mi spingeva nelle palle raggrinzite dalla paura, non avevo più pensieri. Ero come una lampadina fulminata. Fissavo quella macchina e basta.
Francesco fece per scendere dalla bici, si grattò la testa, poi ci ripensò e disse: «Senti, io è meglio che torni a casa».
«Aghmlnft» dissi io.
«Eh?»
Ritrovai in qualche modo la parola: «Aspetta… non andare via».
«Ma io non c’entro con quella storia.»
Stavo per rispondere qualcosa, quando la porta di casa si aprì e uscì in cortile la mamma.
«Ah, sei qua» disse. «Allora, vi siete divertiti?»
Avevo dormito a casa del mio amico, perché la sera prima avevamo festeggiato il suo compleanno. E mi ero abbastanza divertito, o perlomeno distratto: era stata la prima notte in vita mia che avevo passato fuori casa, sempre che si possa considerare «fuori casa» una distanza di cento metri.
Francesco mi diede una gomitata e io mi svegliai come da un brutto sogno. Se la mamma mi parlava senza strapparsi i capelli o lanciarmisi contro per strangolarmi, voleva dire che forse i carabinieri non erano venuti per me.
«Cos’è successo?» le chiesi con una voce strana e strozzata.
«Che c’è, Gigi, hai mal di gola?»
Feci cenno di no.
«Stanotte ci hanno rubato una decina di polli.»
Tutta l’aria che avevo trattenuto nei polmoni mi uscì sibilando dalla bocca e dal naso, con una specie di fischio roco.
«Sei sicuro che non hai mal di gola?»
«No che non ce l’ho, sto benissimo. Ma c’era bisogno di chiamare i carabinieri, per due polli?»
«Non sono due, sono dieci; e poi chi dovevamo chiamare, il parroco? Mica che quelli là» disse la mamma facendo un cenno verso la zona dove c’erano il porcile e il pollaio, «servano a gran che. E da mezz’ora che parlano col babbo e c...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- L’UOMO NEROE LA BICICLETTA BLU
- 1. Agosto 2010
- 2. Agosto 1963
- 3. Dicembre 1962
- 4. Gennaio 1963
- 5. Febbraio 1963
- 6. Marzo 1963
- 7. Aprile 1963
- 8. Maggio 1963
- 9. Giugno 1963
- 10. Luglio 1963
- 11. Settembre 1963
- 12. Ottobre 1963 (prima parte)
- 13. Ottobre 1963 (seconda parte)
- 14. Ottobre 1963 (terza e ultima parte)
- 15. Dopo
- Copyright