Odio la resilienza
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Odio la resilienza

Elogio della resistenza

  1. 204 pagine
  2. Italian
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Odio la resilienza

Elogio della resistenza

Informazioni su questo libro

Si fa un gran parlare di resilienza. Viene descritta come la virtù dell'uomo che ha capito come va il mondo. Nulla può spezzare il resiliente, perché è capace di assorbire qualsiasi colpo e resistervi, come il metallo regge l'urto e riprende la forma originaria. Tutti i media ne parlano in questi termini, ricorre nei discorsi dei governanti, abbonda nelle narrazioni sulla collettività. Ma la resilienza è una favola, ci dice Diego Fusaro. Una fiaba della buonanotte cantilenata al fine di stordirci e farci assopire. È un incubo che minaccia il nostro futuro.
L'uomo resiliente è il suddito ideale. Si accontenta di ciò che c'è perché pensa che sia tutto ciò che può esserci. Non conosce nulla di grande per cui lottare e in cui credere. Ha abbandonato gli ideali e vivacchia convincendosi che il suo compito, la sua missione, sia di accettare un destino ineluttabile. Anzi, viene portato a pensare che proprio nella passività possa dare il meglio di sé.
È storia vecchia. Da sempre chi ha il potere ci chiede di subire in silenzio, di sopportare con stoica resilienza per poter agire indisturbato. Ma in questi anni ce lo chiede ancora di più: il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza di Mario Draghi ne è un esempio lampante, ma già nel 2013 il «dinamismo resiliente» era la parola d'ordine del World Economic Forum. Perché, certo, la resilienza è un profilo psicologico, ma anche un atteggiamento politico. I cittadini sono chiamati a fare propria la virtù dell'adattarsi senza reagire alle storture invocando il cambiamento. Non è forse il sogno inconfessabile di ogni padrone quello di governare schiavi docili e mansueti? Eppure "vivere vuol dire adoperarsi per cambiare il mondo con i propri pensieri e con le proprie azioni" scrive l'autore: una vera e propria chiamata alle armi. "Riprendiamoci le nostre passioni annichilite da questa docilità. Frangar, non flectar."

Domande frequenti

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1

Homo resiliens

Il mondo nuovo è un unico campo di concentramento che si crede un paradiso, non essendoci nulla da contrapporgli.
T.W. Adorno, Prismi

Odio i resilienti

Sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?
A. Gramsci, Odio gli indifferenti
Odio i resilienti. Non meno di quanto Antonio Gramsci, nel 1917, odiasse gli indifferenti. Ritengo che vivere voglia dire adoperarsi per cambiare il mondo, ogni giorno, con i propri pensieri e con le proprie azioni. Vive davvero soltanto colui che quotidianamente lotta per fare sì che l’esistente venga rettificato e gradualmente assuma forme sempre più conformi alla ragione umana, alle idee del vero, del giusto e del buono.
La resilienza mi pare si possa intendere, in prima approssimazione, come una sottospecie dell’indifferenza verso cui Gramsci indirizzava il proprio odio ragionato. Anch’essa «è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita»:1 così come l’indifferenza di chi rinunzia a prendere partito si rovescia nel proprio opposto, ossia nel parteggiare per il mondo così com’è, allo stesso modo anche la resilienza esprime, in forma obliqua, l’accettazione dell’esistente. Lo assume non necessariamente come in sé buono, ma come intrinsecamente immodificabile.
«Poiché non puoi cambiare lo stato delle cose, sopportalo con costanza e senza lasciare che a sua volta esso cambi te!»: è questo l’imperativo elementare dei resilienti, il talismano della loro subalterna e perpetua resa al mondo dato. Tale resa viene occultata e nobilitata dietro la vernice di una presunta fedeltà a se stessi che coincide, invero, con il più sciagurato tradimento del proprio io come sforzo e come impegno, come attività trasformativa e come prassi volta a intervenire operativamente nel mondo inerte delle cose. Con la resilienza, infatti, ci si congeda pavidamente da una delle prerogative che più ci contraddistinguono in quanto appartenenti al genere umano, vale a dire dall’insoddisfazione per le cose come stanno e dalla conseguente capacità, sorretta dalla volontà militante, di mutarle in vista di ulteriorità nobilitanti, di stati diversi e migliori e, comunque, meno indecenti di quelli in atto.
Resilienza e indifferenza sono, in fondo, due modi diversi, complementari e ugualmente odiosi, di militare per l’ordine delle cose e dei rapporti di forza, sia quando fingono di non curarsi del loro assetto (e, dunque, lo accettano con inerzia per come è), sia quando fanno di ignavia virtù e promettono di non lasciarsi comunque corrompere, o anche solo parzialmente modificare, dalla tetragona realtà giudicata immodificabile.
L’indifferente, non scegliendo, sceglie ciò che c’è. La sua rinunzia a prendere partito si rovescia in un’adesione inconfessata al partito della conservazione e, dunque, dei rapporti di forza così come sono. Adepto della «pigrizia fatalistica»2 denunciata da Gramsci, il resiliente muove dall’idea che le asimmetrie sociali e l’ordine delle cose non possano essere mutati e da parte sua opta per l’adattamento: non cambia il mondo, ma se stesso. Non lotta appassionatamente per conformare l’Oggetto al Soggetto, ma con il suo lasciar essere genera – ora con disincantamento depressivo, ora con ebete letizia – l’adattamento del Soggetto all’Oggetto, specificamente del proprio io al mondo dato. Non meno dell’indifferente, anche il resiliente reca in tasca una tessera virtuale del partito che, senza bisogno di ostentare le proprie ragioni, difende i rapporti di forza esistenti, pensati come un fato intrascendibile e come un destino ineluttabile. Per questo, il resiliente è la variante postmoderna del tiepido contro cui tuona l’Apocalisse (3, 15-16), spiegando che sarà «vomitato» dal Signore in quanto né caldo, né freddo.
L’ontologia del resiliente è la mistica della necessità, il suo credo è l’assolutismo della realtà come dato di fatto, la sua morale è quella dello sforzo volto a persuadere fatalisticamente il proprio io della necessità di adeguarsi sempre e comunque allo stato di cose, foss’anche il più ingiusto e il più traumatico. Il resiliente prospetta una presunta soluzione biografica alle obiettive contraddizioni sistemiche. Cerca nella sfera privata del proprio io individuale, all’ombra della sfera pubblica, la chiave per risolvere i conflitti e le contraddizioni dell’ordine sociale, economico e politico. Quest’ultimo è percepito alla stregua di una natura data e irreversibile: ogni insoddisfazione che si generi nei suoi confronti non può che sorgere dall’inadeguatezza dell’io individuale, non ancora consapevole dell’immutabilità di ciò che c’è e dunque della necessità di accettarlo consapevolmente, mediante quel minuzioso lavoro su di sé che si risolve sempre in conformazione passiva alla situazione data.
La realtà a forma di merce è il mondo capovolto in cui ogni cosa reca in sé la propria negazione. Di fronte alle visibilissime storture e alle innegabili iniquità che vi riscontra, il resiliente ritiene di vincere se sa sopportare senza lasciarsi disintegrare, se cioè è in grado, come individuo isolato, di sopravvivere al naufragio corale, rimanendo solido come il metallo e indefettibile come la roccia. La resilienza è, insomma, il grado iperbolico dell’indifferenza, il suo più cupo e funesto compimento pratico. «Non mi curo del mondo e dei suoi rapporti» afferma con alterigia l’indifferente. «Non posso agire su di essi e dunque mi prendo cura soltanto del mio io» esclama con rassegnazione mal celata il resiliente. In un caso come nell’altro, si sancisce il trionfo della monotonia dell’esistente e della sorda violenza dei rapporti di forza.
Proprio come l’indifferenza, anche la resilienza – direbbe Gramsci – «opera potentemente nella storia»,3 sia pure in modo passivo. Concorre a produrre, o quanto meno a rinsaldare, un’immagine del mondo incentrata sulla fatalità destinale, sull’occorrere degli eventi sciolto dalla volontà e dalla prassi degli uomini. Lo stato di cose, pensato come intrasformabile, lo diviene effettivamente: il fatalismo dello spettatore rende fatale il mondo, quasi fosse «un enorme fenomeno naturale», con le parole gramsciane, del tutto analogo a un terremoto o a un’eruzione.
Ma se i più, in balia dell’incantesimo sortito dal binomio esiziale di indifferenza e resilienza, rinunziano a trasformare il mondo con la loro operosa azione, lasciano che esso divenga teatro dell’agire monopolistico dei gruppi dominanti: sono costoro che, in modo niente affatto trascurabile, hanno tutto l’interesse nel mutare la resilienza in virtù per i gruppi dominati. E mentre i dominati si fanno resilienti, i dominanti agiscono indisturbati: e non smettono di cambiare il mondo, in senso rigorosamente capitalistico. Anche per questo, odio chi rinunzia aprioricamente a sforzarsi di cambiare lo stato di cose: odio i resilienti.

Ebete euforia. Fenomenologia dello spirito resiliente

L’inferno è vuoto, tutti i diavoli sono qui!
W. Shakespeare, La tempesta
Uno spettro si aggira tra le rovine della civiltà tecnomorfa e pantoclasta: è il nuovo esemplare dell’homo resiliens. Affrancato dai morsi della «coscienza infelice» (un concetto pregnante su cui torneremo a più riprese) e appagato dalla miseria del presente reificato, l’«ultimo uomo» votato alla resilienza non conosce nulla di grande per cui lottare e in cui credere, per cui adoperarsi e in cui sperare. Figlio del disincantamento postmoderno e della fine della credenza nei grands récits rivolti al futuro redento, l’homo resiliens si accontenta di ciò che c’è, giacché pensa che sia tutto ciò che può esserci. La sua è un’ontologia primitiva quanto depressiva, che risolve la possibilità nella realtà data, accantona il futuro nell’eterna ripetizione del presente. Accontentandosi dei piaceri volgari che la civiltà dei consumi gli offre («una vogliuzza per il giorno e una per la notte», suggerisce Così parlò Zarathustra), l’ultimo uomo della resilienza non ha alcuna superstite risorsa valoriale da contrapporre alla voragine nichilistica che ha prosciugato ogni senso e ha abbandonato il mondo senza Dio al nulla della produzione e dello scambio fini a se stessi.
Espressione disperata di un nichilismo puramente passivo, membro seriale di un gregge amorfo e senza pastore, l’homo resiliens guarda con gelido e distaccato pathos a ogni desiderio di migliore libertà, a ogni progetto di ringiovanimento del mondo. È infatti convinto che non sia più tempo di cambiamenti e che, nell’evo crepuscolare del tramonto degli idoli, non resti altra via se non la riconciliazione e l’adattamento rispetto a un ordine delle cose che, comunque lo si giudichi, non consente alternative, né vie di fuga. L’imperativo del ne varietur si accompagna, quasi in forma compensativa, a un ipertrofico lavoro sul proprio io, teso a renderlo più maturo e più forte, perché finalmente disposto ad accettare senza batter ciglio tutto ciò che c’è.
Nella fisionomia dell’ultimo uomo, in cui è dominante la più volgare mediocrità, si scorge la contrazione integrale della potenza creatrice dell’essenza umana ormai priva di entusiasmi e di passioni: gli homines resilientes, «sciaurati, che mai non fur vivi» (Inferno, III, v. 64), si accontentano di ciò che c’è, adattandosi di volta in volta e sforzandosi di placare ogni superstite voce interna di dissenso. La forza estroflessa della trasformazione del reale è spodestata dal ripiegamento in se stessi degli ultimi uomini, che vivono come un fato inemendabile, degno solo di remissivo adattamento, l’integralismo economico e le sue scene di ordinaria miseria. Lo stoico imperativo dell’amor fati come adattamento alle logiche del reale costituisce la ricetta essenziale della loro felicità mediocre, in cui la volontà di impotenza individuale coesiste con il furor della sete di onnipotenza del sistema della produzione tecnocapitalistica.
La figura in cui meglio sembra lasciarsi condensare il nuovo spirito gregario degli ultimi uomini coincide con quella della servitude volontarie messa a tema da Étienne de La Boétie: vale a dire l’oscuro desiderio di servire pur di essere lasciati in pace, di essere dominati pur di non vedere interrotto il godimento illimitato scaturente dal flusso di circolazione dei servizi e delle merci. A differenza del resistente, ossia del soggetto naturaliter poco conforme allo spirito gregario e magari anche pronto a consociarsi in forme rivoluzionarie coi propri simili, il resiliente coincide con il prototipo dello schiavo ideale, che non sa di esserlo e che ignora l’esistenza delle catene che porta o, alternativamente, le confonde con imperdibili occasioni di maturazione interiore.
L’odierno «disagio della civiltà» affonda le sue radici nella rimozione sia dell’Ideale, sia del legame sociale. E produce, di conseguenza, il paesaggio desertificato degli eremiti di massa, dei resilienti che, distanziati socialmente, cercano di sopravvivere adattandosi, superando biograficamente – quasi fossero soltanto disagi dell’io inconciliato – le contraddizioni sistemiche. L’uomo rivoluzionario viveva nel perpetuo iato tra la realtà e i suoi sogni, quello resiliente nell’inestinguibile assenza di sogni che gli permettano di pensare la realtà come emendabile.
Concetto smart e inafferrabile, sfuggente e in grado di adattarsi in modo, appunto, resiliente a ogni contesto, la resilienza è, di diritto, parte integrante della costellazione delle nuove virtù integrate alla civiltà manageriale del business – dall’enpowerment alle pratiche motivazionali, dal problem solving alla mindfulness – e di quella governance neoliberale che ha ormai saturato il mondo della vita, aziendalizzandolo e reificandolo senza interdizioni e zone franche. È l’attitudine esistenziale, ma poi anche politica e sociale, oggi richiesta sistemicamente ai sudditi della civiltà merciforme, cioè ai consumatori senza patria e senza radici, senza spessore critico e, direbbe Gramsci, senza residuo «spirito di scissione». E per converso si esplica nella forma di un imperativo onnipresente, come una richiesta ubiqua per il tramite del crepitio fintamente polifonico del sistema mass-mediatico, che è grancassa della voce del padrone. Quest’ultima esorta quotidianamente la mesta tribù degli ultimi uomini, la «perduta gente» dei descamisados della globalizzazione infelice, a farsi docile e remissiva, a prendere congedo da ogni importuno antagonismo e da ogni velleità redentrice: in una parola, a farsi resiliente, a lavorare su di sé per portarsi all’altezza del mondo in cui si vive, vale a dire per sopportarlo quotidianamente senza ritorni di fiamma rossa e senza importuni risvegli dello «spirito dell’utopia».
Per questo, l’imperativo dominante, ribadito urbi et orbi dall’industria culturale e dai funzionari delle sovrastrutture, è quello che predica il disincantato adattamento all’esistente come sola realtà possibile.4 Da qualunque prospettiva lo si osservi, il soggetto resiliente sembra l’ideale prodotto in vitro del sistema della produzione e della civiltà totalmente amministrata: seguendo l’identikit tratteggiato da Pietro Trabucchi nel suo testo Resisto dunque sono (2007),5 il resiliente è ottimista per principio, tende a leggere gli eventi negativi come circoscritti e in ogni caso come opportunità di miglioramento, si pensa comunque in grado di controllare e governare la propria vita e non v’è sconfitta, fosse anche la più sonante, che valga a fargli maturare la volontà di adoperarsi per rovesciare l’ordine delle cose.
La sua predisposizione fondamentale, congenita o conquistata con il duro lavoro su di sé, è l’«agilità emotiva»6 (emotional agility), vale a dire una sorta di precariato delle emozioni e dei sentimenti, chiamato a esprimersi nella capacità di adeguarsi camaleonticamente ai contesti più diversi e alle situazioni più avverse, di volta in volta trovando in sé le risorse adeguate e il giusto spirito: Du mußt dein Leben ändern, «devi cambiare la tua vita», il titolo di un fortunato libro di Peter Sloterdijk,7 cristallizza nella sua forma più efficace la postmoderna riabilitazione della sopportazione stoica dell’ordine delle cose e la glorificazione della ragion cinica di chi, in fondo, ad altro non mira se non alla propria salvezza individuale nel bel mezzo della tragedia collettiva.
Metabolizzando l’imperativo sistemico dell’adaequatio all’ordine delle cose innalzato a «dato di fatto» da accertare scientificamente e da accettare stoicamente, l’homo resiliens contemporaneo non si sforza di comprendere e, ancor meno, di rettificare l’ordine delle cose. Muove infatti dal presupposto che, in caso di dissidio tra Soggetto e Oggetto, sia comunque il primo a doversi adeguare al secondo, superando i traumi e i disagi che a tale dissidio l’hanno inopportunamente condotto. E solo in ciò per lui riposa il segreto di una vita felice. La passione trasformatrice aperta al futuro, che fu dei riv...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Odio la resilienza
  4. 1. Homo resiliens
  5. 2. Avventure del concetto
  6. 3. Mistica della sopportazione
  7. 4. Accettare l’inaccettabile. La prosa della reificazione
  8. 5. Ontologie resilienti
  9. 6. Convivere con l’insensatezza
  10. 7. Sopportare non basta. Desideri di migliori libertà
  11. Note
  12. Copyright