Luglio 1698
La Mappa dei suoni segreti di Ohrdruf
Premessa: noi crediamo che tutte le cose al mondo abbiano un suono segreto,
non solo gli esseri viventi del Creato.
Scopo del gioco: comporre la Mappa dei suoni segreti di Ohrdruf.
Svolgimento: scoprire il maggior numero di suoni e appuntarli sulla Mappa.
Per i ragazzi del coro del liceo di Ohrdruf, tutto il mondo era riconducibile alle note musicali conosciute. E forse a qualcuna in più.
Tempo prima, uno di loro aveva trovato per caso, nel sottoscala che portava alla mensa, un grande foglio di carta pregiata olandese, carta costosa e molto rara da quelle parti. Su un lato erano appuntati in bella grafia scopo e regole di un gioco. Sull’altro lato, per tutta la grandezza del foglio, si apriva un disegno a pennino nero: una ricostruzione sorprendentemente accurata di Ohrdruf e dintorni. Vi erano segnati con precisione gli angoli, le vie, i ponti, i pozzi e i giardini, dalla piazza del Municipio alla chiesa di San Michele, dal monastero di San Bonifacio ai boschi limitrofi, nelle quattro direzioni cardinali.
La notizia della scoperta si era diffusa alla velocità di un fulmine. Il giorno dopo, tutti i ragazzi della corale si erano ritrovati attorno al grande foglio aperto, in cerchio, seduti sulle ginocchia, in preda a quel silenzio teso che precede i concerti. Erano in diciotto in quel momento: le migliori voci bianche del liceo.
Alla scuola latina di Ohrdruf solo i più bravi entravano nella corale, superando dure selezioni. Diciotto su trecento: farne parte era un vanto per pochi. La corale rappresentava la scuola, si esibiva a pagamento in matrimoni, funerali o in altre funzioni ufficiali. Per gli studenti le mance erano assicurate, soldi che andavano a sommarsi al piccolo stipendio annuale che il liceo passava a ogni cantore.
Questo gruppetto di ragazzi alti, magri, grassi, bassi, sdentati, coi primi peli in faccia, andava dagli undici anni del più giovane ai diciassette del più grande. Erano figli di povera gente, arrivavano dai villaggi nascosti tra i boschi e le basse colline della Turingia meridionale. Assomigliavano al resto degli studenti del liceo, tranne che per la giacca di colore verde scuro che portavano: la divisa ufficiale dei cantori del liceo di Ohrdruf. La portavano ogni giorno, sporca e logora, pur di mostrare agli altri che erano diversi, che erano migliori.
Tutti loro disprezzavano le sfide facili, quelle le lasciavano alle altre scuole. «Questa Mappa» si dissero «è un segno del cielo.» Da tanto non sfogavano il loro talento come avrebbero voluto. Erano ragazzi che per gioco trascrivevano in note le melodie dei corni del postiglione di passaggio o il canto degli uccelli migratori che si fermavano sulle sponde del fiume Ohra. Ma da troppo tempo si stavano annoiando. In quel momento, con gli occhi spalancati su quel grande foglio, quella Mappa arrivata coi fulmini di luglio sembrava segnare l’inizio di una nuova e fantastica sfida.
«È così semplice! Tutto ha un suono, e per giunta segreto: un suono solo per noi adepti della corale!»
«Come abbiamo fatto a non pensarci prima?»
Non stavano più nella pelle. Davanti a loro si apriva un mondo di cui avevano fino a quel momento ignorato l’esistenza: i muri, i tetti, le statue, i vicoli, gli alberi, le finestre, i tavoli, gli stivali dei fabbri, gli zoccoli dei cavalli di passaggio sul ponte del municipio. Ogni cosa prendeva vita, se imparavi ad ascoltarne il suono segreto. Il mondo assumeva la forma di un gigantesco spartito: i ragazzi della corale ne sarebbero stati gli esploratori e i custodi.
Si convinsero in un baleno che tutte le cose inanimate possedevano un proprio suono, come riportava il regolamento della Mappa. Non dovevano fare altro che aprire occhi e orecchie su quella stramba orchestra che ronzava attorno a loro. Era così semplice: qualsiasi cosa aveva un suono riconducibile a un’altezza e quindi a una nota finale, bastava percuoterla con le dita o con un bastoncino di metallo o di legno. Il loro orecchio perfettamente allenato ne avrebbe individuato la nota corrispondente, che sarebbe poi stata appuntata sulla Mappa segreta.
Ohrdruf era poco più che un grande villaggio, ma gli spunti potevano essere infiniti. Una strada poteva risultare intonata in fa maggiore, poiché l’insieme dei muri che la delimitavano riportava a quella tonalità. Poi c’erano le decine di case sul fiume. Quella del pellaio Lorenz, per esempio, avrebbero scoperto di lì a poco, suonava senza dubbio in sol minore. Sua figlia Catherina decisamente no, i ragazzi ne erano convinti. In molti avrebbero scommesso tutti i soldi del mondo che Catherina si muovesse in mi bemolle maggiore. E su quale fosse il suono della ragazza, i giovani esploratori si sarebbero ritrovati a discutere più e più volte sul far della notte, prima di coricarsi sui pagliericci duri e rumorosi del liceo.
Spinti da una curiosità senza limiti, due di loro giunsero a una scoperta che avrebbe aperto infinite giornate di discussione. Dalla sorgente della piazza principale, l’acqua sgorgava in una frequenza mai udita prima di allora. Era compresa tra il la – perfettamente uguale a quello della campana della chiesa di San Michele, che la corale usava come diapason ufficiale di Ohrdruf – e un si bemolle un po’ calante. Su queste frequenze, impercettibili all’orecchio di qualsiasi altro essere umano, il Comitato poteva dibattere per mesi, spingendo i cantori a chiedersi se non fosse il caso di aggiungere nuove note a quelle già conosciute.
Si domandarono spesso da dove fosse saltata fuori quella straordinaria Mappa, che avrebbe cambiato per sempre le loro vite, ma non riuscirono a venirne a capo. Di tanto in tanto spuntava qualche nome – alcuni fin troppo fantasiosi, come un certo Hallenz di Gotha, uno spilungone rossiccio che aveva impiegato ben tre anni per superare una certa classe – ma tutte le ipotesi evaporavano presto.
Con certezza si sapeva che era soltanto grazie a un provvidenziale intervento divino se la Mappa non era arrivata, in una domenica di Pasqua, tra le mani rugose e tremanti del professor Hoffmann, uno tra i più severi docenti di matematica che il liceo ricordasse. Sarebbe stata la fine: mesi e mesi di lavoro buttati tra le fiamme di un camino, e dolorose punizioni con la verga. A quale suono corrispondesse un lungo e nerboruto bastone di legno a contatto con le loro terga era forse uno dei pochissimi misteri che nessuno di loro avrebbe voluto svelare.
La Mappa non doveva per nessuna ragione cadere in mani nemiche. Così era passata per diversi nascondigli ed era giunta infine all’attuale, situato nello stanzino adiacente la cantoria, dove ci si riscaldava la voce prima delle esibizioni. Sollevando una piccola asse di legno dal pavimento, tra il retro dell’organo rovinato dai topi e il muro segnato dall’umidità, si poteva trovare il foglio arrotolato e chiuso con una striscia sottile di pelle rosso fuoco. Lì nessuno degli inservienti e dei professori sarebbe andato a curiosare.
Alla fine della prima riunione successiva al ritrovamento, tutto era già stato deciso. Quattro cantori anziani avrebbero formato il Comitato Reggente. Il Comitato deteneva la proprietà della Mappa, controllava settimanalmente l’andamento del gioco, decideva quali aggiunte di suoni scartare o premiare.
Il giovedì era il giorno perfetto per riunirsi. Nel pomeriggio, dopo l’ultima ora di catechismo, gli alunni del liceo di Ohrdruf erano liberi. Era quello il momento per infilarsi di nascosto in cantoria. Il Comitato raccoglieva i nuovi dati delle ricerche, scartava gli eventuali doppioni, segnava sulla Mappa i nuovi suoni e alla fine decretava il musicus dignus della settimana. Era questo un riconoscimento molto ambìto, un premio sognato per giorni: qualcosa che ti gonfiava il petto per un’intera settimana.
A quel tempo avevo sedici anni. Nel corso dell’estate mi trovai in seconda e la mia voce, precisa e non ancora mutata, mi aprì l’ingresso alla corale. Passai la selezione. Sul registro, di fianco al mio nome – Georg Erdmann – erano per il momento segnate solo due prove.
Venire a conoscenza della Mappa dei suoni segreti ed essere ammesso alle riunioni del giovedì fu un veloce rimedio al pesante carico di tristezza con cui ero arrivato a Ohrdruf, spedito dalla rassegnazione di mio padre. Mia madre era morta da poco. Ora, al lyceum, mi sentivo per la prima volta parte di qualcosa.
Dicembre 1697
In quel groviglio di case basse dalle piccole finestre a piombo sul fiume Ohra, Elias Herda arrivò a ventitré anni, una settimana prima della cerimonia per il suo insediamento.
Era partito lasciando di corsa la città di Jena e la sua prestigiosa università. Il cocchiere aveva puntato dritto a ovest, battendo le pianure della Turingia, a tratti innevate di fresco. A Erfurt avevano sostato la notte. L’indomani, lasciate alle spalle le mura di Gotha, Elias incominciò a scorgere le distese di boschi della sua infanzia. Tutto era immobile, tutto fermo al momento in cui se ne era andato: sospesa nel tempo, la piccola casa di Leina, dov’era cresciuto e che aveva lasciato diversi anni prima. Il mattino seguente, la carrozza riprese il viaggio più lentamente. Oltre ai quattro bauli carichi di libri di teologia e di musica, trasportava il clavicembalo a una tastiera appartenuto a sua madre, unico piccolo tesoro recuperato nella modesta casa di famiglia.
Non mancava molto all’arrivo, quelle erano terre nuove per gli occhi di Elias, che non si era mai spinto così a sud prima di allora.
Al tramonto del terzo giorno, la carrozza oltrepassò un ponte su un fiume dalle acque inaspettatamente nere, sfilò al fianco di una chiesa dalle forme anonime e si fermò.
Elias scese di fronte al portone di legno di un edificio a tre piani. Si guardò attorno. Il suo cuore, il cuore del giovane nuovo kantor del lyceum, smise di battere in quel momento: gli sembrò di aver raggiunto la peggiore delle destinazioni possibili.
Il presagio fu confermato nei giorni successivi. Lo sconforto inghiottì Elias. Gli sembrava di incontrare solo gente triste, spenta e, cosa a cui non era più abituato, maleodorante. A Ohrdruf la vita ruotava attorno alle concerie, messe una in fila all’altra sulle due rive del fiume. L’aria era pessima. Il villaggio era attraversato più volte al giorno da scie di odori immondi. Già immaginava che, d’estate, il mischiarsi di questi miasmi con le calde correnti da sud avrebbe trasformato la bella stagione in un vero inferno. Si chiedeva come gli abitanti potessero provare la minima gioia tra quelle vie strette e segnate dal puzzo.
Pensò a possibili vie di fuga. Aggrediva a piedi le strade in qualsiasi direzione, purché lo portassero fuori da quell’incubo, lontano da quel maledetto fiume nero. Non si voltava mai indietro. Solo nei boschi innevati, appena le sue narici e i suoi sensi si abituavano a un’aria sana, trovava il modo di calmarsi. Rallentando il passo, i pensieri potevano vagare liberamente, sospesi tra un futuro inimmaginabile e le pieghe di un passato che non riusciva a dimenticare.
Pochi decenni prima della nascita di Elias, una guerra senza fine aveva dimezzato la sua gente. Il mondo era esploso in mille pezzi, la parola di Dio tirata da una parte e dall’altra come una coperta. Dopo trent’anni di conflitto, metà della popolazione giaceva sotto terra e l’altra metà vagabondava tra una carestia e l’altra. In trenta, infiniti anni, non si sotterrano solo le persone, se ne vanno anche sogni e speranze: e ci vuole molto tempo per farli rinascere.
L’arrivo dei turchi nella vicina Ungheria era un ricordo ancora vivo sulla pelle di Elias. Aveva dodici anni quando la invasero, e nessuno poteva prevedere cosa sarebbe successo.
“I turchi potrebbero arrivare a Ohrdruf” si ritrovò a pensare con lo sguardo rivolto alle nuvole, così basse da toccare la punta dei pini. “Potrebbero essere la soluzione ai miei problemi. Sicuramente puzzano meno dei pellai.”
Quando, procedendo a passo lento sotto gli alberi carichi di neve, la calma si impossessava di ogni sua fibra, Elias volava col pensiero al suo recente passato, all’aria sana che aveva respirato a Jena e, prima ancora, a Lüneburg. Piena di alti palazzi dai tetti rossi e dalle grandi finestre, di chiese con organi nuovi e potenti suonati da grandi maestri, Lüneburg era la città in cui aveva iniziato la sua vera vita. Tutti nasciamo due volte, la seconda decidiamo noi dove: Elias diceva di essere nato a Lüneburg.
Vi era arrivato con una borsa di studio per la Michaelisschule, la scuola per ragazzi poveri. Nel suo villaggio di origine si parlava molto di quel giovane partito con in tasca il lasciapassare per un futuro diverso.
A Lüneburg si era buttato con ferocia negli studi: latino, greco, teologia, filosofia, geografia, storia e francese, lingua che stava diventando molto elegante e alla moda. Poi c’era la musica, per lui sopra ogni altra cosa. La musica lo spingeva verso l’assoluto, gli faceva vibrare l’anima. Al fianco dei compagni del coro della Michaelisschule, aveva imparato ad ascoltare anche il suo corpo: le spalle che si sfioravano, gli occhi chiusi nei pianissimo, i crescendo vibranti e i fortissimo che ribollivano tra le volte e sfondavano le pareti per raggiungere il cielo, su, sempre più su, la scossa dell’accordo finale, la scia del suono dell’organo che pareva durare in eterno, i sorrisi complici e la gloria di Dio nell’alto dei cieli. Formicolio sulla pelle che durava per giorni, da rivivere di notte, coricato nel buio della stanza. In quel buio, tutto e...