Il lago era calmo. Viola fissava la superficie leggermente increspata dal vento fresco. Settembre era già finito, eppure le sembrava di essere arrivata da poche ore.
Era stata proprio una pessima idea, quella di sua madre. Trasferirsi in un paesino con un nome che era tutto un programma: Sanguinara. Un posto dimenticato dal mondo e circondato da montagne perennemente avvolte da nubi grigie. Certo, lì era nato suo padre e c’era ancora la vecchia casa della sua famiglia, ma Viola non c’era mai stata prima del trasloco in agosto. E nemmeno sua madre.
E poi lì c’era quel lago dalle acque così scure… I vecchi lo chiamavano il Lago Scarlatto. Sulla sponda più a nord si affacciava il tozzo palazzo comunale, costruito nell’Ottocento, che scintillava coi muri imbiancati di recente su tutti i suoi tre piani e, alle sue spalle, il tetto appuntito della chiesa circondato da una serie di case altrettanto spigolose e irregolari. Molti altri tetti spuntavano poi attorno al lago, da nord est a nord ovest per tutta la lunghezza del paese.
Viola calciò un sassolino che saltellò lungo la riva. Un filo di vento le scompigliò i lunghi capelli scuri mentre posava le braccia sulla staccionata di legno a circondare il lago. Quando alzò lo sguardo, notò che il cielo si stava annuvolando. Niente di strano, la pioggia cadeva di continuo in quel posto.
Se glielo avessero detto anche soltanto a giugno, con la fine della scuola media, lei ci avrebbe riso a lungo. Pure di gusto. Invece eccola lì. A quattordici anni aveva cominciato da qualche settimana il liceo in un posto sconosciuto, con compagni sconosciuti.
Strinse le labbra. In realtà il liceo non era poi così male, i professori avevano fatto di tutto per non farle pesare le differenze con gli altri compagni. Solo che le differenze c’erano eccome. Perché lei non era soltanto l’ultima arrivata, quella che si era trasferita in quattro e quattr’otto a fine agosto in una casa chiusa da prima che lei nascesse. No, lei era soprattutto quella che portava sfiga, come le ricordavano spesso alcuni compagni… Era proprio per evitare loro che quel giorno, dopo l’ultima ora in classe, anziché precipitarsi a casa era corsa lì, sulla riva più lontana dal paese. Non si limitavano a prenderla in giro per farsi un po’ di risate in attesa che capitasse qualcosa di più interessante. Si credevano invincibili e terribili. A Viola facevano paura.
Tutto era iniziato il primo giorno di scuola, mentre visitava l’istituto guidata da un biondino di quarta niente male. Si trovavano nel seminterrato coi laboratori e il magazzino quando i neon si erano messi a sfarfallare mentre passava lei. Ma quella che sembrava una strana coincidenza, ben presto era diventata una gran rottura: nei giorni successivi anche altre luci avevano smesso di funzionare. Per non parlare della LIM, che nella sua aula era caduta ben diciassette volte! E, ciliegina sulla torta, c’erano stati strani incidenti pure con altri oggetti, che si rompevano all’improvviso, come le gambe delle sedie che si sbriciolavano dal nulla. Solo che succedevano sempre alle stesse persone.
Lei.
E i “Sempre insieme appassionatamente”, come li aveva soprannominati Viola. Ovvero Salvo, Angelica e Luca.
La ragazza sospirò. L’acqua del lago era così scura, quel giorno. Specie lì, sotto il grande platano secolare dove alcune foglie, dalla tipica forma simile al palmo di una mano, galleggiavano sul pelo dell’acqua.
Fu proprio perché si fissò sul colorito aranciato e rossastro di alcune foglie, che non se ne accorse subito ma, quando li sentì, era ormai troppo tardi.
«Gran bella felpa.»
Viola sussultò.
Eccoli, proprio davanti a lei, i “Sempre insieme appassionatamente”.
«Te lo volevo già dire in classe, ma sei andata via così di fretta…»
Salvo la squadrava dall’alto in basso, la bocca stretta in una smorfia di disgusto o forse in un sorriso.
«Certo che con quel sacco addosso rischi di finire nella raccolta indifferenziata!» le disse Angelica ridacchiando.
La ragazza, dritta sulla sua bicicletta, la fissava, con i capelli biondi lisci e perfetti sulle spalle. D’altra parte lei era il genio matematico dell’intero istituto, e non lasciava nulla al caso, neppure la pettinatura. Perfezionava ogni dettaglio anche del suo aspetto, a differenza di Viola, che quella mattina si era infilata la prima felpa che aveva trovato nell’armadio.
«Ehi, che fai?» intervenne Luca alzando la voce. «Aspetti che dei rami ti centrino all’improvviso?»
«O magari speri che capiti a noi?» aggiunse Salvo, incrociando le braccia al petto, seduto sulla bici sgangherata. «Da quando sei arrivata tu, qui ci succedono cose assurde… È colpa tua. Lo sai, vero?»
Viola scosse la testa. «Colpa mia? Intendi che lo faccio apposta? Tipo ridurmi i libri in coriandoli giusto prima delle mie interrogazioni… E la pertica anche, l’avrei sganciata io dal soffitto la scorsa settimana, per farmi quel meraviglioso volo di due metri? Così, per divertirmi. Davvero è questo che pensate?»
Per la rabbia aveva parlato in fretta, quasi senza respirare.
Con un balzo Luca scese dalla mountain bike nera a strisce argentate e la appoggiò alla staccionata di legno. Fece appena tre passi e già le era accanto, ma non la degnò d’uno sguardo. Invece si aggrappò a un ramo del platano e si mise a dondolare avanti e indietro, sempre più veloce.
«Dai Luca, piantala» sbuffò Salvo infastidito.
Viola piegò la testa di lato per osservarli meglio. Senza dubbio i lineamenti di Salvo erano più delicati di quelli dell’amico, era proprio un bel ragazzo. Ma Luca aveva ben due cose che non perdeva mai occasione di esibire: i muscoli e la forza. Era decisamente più atletico di molti altri lì nel liceo. E lo sapeva. Del resto Salvo era più carismatico e popolare.
«Quest’albero è qui da un sacco, reggerà senza problemi» disse Luca tra una spinta e l’altra.
A un certo punto mollò la presa e si esibì in un salto in avanti, dritto e preciso. Un atterraggio impeccabile. Viola voleva applaudire ma era impegnata a valutare, con la coda dell’occhio, le possibili vie di fuga. Non dovevano beccarla troppo presto. Angelica era ancora sulla sua bici dorata ed era la più vicina a lei, così Viola iniziò a fare piccoli passi indietro continuando a guardare il trio.
Luca sorrise. «Visto?»
Salvo scattò verso di lui, mollando la bici a terra. «Cos’è, una sfida?»
Angelica fissava i ragazzi, incuriosita dal loro battibecco. Intanto Viola indietreggiava, un passo alla volta verso il tronco del platano che superò, pian piano.
«Ragazzi, siete entrambi due gran fighi, okay?» disse Angelica. «Ma ora occupiamoci della nostra nuova…»
Chissà, forse voleva dire amica. Ma Viola si immaginava più qualcosa come vittima o preda. Perché era così che lei si sentiva. In ogni caso non aveva più importanza: ormai la ragazza correva a perdifiato lungo la riva del lago, sempre più lontano dal trio. Non le interessava se le erano già alle calcagna, non sentiva nulla a parte i suoi stessi passi sull’erba mentre le prime gocce di pioggia le colpivano il volto.
Le mancava il fiato ma non aveva intenzione di fermarsi, non ancora. Vide, riflesso sull’acqua del lago, il cielo che diventava sempre più scuro. L’avrebbero inseguita anche sotto la pioggia?
Si voltò a controllare, questione di attimi, ma fu un errore: non notò una radice proprio davanti ai suoi piedi e cadde rovinosamente, con la faccia a pochi centimetri dall’acqua. Era finita proprio dove s’interrompeva la staccionata attorno al perimetro del lago.
Per alcuni istanti la vista le si annebbiò, sentì sotto i palmi la terra già molle per la pioggia fitta. Mosse le gambe e un dolore alle ginocchia la fece piegare di lato.
L’acqua era proprio lì, davanti a lei. S’increspava mossa dal vento e dalle gocce.
Viola restò a guardarla come ipnotizzata.
Era così scura… No. Era proprio color del sangue.
Fu allora che la ragazza sentì salirle dentro un terrore incontrollato, proprio un attimo prima che qualcuno l’afferrasse per la felpa.