Non capita a tutti di avere un padre frate e una madre monaca. Ma, se è capitato a voi, dovreste sapere di essere in ottima compagnia. Proprio al figlio di una tale unione, infatti, è successo di diventare il creatore di opere immortali, un pittore fra i più ammirati della storia: è accaduto nell’Italia del XV secolo.
Erano un tempo e un luogo, quelli, in cui il destino di un individuo sapeva disegnare traiettorie serpeggianti, estrose e del tutto imprevedibili. Si poteva nascere (e morire) nelle maniere più sorprendenti. Un mazzo di multicolori spade di Damocle pendeva sulla testa di chiunque, tutto era costantemente provvisorio, solidamente precario, evanescente in pianta stabile. Cosicché a ciascuno poteva accadere, dopo essere stato partorito, abbandonato, adottato, ripudiato, accolto in casa d’estranei come un figlio, ceduto ad altri come un oggetto, di collezionare, nel corso di una giovinezza, parecchi genitori. Ma anche nessuno.
Quanto ai padri spirituali, poi, la situazione era ancora più disinvolta. Praticamente chiunque poteva aspirare al titolo di Santo Padre, a patto di provenire da una famiglia sufficientemente ricca e potente. La mancanza di vocazione non era d’ostacolo, e neppure la mancanza di titoli ecclesiastici: fino al 1513 – anno dell’elezione di Leone X – era possibile diventare papa senza essere sacerdoti. Anche l’aver sempre condotto una vita integralmente mondana non era un problema. Al punto che più d’uno poté vantarsi d’essere, letteralmente, “figlio del papa”.
A chi versava in una condizione disgraziata, invece, si presentavano opportunità leggermente diverse: si avevano alte probabilità di diventare frati.
Ed è appunto questo che successe a tal Filippo Lippi, figlio illegittimo del macellaio fiorentino Tommaso e di Antonia di ser Bindo Sernigi, morta di parto. Nelle sue burrascose vicende mi pare possano riflettersi i capricci e le stranezze di un’intera epoca. Seguiamolo dunque un poco.
Filippo ha appena due anni quando, per la precarietà di cui sopra, anche suo padre muore. Viene così consegnato alle cure di una zia dal nome poco rassicurante: monna Lapaccia. Costei lo cresce, ma solo fino agli otto anni. Poi delega l’impellenza ai frati carmelitani, e Filippo, a quindici anni, diventa frate carmelitano a sua volta. Sembra l’ineludibile procedere del destino, vero? Ma il destino, in tempi tanto incerti, ha pure lui ripensamenti, esitazioni e bruschi cambi di direzione. O forse potremmo dire che ognuno di noi ha molti e diversi destini, i quali lottano fra loro, e con colpi di mano si contendono la nostra vita.
Filippo ha diciott’anni quando nella chiesa del suo ordine, Santa Maria del Carmine in Firenze, arrivano a lavorare due pittori. Casualità carica di presagi: si chiamano entrambi come il suo padre naturale, Tommaso, o meglio – giacché si tratta di tempi sbrigativi e inclini alla brevità – Maso. Per distinguerli, visto che, come insegna la buona Lapaccia, si tratta di tempi in cui i nomi vengono spesso alterati con diminutivi, accrescitivi o dispregiativi, i due Masi diventano rispettivamente Masolino e Masaccio. Costoro, collaborando, daranno alla luce un’opera mirabile, destinata a cambiare la storia della pittura, e di cui converrà tornare a parlare più e più volte in questo libro: la Cappella Brancacci. Se vi sembra di non averla mai sentita nominare, probabilmente è solo perché, nel giro di un secolo, opere ancora più mirabili ne hanno eclissato la fama. Ma si tratta di un ciclo di affreschi ammirati e presi a modello da generazioni di artisti. Se posso usare una metafora un po’ brutale, la Cappella Brancacci è, più o meno, la Cappella Sistina del mondo precedente alla Cappella Sistina.
Sui muri spogli, a poco a poco, gli occhi di Filippo assistono al divampare di un capolavoro. Su una parete lo sguardo è avvolto da tinte luminose e dolcissime: rosa, azzurro chiaro, verde pallido; sull’altra campeggiano toni accesi, che fiammeggiano contro lo sfondo cupo. Le vedute sono fitte di particolari minutissimi, insignificanti e proprio per questo infinitamente reali e vividi, fra cui ci si perde fantasticando: sulle facciate di palazzi lontanissimi si vedono i panni stesi alle finestre, le gabbie degli uccellini, le scimmiette al guinzaglio che si sporgono dai davanzali; sulla strada, invece, più vicini, decine di ciottoli sparsi disordinatamente. Altrove il pittore ha avuto la pazienza certosina di dipingere un intero muro in scorcio rifinendone i mattoni uno a uno. E poi, lusso e abiezione: la crudele varietà del mondo. Un personaggio sfoggia un turbante scarlatto e una favolosa veste damascata; poco lontano, uno storpio chiede la carità, gettato in terra. Figure che irradiano un’immensa energia, serena o tempestosa: il Battesimo dei neofiti – nudi maschili dai muscoli torniti, definiti con un realismo anatomico impensabile fino a quel momento: persino i crocefissi di Giotto, in confronto, sembrano esangui astrazioni – e la Cacciata dal Paradiso – con la terribile potenza espressiva di Eva che piange, il viso verso il cielo, gli occhi e la bocca come tre ferite nere.
Ma il capolavoro non sfugge alla legge della precarietà. E in questi tempi difficili cammina a fatica, barcollando, come sul ponte di una nave nella tempesta. Ad appena un anno dall’inizio dei lavori, Masolino, per ragioni che a oggi non conosciamo, abbandona l’opera e se ne va – nientemeno – in Ungheria. Masaccio continua a lavorare da solo; eppure, proprio in quella difficile condizione, la sua maestria si innalza. In breve la sua fama oscura quella del più anziano collaboratore, riceve raffiche di richieste da committenti diversi. Tenta di accontentare un po’ tutti, tenendo i piedi in più staffe, ma non è facile lavorare con continuità. Interrompe e riprende il lavoro più volte. Si sposta: Firenze, Pisa, Firenze, Pisa, Roma, Firenze. E infine, prima di avere completato la Cappella Brancacci, muore a Roma, a soli ventisette anni, d’improvviso e per cause che oggi non è possibile stabilire. Per darvi la misura dell’incertezza: alcuni dicono ammazzato dai banditi, altri avvelenato da colleghi invidiosi, altri, più prosaicamente, per una tonsillite.
Ecco un’altra storia comune in quest’epoca e in quelle che a breve seguiranno; equilibri incerti; committenti che si ostinano a irretire gli artisti più abili anche se sono già impegnati; artisti che accumulano commissioni, smaniosi di gloria o di ricchezze, la vita sempre appesa a un filo. Il risultato lo vediamo ancora oggi: una miriade di opere incompiute.
Ma torniamo al nostro Filippo. Vede creare dal nulla la Cappella Brancacci, si diceva. Ora, la bellezza è come un seme o un fuoco: può mettere radici e germogliare, oppure no. Può attecchire e propagarsi, oppure no. Il giovane Filippo è una zolla di terra grassa e fertilissima, un pugno di stoppie molto aride: in lui il seme dirama e il fuoco divampa, e gli devia il destino. Due anni dopo la morte di Masaccio viene già definito dai documenti “dipintore”. Nelle sue prime opere imiterà palesemente l’artista che tanto ha ammirato. Dopo il macellaio Tommaso, la zia Lapaccia, i frati carmelitani, Masaccio è per lui un ennesimo padre; forse, tutto sommato, il più decisivo. I suoi contemporanei dicono qualcosa di ancora più radicale e commovente sul loro rapporto: che lo spirito di Masaccio è entrato nel corpo di Filippo.
Il quale, senza smettere ufficialmente di essere frate, si prende nel frattempo la libertà di vivere, per più di un dettaglio, al modo dei laici. A trentatré anni non abita più in convento, ma in una casa, e la sua condotta ha fatto sì che ci lasciasse, oltre ai suoi incantevoli dipinti, due episodi piuttosto notevoli, due storie che hanno finito per plasmare il senso della parola “artista” in quell’epoca.
La prima storia è questa. Filippo ha un’età non precisata, probabilmente qualche anno sotto i trenta. Un giorno va a farsi un giretto in barca con alcuni amici, ma incappa in un contrattempo piuttosto antipatico. La loro imbarcazione viene assaltata da una nave di pirati africani. La gioviale combriccola di toscani, con fratacchione artista al seguito, viene presa, messa in catene, deportata nel continente nero e i suoi singoli componenti vengono venduti al mercato come schiavi.
Ecco, ad alcuni di voi l’idea che un bianco possa essere deportato come schiavo in Africa potrebbe sembrare un curioso rovesciamento delle consuetudini. In tal caso, vi rassicuro: al tempo si trattava di un fenomeno abbastanza comune. Ora, mentre Filippo è prigioniero da qualche parte nel regno dei berberi, accade (o si dice che sia accaduto) un fatto che ha indubbiamente il sapore della leggenda. Un giorno prende un carbone dal camino spento e con quello traccia su una parete bianca un ritratto del suo padrone. Gli astanti rimangono a bocca aperta: non solo perché non sono abituati a vedere dipingere figure umane con tale abilità; ma anche perché, in quanto musulmani, non sono abituati a vedere ritrarre la figura umana. Lo stupore corre di bocca in bocca, finché la novità giunge anche alle orecchie del diretto interessato, che accorre sul luogo. Sorpreso e ammirato, da quel momento il padrone prende a trattare Filippo con tutt’altra attenzione, e di lì a poco, per dimostrargli la sua stima, gli concede la libertà. Così il giovane frate, diciotto mesi dopo la cattura, se ne torna in Italia.
Ora, non possiamo sapere cosa ci sia di vero in questo racconto. A essere rigorosi, non possiamo neppure escludere che Lippi sia un fantasmagorico bugiardo, ma il punto è un altro: nel racconto, uno schiavo ottiene, grazie all’arte, il rispetto e la stima del suo padrone, e successivamente persino la libertà. Questa storia è destinata a conficcarsi nell’immaginario degli artisti nati dopo Filippo: da qui in poi, potrà accadere che un artista discuta alla pari con i propri committenti, con chi lo tiene a libro paga, con coloro che sono a tutti gli effetti, sulla carta, i suoi signori. Accadrà che abbia l’ardire di litigare con loro. E persino che osi trattare questi facoltosissimi finanziatori e protettori alla stregua di noiosi rompiscatole, buoni solo a fargli perdere tempo prezioso.
A questa prima storia se ne aggiunge poi una seconda.
Fra’ Filippo, ormai cinquantenne, si trova nel monastero di Santa Margherita a Prato per dipingere una tavola: la Madonna della cintola. Di che si tratta? È presto detto. La Vergine Maria muore (o sembra morire, cadendo in un sonno profondissimo), dopodiché viene sepolta e assunta in cielo, anima e corpo. Resta però da convincere l’incorreggibile san Tommaso, il quale, nel dubbio, si reca al sepolcro e lo scoperchia. Miracolo! Il corpo della Madonna è sparito: resta solo, residuo e reliquia, la cintura che portava ai fianchi; una bellissima cintura di pelo di capra, verdolina e broccata in filo d’oro. Da allora, secondo la tradizione, il santo oggetto passa di mano in mano finché giunge proprio lì, a Prato. È questo che Filippo Lippi deve dipingere: la Madonna in trono che porge la cintola a san Tommaso inginocchiato, mentre altri santi assistono alla scena. Fra questi santi, ovviamente, va inserita santa Margherita, patrona del convento, ritratta in piedi mentre tiene benevolmente la mano sul capo della committente, tale suor Bartolomea dei Bovacchiesi, devotamente inginocchiata.
Per dipingere nel migliore dei modi la santa, Lippi chiede di avere una modella. E la trova facilmente: è una monaca di quello stesso monastero. Si chiama Lucrezia del Buti, ha ventidue anni, è bellissima e infelice. Non avrebbe voluto farsi monaca; l’hanno costretta da bambina. La sua storia assomiglia a quella di Filippo e fra i due nasce un sentimento di empatia, poi di confidenza, poi qualcosa di più. In breve si innamorano e decidono di fuggire insieme. Certo, serve l’occasione giusta. Occorrerebbe approfittare di un momento di trambusto, in cui le monache siano distratte. E l’occasione si presenta: è – atroce ironia – proprio la processione della sacra cintola (evento, a quanto pare, particolarmente vorticoso e caotico).
Scomparsa Lucrezia e dileguatosi l’artista, alle religiose di Santa Margherita rimane il dipinto; che è bellissimo, salvo per l’imbarazzante dettaglio della svergognata immortalata nei panni della santa protettrice, che accarezza con fare materno l’austera committente, suor Bartolomea.
Ecco, questo è un altro fatto fondamentale. Dietro ogni dipinto ci sono almeno due storie che si sovrappongono e si alternano, con strane e involontarie interferenze: quella del soggetto rappresentato, remota e solenne – tratta dalla Bibbia, dall’agiografia o dal mito – e quella che riguarda la creazione dell’opera: i rapporti di amore e odio fra il committente, l’artista, le donne e gli uomini raffigurati come modelli, gli aiutanti del pittore, i suoi rivali. Spesso questa seconda storia non è meno avvincente della prima.
Per esempio, torniamo alla Cappella Brancacci: che ne è stato, nel frattempo? Per diversi anni, l’opera non solo non avanza, ma retrocede. Nel 1436, quando Filippo Lippi è da poco tornato dall’Africa, la famiglia Brancacci si inimica Cosimo de’ Medici e viene esiliata da Firenze. Si tenta di cancellarne la memoria, di strappare loro ogni onore. Così i volti dei suoi membri, ritratti fra i personaggi di contorno, vengono scalpellati via dalle pareti.
Tutto rimane fermo fino al 1480, cinquantasei anni dopo l’inizio dei lavori, quando i Brancacci, finalmente rientrati a Firenze, cercheranno un pittore per ultimare la Cappella. Serve un artista di prim’ordine, ovviamente, che sappia affiancare le proprie pitture a quelle di Masolino e, soprattutto, di Masaccio. Chi sarà all’altezza di un simile compito? Chi assumerà sulle sue spalle il peso di un tale confronto? Un artista fra i più rinomati del tempo: Filippino Lippi, figlio del frate Filippo e della monaca Lucrezia Buti.
Ecco, io tutte queste cose ve le racconto con un misto di commozione e divertimento, come chi illustri un mondo tanto sorprendente da non sembrare vero. Una certa enfasi mi viene spontanea.
Non vorrei, però, trarvi in inganno. Le cose davvero notevoli devono ancora cominciare. Quello che ho appena descritto è semplicemente lo sfondo della nostra storia, la parete neutra su cui il quadro si staglierà, l’asettico vetrino che contiene la stranezza da scandagliare al microscopio.
Stiamo per osservare due esseri umani la cui vita può considerarsi una specie di gioioso enigma o di oscura festa, la cui esistenza è stata una sfida al buon senso e una zuccata sul naso della ragionevolezza. Due uomini, insomma, in confronto ai quali Filippo e Filippino Lippi rappresentano una specie di normalità.
Le cose sono confuse fin da subito. Da dove cominciamo? Dal nome? E sia, cominciamo dal nome.
Leonardo da Vinci. Vale a dire: Leonardo (nome di battesimo), da Vinci (provenienza). Ma qual è il cognome? Il pittore universalmente noto come Antonello da Messina, per esempio, di cognome faceva D’Antonio, quindi il suo nome completo era Antonello D’Antonio da Messina.
Nel caso di Leonardo, invece, il cognome non esiste. Ai tempi, d’altronde, non tutte le famiglie avevano un cognome, anche perché le anagrafi verranno istituite oltre cent’anni dopo. Tuttavia, al giorno d’oggi Da Vinci, con la D maiuscola, è un cognome vero (in Italia lo portano quasi una decina di famiglie) e, quando Leonardo si trasferirà a Milano, un poeta di corte, tal Bernardo Bellincioni, scriverà di lui chiamandolo “Leonardo Vinci, il fiorentino”. Dunque nel suo caso cognome e provenienza non hanno una distinzione netta, ma tendono a fondersi, a sfumare l’uno nell’altra.
Il padre di Leonardo, ovviamente, ha lo stesso problema. Si chiama Piero da Vinci ed è una personalità di rilievo, un ricco notaio. Con la precisione tipica dei notai, allora, nei contesti in cui ha paura di essere confuso con un altro Piero, sempre originario di Vinci, specifica anche il nome di suo padre: si firma spesso ser Piero di Antonio da Vinci, e indietreggia di una generazione ogni volta che il timore di ambiguità avanza. Fino al mirabolante “Ser Piero di Antonio di ser Piero di ser Guido da Vinci”.
La madre, invece, si chiama Caterina. E, se gli studiosi odierni non s’ingannano, ha un cognome che abbiamo già incontrato: Lippi. La sua è la solita storia di permanente impermanenza. È rimasta orfana a quattordici anni; deve badare alla sua sopravvivenza e a quella del fratellino più piccolo. Ha solo quindici anni quando a Vinci incontra, non sappiamo come, ser Piero, allora venticinquenne già ricco e affermato. Rimane incinta di lui, ma la distanza sociale è tale da escludere che i due possano sposarsi. Il giovane notaio è destinato a ben altre nozze, e un matrimonio “riparatore” guasterebbe troppe cose. Così Piero non riconosce il bambin...