Parte prima
Il bar oltre il bar
Per due di noi questa storia inizia in un bar. Non è un bel bar; è anonimo nell’arredo e fa un caffè che, qui a Napoli, ottiene appena la sufficienza. I tavolini hanno tovaglie stinte che anche quando sono pulite non lo sembrano. Fuori, sul largo marciapiede, un gazebo dozzinale offre un riparo nelle giornate di pioggia o vento. È davvero brutto il gazebo, ma abbiamo scelto comunque di fermarci qui perché all’interno del bar i tavolini sono costretti in spazi angusti e ogni suono rimbomba. Con il tempo, poi, abbiamo convenuto che vedere la gente più diversa che ci passa accanto, per strada, non è male, che le sedute delle sedie del gazebo consentono di raddrizzare bene la schiena se si sta davanti a una tastiera per un po’, che quando si va a pagare si crea una sorta di piacevole rito grazie al cassiere che ha un suo garbo e che le cameriere addette al gazebo sorridono, mentre il tipo che serve dentro ha un caratteraccio. No, il bar non è bello, ma è vicino al luogo di lavoro di uno di noi. E, poiché tutti e due andiamo in giro dalla mattina presto, questo bar si colloca miracolosamente a uno di quei crocevia tra tempo e spazio che sono raggiungibili da persone come noi, che attraversano la città molte volte al giorno, guidati dal verbo «raggiungere». È il bar che ha scelto noi.
La prima volta ci siamo dati appuntamento al bar «per fare il punto», così ci siamo detti per telefono. Di quale «punto» si trattasse non era chiaro neanche a noi. E forse non voleva esserlo. Siamo due persone con una piccola differenza d’età, entrambe con moglie e figli già grandi. Abbiamo storie diverse per luoghi di nascita, famiglia, formazione e anche per pensieri sul tempo e le cose. Ci siamo incrociati molte volte, perché il paesaggio nel quale ci muoviamo è lo stesso. Ma non abbiamo mai militato nelle stesse organizzazioni politiche, sindacali o associative, e non abbiamo mai fatto parte di uno stesso giro di amici. Con l’andare del tempo, però, commentando le vicende della città e del mondo e le prospettive dei nostri mestieri di prossimità, abbiamo maturato – senza dircelo – una curiosità reciproca. Forse è questa che ci ha spinto a «fare il punto» la prima volta, e a scoprire così che, per le vie strane della vita, molti dei nostri pensieri sul tempo e sulle cose vanno forse convergendo, e che questo convergere tra pensieri che vengono da vite e costruzioni umane diversissime non sta capitando solo a noi ma a moltissimi, soprattutto tra chi si occupa di prossimità.
L’arte della quale parliamo per la prima volta al bar, in modo sorprendentemente libero, è quella del «raggiungere». Il verbo «raggiungere» ha il re che intensifica jungere, rafforzando così l’azione di «connettere», «portare insieme», «unire». Ma soprattutto – almeno noi lo sentiamo così – «affiancare annullando la distanza». Re-jungere nella città è un’arte di molti mestieri. Ma se – com’è per noi due – il mestiere riguarda l’attenzione alle persone, allora si tratta di un’arte per la quale il muoversi di qua e di là per la città per re-jungere significa portarsi in prossimità d’altri. E la prossimità è una condizione di radicale vicinanza: rimaniamo entità diverse, distinte, ma siamo davvero molto vicini. E quando si è davvero vicini all’altro da sé si capisce che la massima vicinanza possibile è quella con noi stessi. E così noi due – come tante donne e uomini che fanno il nostro mestiere – raggiungiamo altri nella stessa città, affiancandoli, e per farlo siamo chiamati ad accorciare notevolmente le distanze, quelle verso il prossimo e quelle dentro noi stessi. E, poi, siamo chiamati a distinguerci di nuovo, allontanarci, sorvegliare le differenti spinte che dentro di noi vorrebbero farci colludere o sovrapporre o imporre o rinunciare al confronto. Così, re-jungere, per quest’arte che condividiamo, significa ogni volta muoversi nelle nostre cose insieme a quelle altrui, rimescolando, promettendo, dialogando, negoziando, consumando e ridestando prossimità e distanza. In questo movimento saltano le gerarchie di posizione, argomento e temporalità. Si impone un’orizzontalità tra le persone e tra contesti, tempi e indirizzi. Viene avanti la forza del dialogare tra diversi, dello sconfinare tra situazioni, categorie, approcci differenti, del ribaltare convinzioni, equilibri, assetti acquisiti, certezze. In questo moto non è facile orientarsi. È un’arte ardita, che permette pochi schermi e che funziona meglio immergendosi nella materia viva anziché proteggendosi da essa. È un’arte, direbbe un nostro amico, Franco Lorenzoni, che non può consentirsi pigrizia o attesa ma ha bisogno di esagerazioni.
Per questo è un’arte intensa e bella ma che, se fatta bene, richiede fatica. Raggiungere, attraversando la città varie volte al giorno, la situazione cercata per respirarne l’aria e i molti movimenti interni. Permettere che l’una e gli altri entrino in consonanza con i propri, senza, tuttavia, farli combaciare, senza interpretare subito il senso, senza venire a conclusioni troppo semplici, senza imporre il proprio sentire, il proprio metro. Ci diciamo che questa è un’arte di comune costruzione con persone diverse, che è complicata perché richiede una particolare attenzione nell’uso del proprio spazio interno e del sistema di relazioni umane. Conveniamo che sono cose che si imparano, però, e la condizione per apprenderle è il nutrire la propensione al riconoscimento delle proprie parti in gioco, quelle buone e soprattutto quelle non buone o ancora oscure. Non è una propensione comune, ed è forse più femminile che maschile, il che richiede, per noi uomini, imparare a entrare in contatto con la nostra parte femminile. Per «sfornare questo pane» vanno allenate o forse allevate molte doti, ma soprattutto dubbio e disponibilità a mettersi in gioco, capacità di riconoscere gli errori. Ci diciamo che, con il tempo, si riesce a scorgere anche negli altri i segni di questo tipo di allenamento e che si eleggono a persone «più significative» – entro questo «lavorio civile» nel quale siamo immersi – quelle che, in tanti modi diversi, continuano ad allenare tali doti. Ci meravigliamo di queste comunanze. E, così, prima di concludere quel primo incontro al bar, decidiamo di condividere un appunto, di segnare le cose dette su una sorta di piccolo diario di bordo comune. Qualcosa di più di semplici parole chiave e qualcosa di meno di un verbale. Andiamo a pagare dal cassiere garbato, lasciamo la mancia alla cameriera. Ci salutiamo ripromettendoci di incontrarci una seconda volta. Non sappiamo affatto a cosa potrà servire questo «fare il punto».
La volta dopo siamo entrambi affaticati dall’agire quotidiano. Riusciamo a dirci che entrare nel senso delle cose che facciamo da anni, nel lavoro sociale ed educativo, richiede l’entrare in una costruzione non lineare, non preparata in partenza, in un’opera incerta, che va accolta come tale, dalla quale bisogna uscire insieme agli altri in qualche modo, ogni volta. È un processo fortemente oneroso, per ciò che riguarda sia le energie mentali sia quelle emotive, e non è detto neanche che si verifichi. Ci salutiamo. Ognuno, a modo suo, va a re-jungere. L’incontro tra educatori in periferia. La preside affranta. Il gruppo di insegnanti che hanno inventato una cosa buona. L’assessora che vuol far bene. Le pene e i dubbi del gruppo di giovanissimi migranti. Le maestre che chiedono, rivendicano, vorrebbero ma sono spaesate dalla scena educativa sempre più incerta. La piccola associazione che, per crescere, si deve inventare un nuovo fare che la mette in discussione, che la obbliga a rivedere abitudini e tradizioni. La cooperativa che è ora che cambi pelle anche se stenta a lasciare dietro quella vecchia. E – tutto intorno – la povertà e le disuguaglianze che mordono ferocemente, entrano nelle vite con cattiveria devastante, sconquassano la scena e mettono in pericolo ciascuna costruzione sociale possibile. Questo brutto bar si è saputo collocare all’incrocio di tutto questo. E ci si è presentato come un piccolo luogo intermedio e salvo, una sospensione – una epoché (ἐποχή) avrebbero detto i maestri antichi del dubbio e dell’attesa –, una sorta di rifugio passeggero dove ogni tanto potersi fermare per meglio capire il cammino.
Con il tempo questo bar è divenuto una consuetudine; le cameriere anticipano l’ordine e tolgono le tovaglie pulendo il tavolino, dopo averci sistemato in modo da facilitare il nostro lavoro. Anche tre verbi lo sono diventati, ripetendosi continuamente durante le nostre conversazioni, quasi parole-guida a un metodo costruito via via: dialogare, ribaltare, sconfinare. Alla luce di questi verbi abbiamo preso a scrutare, con sguardo più attento, questi anni di intenso lavoro sociale ed educativo e a interrogare il rapporto tra questo lavoro e la politica propriamente intesa – il governo della comune grande polis, nella città e ben oltre i suoi confini. Piano piano abbiamo condiviso un modo di procedere: incalzare il campo delle cose che sentiamo più faticose, dolorose, irrisolte. Lo facciamo imponendoci domande in modo impietoso, quasi cattivo, e anche portando l’uno all’altro statistiche, grafici, foto che ci dicano dello stato dell’esclusione in Italia, dai più diversi punti di vista. Così, gli appunti sono aumentati, creando pezzi di scrittura a una o a due mani, e hanno tessuto una trama. La trama non è definitiva e non vuole esserlo. Si va mostrando mentre viene avanti e lascia zone che non possono risolversi. Il bar rimane brutto. E forse sarebbe stato meglio cambiarlo, scegliendone uno che entrambi conosciamo, con tavolini di legno intarsiato, tazze di vera ceramica e un po’ di splendore residuo d’altri tempi: avrebbe forse fatto bene ai nostri discorsi e nutrito quell’idea di bellezza di cui ognuno ha sempre più bisogno. Una bellezza che però, in qualche modo, riusciamo a stanare anche nel nostro bar, all’apparenza sciatto e anonimo. Anche perché a volte, se si ha la pazienza di osservare con attenzione, si scopre che dai margini, dai luoghi non belli a una prima occhiata, la realtà si vede meglio. Per questo siamo rimasti fedeli al nostro tavolino, parlando e appuntando, ora sulla tastiera, ora su quadernetti neri. A portarci via, alla fine, è stata la pandemia.
Con l’aggravarsi della situazione abbiamo dovuto, come tutti, abbandonare gli incontri di persona. Le chiacchierate al bar si sono trasformate in chiacchierate davanti allo schermo di un computer. A una di queste chiacchierate abbiamo invitato Patrizia: le avevamo fatto avere gli appunti che via via avevamo messo insieme, con l’idea di ricevere un parere da una persona diversa da noi. Diversa prima di tutto perché donna. Poi perché molto più giovane di noi. Infine perché economista che non ha mai lavorato nel sociale, o nella scuola o con la povertà educativa, anche se su questi temi ha fatto ricerca. Ci accomuna, invece – oltre alla militanza nel Forum Disuguaglianze Diversità – il fatto di vivere nel Mezzogiorno d’Italia oggi: l’area con i numeri più alti d’Europa quanto a esclusione multi-fattoriale e che, tuttavia, ha le potenzialità per mettersi all’avanguardia dell’inversione della rotta continentale; un’area che concentra l’intera gamma di sofferenze proprie di un modello di vita economica e sociale che non tiene più perché esclude sempre più persone, soprattutto giovani e donne – tante donne, con mondi e potenzialità immense, lasciate fuori, colpite, in modo ripetuto, anche violento, insensato… – e poi artigiani con un sapere immenso ma senza eredi, operai di mezza età, tecnici senza arena dove crescere, anziani esclusi da una condizione di vita dignitosa. E tanti e tante bambini e bambine e adolescenti, con un futuro minacciato prima che arrivi, un futuro per loro doppiamente a rischio rispetto ai loro coetanei, perché alle situazioni critiche del pianeta si aggiunge l’ulteriore fardello della povertà che ne condiziona la vita, con prepotenza, all’avvio della vita stessa.
Ma forse la questione che ci ha indotto a coinvolgere Patrizia è un’altra ed è più profonda. Ha a che fare con la modalità stessa che – pur nella varietà e nelle differenze dei nostri percorsi di vita personali – ha sempre accompagnato l’approccio di entrambi con le persone, con il lavoro, con le istituzioni, con la politica. Un atteggiamento, un metodo basato sul dubbio, su un continuo domandare, sul non accontentarsi del consolidato, sulla persistente sensazione che il rischio più grande è quello di chiudersi in quel che già sappiamo e già conosciamo.
Fotografie e traiettorie
Edlir è un napoletano pakistano e oggi, nel 2021, dopo un mese è tornato a scuola perché finalmente ha un paio di scarpe nuove. Sembra una frase da libro Cuore e invece riguarda i nostri tempi. È la storia del quarto di cinque figli di una famiglia affaticata dalla continua rincorsa per arrivare a fine mese con dignità, che non sempre ha i soldi per comprare le scarpe ai figli. La famiglia di Edlir, come tante, a pochi mesi dal primo lockdown non ha più reddito a causa della perdita del lavoro – lavoro spesso in nero, atipico o sommerso – e che quindi non ha alcuna tutela perché non ha accesso ad alcuna forma di ammortizzazione sociale. E così le scarpe a Edlir le hanno comprate gli operatori e le operatrici, come regalo di compleanno, per permettergli di tornare a scuola senza il timore di essere preso in giro.
Chi si occupa di dati spesso non incontra le persone, non tocca con mano gli abissi e le speranze, le tenacie e le arrese, le vie strane, inattese, mutanti e multiple delle resilienze e delle disfatte, le paure di ogni giorno.
E chi, invece, si occupa dei cento e cento arcipelaghi cangianti della «sofferenza da esclusione multi-dimensionale» spesso non segue i dati che ne mostrano la magnitudo e la grande diffusione e si sente solo davanti alle vite faticose e ai destini da aiutare a cambiare. Oppure, semplicemente, è basito di fronte alla pochezza della politica, alla distanza tra le persone escluse, a cui è negato diritto di parola, e alle politiche pubbliche, che paiono mostrare anche consapevolezza della situazione, senza riuscire però a tradurla in atto, a «mettere a terra» progetti veri e propri.
Ma i dati servono, perché mostrano che il nostro paese – un paese ricco, che fa parte del G8 e possiede immense possibilità di sviluppo – è caratterizzato da diffuse condizioni di marginalità, vulnerabilità e assenza di opportunità. Le ultime stime dell’Istat per il 2020 ci dicono che la povertà resiste e si amplia: è in crescita sia in termini familiari (dal 6,4% del 2019 al 7,7% del 2020) che individuali (dal 7,7 al 9,4%): oltre 2 milioni di famiglie e oltre 5 milioni di individui non hanno accesso a un paniere essenziale di beni e servizi. La povertà è aumentata soprattutto nel Nord del paese (dal 5,8 delle famiglie al 7,6% in un anno) anche se il Mezzogiorno rimane l’area in cui la povertà assoluta è più elevata, coinvolgendo il 9,3% delle famiglie. Nel 2020, l’incidenza di povertà assoluta passa dal 4,9 al 6,0% tra le famiglie composte solamente da italiani, dal 22,0 al 25,7% tra quelle con stranieri, che conoscono una diffusione del fenomeno molto più rilevante e tornano ai livelli del 2018. Tra il 2019 e il 2020 si riduce la quota di famiglie con stranieri sul totale delle famiglie povere, passando da oltre il 30 al 28,7%: questo seppur limitato cambiamento si può imputare al considerevole incremento di famiglie povere composte solamente da italiani, che rappresentano circa l’80% delle 335000 famiglie in più che si contano nel nostro paese nel 20201.
La situazione delle famiglie povere si traduce, da tempo e con un evidente, marcato peggioramento, in un’allarmante crescita del numero di minori poveri. Infatti, in un paese con l’indice di vecchiaia tra i più alti del mondo – nel quale per ogni 100 bambini e ragazzini tra 0 e 15 anni vi sono 184,1 persone di età superiore ai 65 anni – e in gravissima crisi di natalità, con poco più di 9400000 persone sotto i 18 anni, il numero dei minori che vivono in povertà assoluta è più che triplicato, passando dal 3,9% del 2005 (primo anno da cui è disponibile questa serie storica) al 13,5% del 2020. Sono 1273000 i bambini, a fronte di 375000 nel 2008. Il 13,5% del totale di bambini e ragazzi non ha, insomma, i beni indispensabili per condurre una vita dignitosa. Sono 476000 nel Sud e 623000 al Nord, con un’incidenza sulla classe d’età, rispettivamente, del 14,5% e del 14,4%; sono 173000 al Centro (incidenza 9,5%)2. A questi bisogna aggiungere i minori in povertà relativa, una situazione certamente migliore ma comunque sotto la soglia di un grado accettabile di opportunità nella vita durante i decisivi anni della crescita. Sono 1924000 nel 2020 e anche questi minori sono drammaticamente aumentati, quasi raddoppiando dal 1237000 nel 2005. Così, i bambini poveri in modo ...