Enrico distoglie per un attimo lo sguardo dalla strada, cerca il pulsante del condizionatore e lo preme. Il ronzio cessa.
«Perché hai spento, papà ?» gli chiede Andrea. «Fa caldo.»
L’uomo sorride, abbassa i finestrini della station wagon e l’aria irrompe e mulina dentro l’abitacolo. «È un caldo buono, profumato. Lo senti?»
Il bambino si stringe nelle spalle. Annusa odori, più che profumi, un misto di sentori sconosciuti.
Guarda fuori. La luce è forte, quella di un pomeriggio d’estate. Forte e gialla. La macchina corre in un mare di grano. Lui non ha mai visto una distesa simile, dorata, accarezzata da un vento secco che la fa muovere come se fosse davvero la superficie di un oceano strano, creato da uno di quei pittori che si divertono a cambiare i colori, a trasformare la realtà con la fantasia e l’estro di un’idea, di un momento, di un’allucinazione.
La strada deserta si srotola davanti a loro, stretta, come se si fosse fatta minuscola per non disturbare le piante, vere dominatrici di quel mondo.
Enrico rallenta, si rilassa sul sedile, si sgranchisce le vertebre del collo. «Siamo quasi arrivati» dice.
«Quanti papaveri!» osserva suo figlio. «E poi ci sono anche quei fiori piccoli, sembrano margherite dai gambi alti.»
«È camomilla, quella.»
«Camomilla? Qui?»
L’uomo sorride. «Perché, credevi che nascesse nei banchi del supermercato?»
«No, ma… non so, pensavo che venisse dall’estero, da lontano. Come il caffè o il tè.»
«Sei proprio un cittadino, un cementaro.»
«Cementaro è una parola che hai inventato tu.»
«Vabbe’, però rende l’idea. La campagna praticamente non la conosci, e non sai cosa ti perdi. Hai visto quanto è bella?»
«Sei tu che non mi ci porti.»
Enrico annuisce. È vero, non ce lo porta. Andrea ha undici anni e conosce bene solo la città , e il mare, dove di solito vanno in vacanza. A Lancimago non c’era venuto mai; e dire che le sue radici sono qui. Qui dove sono nati suo padre, suo nonno, il suo bisnonno e chissà , nei secoli, quante generazioni di antenati prima di loro. Qui dove Enrico torna ogni anno, al tempo della mietitura.
Da solo, finora.
Davanti all’automobile compare una sorta di banco di nebbia e dai campi viene un rombo costante, alto. Andrea si rizza sul sedile per guardare meglio; intravede, in mezzo a quella nube densa, il muoversi di una forma maestosa.
Suo padre indica con la mano. «Guarda, eccone una!»
Hanno cominciato.
«È una mietitrebbia?»
«Sì. È enorme, vero?»
«Accidenti! Fa un sacco di rumore e di polvere. Ma taglia tutto, anche i papaveri, la camomilla…»
Enrico ride. «Qualche fiore va bene che ci sia, nella farina. Profuma il pane.»
«Davvero?»
L’uomo finge un pugno leggero alla spalla del figlio. «Dai, scherzo. La mietitrebbia fa un po’ di confusione, è una specie di gigante menefreghista che non va per il sottile. Non vede i nidi, ad esempio.»
Andrea si gira di scatto verso suo padre. «Ci sono nidi di uccelli, là in mezzo?»
«Qualcuno.»
«E che fine fanno?»
«Vengono distrutti.»
Il bambino continua a fissarlo, in attesa di una smentita. «Davvero?»
«Non ci si può fare niente, Andrea.»
Il piccolo torna con lo sguardo al colosso di ferro urlante. All’inizio gli era sembrato bellissimo, quasi un robot dei cartoni animati, ma ora ne segue l’incedere con diffidenza. Il rullo dentato divora le spighe, abbatte e ingoia tutto quello che trova sul suo cammino. In alto, in una cabina, il conducente pare impegnato a cavalcare uno smisurato, deforme e feroce granchio metallico che mulina all’impazzata le chele fameliche, incurante dei papaveri rossi, degli uccelli che dimorano nel fitto, di qualunque cosa viva abbia la sventura di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Lui li odia, i granchi.
Enrico sembra intuire le sensazioni del figlio. «La mietitrebbia è stata una grande invenzione» dice. «È veloce e svolge il lavoro di cento uomini. Io non l’ho mai visto fare, ma prima si mieteva a mano, con le falci. Un’operazione massacrante, lunga, nel caldo.»
Andrea resta in silenzio. Dal lunotto lancia un’ultima occhiata al mostro meccanico che scompare in dense volute di polvere, poi torna a guardare davanti a sé.
Ogni tanto il giallo lascia il posto a riquadri verdi di piante alte quanto un uomo, disposte fitte in file ordinate, come battaglioni di soldati schierati per un’ispezione.
«Quello è granturco» dice Enrico. «E quello là è un frutteto. Peschi» aggiunge indicando una distesa di alberi, anch’essi inquadrati in modo perfetto.
«Tu le conosci tutte le piante, vero, papà ?»
«Sono nato e cresciuto qui, io. Ma non è vero che le conosco tutte: prima ho visto qualche appezzamento di roba che non so cos’è, che una volta non si coltivava. Forse è soia, o sorgo; sono quasi sparite le barbabietole e sono arrivate cose nuove.»
Ai lati della strada cominciano a infittirsi le fattorie e compaiono le prime case del borgo. Dopo chilometri di nulla, ad Andrea fa effetto vedere lo spiazzo di un distributore, che in città non avrebbe notato di certo. Poi un grande negozio che all’esterno espone tosaerba e trattori, una pizzeria con le saracinesche chiuse, un’officina meccanica. Infine il paese vero e proprio, un migliaio di abitanti o poco più. Linde e pretenziose villette contrastano con gli edifici più vecchi, file di case attaccate l’una all’altra, sulla via che taglia l’abitato come prima tagliava le distese del grano.
«Lì c’era un campo di cocomeri, quand’ero piccolo» dice Enrico come a se stesso indicando il parcheggio della Coop. «E là dove ci sono quelle palazzine era tutta vigna, la vigna dei Benelli. Si è ingrandito, questo posto. Si ingrandisce ogni anno di più; credo ci sia gente di città che viene ad abitarci.»
Ad Andrea invece pare piccolo, piccolissimo. Non sa immaginare come doveva essere quando suo padre era bambino. E non sa come sia viverci, in un posto così.
«Ho sete» dice.
Enrico rallenta. Procede ancora per una cinquantina di metri, poi svolta in una laterale e subito dopo in uno spiazzo sterrato, segnalato dall’insegna di una marca di caffè e ombreggiato da tigli enormi. Il bar ha diversi tavolini fuori, occupati soprattutto da vecchi che leggono il giornale, chiacchierano o semplicemente se ne stanno lì a far passare le ore del pomeriggio. Sotto un albero, quattro ragazzi giocano a biliardino.
Padre e figlio scendono dall’auto e si avviano all’ingresso. Andrea calca i passi, gli piace il rumore della ghiaia sotto le suole.
«Medri!» esclama una voce.
Enrico si gira e sorride a tre uomini seduti a un tavolo. «Ehi!» risponde. Sfila una banconota dal portafoglio e la porge ad Andrea. «Va’ a prenderti da bere. Io saluto questi vecchi amici.»
«Tu non vuoi niente, papà ?»
«No, a posto.»
Il bambino entra nel locale. Un televisore appoggiato su una mensola parla al vuoto; dietro il bancone, una donna grossa di mezza età si fa vento con una rivista. Un frigorifero per i gelati ronza all’unisono con le mosche.
Chissà se ce l’hanno, la Fanta, in un posto così.
Quando esce con l’aranciata in mano, suo padre è seduto al tavolo con gli amici. Parlano, ridono. In alto, nascoste tra i rami, le cicale intonano una sinfonia ipnotica e pigra.
«È il tuo ragazzo, questo?» chiede uno degli uomini guardandolo.
«Sì. Mi somiglia, vero?»
«Per niente. Chissà di chi è…»
Ridono ancora.
Andrea si gira, a disagio. Va verso il biliardino, finge di interessarsi alla partita. La palla schiocca, gli ometti rossi e blu scattano in movimenti frenetici, i quattro giocatori gridano e si accalorano. Sono di qualche anno più grandi di lui e non lo degnano di uno sguardo.
Spera che suo padre si sbrighi con le chiacchiere, non gli va di fermarsi troppo a lungo.
Finalmente Enrico saluta, stringe mani e ripartono.
Ancora qualche casa, un magazzino di sementi e concimi, e il paese è finito. Di nuovo grano, e alberi, e canali con l’acqua ferma coperta di una patina verdastra. C’è odore di campi, di fieno, di letame. Andrea cerca di guidare al meglio i propri sensi in mezzo a quell’accavallarsi di colori e sentori per lui inusuali.
La strada si fa più stretta, e quando incrociano un trattore gigantesco devono accostare a un lato, con le ruote che salgono sul ciglio erboso di un fosso.
Poi, qualche centinaio di metri oltre un mulino che pare in abbandono, Enrico svolta in una carraia piena di buche. L’auto sobbalza e solleva dietro di sé un nuvolone di polvere.
«Dove andiamo?» chiede Andrea.
«Dalla Lina.»
«È lì che mi devi far vedere quella cosa importante?»
«Lina è la mamma di Billo, un mio amico di quand’ero piccolo.»
Non gli ha risposto a tono, e Andrea è interdetto. Sono giorni che, quasi in segreto, suo padre gli accenna a qualcosa che deve fargli sapere e conoscere lì, a Lancimago, muovendogli dentro una curiosità che piano piano, in quel pomeriggio caldissimo e accecante, ha co...