Non ho fatto in tempo a spendere nemmeno un centesimo del primo stipendio della mia vita. Avevo aperto un conto in banca tutto mio, avevo inaugurato la mia personale era bancomat. Che soddisfazione sapere che mi avevano accreditato i primi 1300 euro…
Se fossi andato alla festa di Halloween magari ne avrei spesi un po’. Ma non mi andava di passare per quello che preferisce la festa al lavoro. L’azienda per cui lavoravo mi aveva cercato più volte, quel pomeriggio tardi. Io dormivo, dopo il turno della notte precedente e la giornata passata con la mia ragazza. Alle otto di sera mamma venne a svegliarmi. «Continua a squillare il tuo telefono» disse.
Era il responsabile dell’azienda. Voleva chiedermi se potevo rifare un’altra volta la notte «ma non rispondevi e abbiamo già chiesto a un altro, non ti preoccupare» aggiunse, quando finalmente lo richiamai. Fui io a insistere: «No, dai, di’ all’altro di stare a casa. Vengo io».
Quando riattaccai mio padre provò a dissuadermi: «Ma scusa: ormai avevano chiesto a un altro, potevi lasciar correre e andare alla festa. Non hai detto che volevi andare a ballare?».
«Fa niente, papà. Non ha importanza la festa. Il lavoro è lavoro» risposi con un sorriso.
Così, quando arrivò l’ora, furono lui e mio fratello Christian ad accompagnarmi dal collega con il quale poi sarei andato a Milano a lavorare, dalle ventidue alle sei del mattino.
«Ciao papà, ciao Christian. Ci vediamo domani» li salutai. A casa, uscendo dall’ascensore, avevo sentito mia madre che saliva a piedi. «Ciao ma’, ci vediamo domani» avevo promesso anche a lei.
Non ci fu nessun domani. Sono morto nella notte dei mostri di Halloween, fra il 31 ottobre e il 1° novembre. Mi avrebbero salvato, i mostri. A uccidermi, invece, fu il lavoro.
Avevo diciotto anni compiuti da poco, il mio nome era Andrea Masi, la mia vita ruotava attorno a Cislago, cittadina a metà strada fra Varese e Milano. Sono morto che avevo uno stipendio – uno solo – sul mio conto in banca, anche se in realtà quella notte eravamo già allo scadere del secondo mese di lavoro. La prima paga era arrivata in ritardo. La seconda, al contrario, arrivò puntuale ma io non c’ero già più da due giorni.
L’ultima volta che l’ho visto, il mondo era ai miei piedi; nel senso che io stavo in alto, su una piattaforma. Stavamo lavorando in tre alla posa dei cavi della fibra ottica, nel garage sotterraneo del centro commerciale Portello, a Milano. La morte mi ha colto alle spalle, a tradimento; non l’ho né vista né sentita arrivare. Ero accovacciato e tenevo fermo il quadro elettrico che avrei dovuto montare. La piattaforma – o muletto, come lo chiamavamo noi – era in movimento, manovrata da uno dei miei colleghi. Nessuno si è accorto che dietro di me il soffitto era ribassato, che c’era una trave e che io non sarei mai passato fra la piattaforma e la trave. La mia vita è finita lì, in quello spazio troppo piccolo per la mia testa e il mio corpo. Sono diventato il granello di sabbia che ha inceppato il macchinario da cinquanta quintali sul quale mi stavo muovendo.
Che poi. La verità – si è scoperto dopo – è che non avrei dovuto essere lassù mentre il muletto si muoveva. La regola sarebbe far salire gli operai sulla piattaforma soltanto quando è esattamente sotto il punto in cui devono lavorare. In sostanza: si sale, si lavora e, se c’è da continuare in un punto successivo, prima si scende e si sposta il muletto e poi si risale. Quella notte non è andata così.
Mi piaceva avere a che fare con l’elettricità. Impianti e cavi da piazzare: ci sapevo fare, era il lavoro giusto per me che – diciamolo – non ero nato per andare all’università. In tre anni di stage scuola-lavoro avevo imparato abbastanza per guadagnarmi l’assunzione nell’impresa del mio vicino di casa e amico di famiglia. Era stata mia madre a dire a sua moglie: «Andrea sta frequentando l’istituto professionale IPSIA, deve cercare un posto dove fare lo stage».
«Mio marito è disposto a prenderlo» le fece sapere quella donna dopo qualche giorno.
Lasciai l’IPSIA dopo i primi tre anni di orientamento generale, abbagliato dal contratto di lavoro che mi fu proposto e convinto che lavorare fosse per me il solo percorso possibile. Ma forse – ci ripensai dopo qualche mese – valeva la pena di frequentare altri due anni di corso per diventare perito elettronico. Mi ero già informato, avevo stampato e compilato i documenti: a settembre del 2019 mi sarei iscritto alla scuola serale e avrei preso il diploma. Intanto lavorando avrei fatto pratica e chissà, con il tempo avrei realizzato un sogno di cui parlavo spesso a mio fratello Christian, quasi sei anni più piccolo di me. «Tu studi da idraulico» gli ripetevo «io vado avanti da elettrotecnico e appena possiamo apriamo una ditta tutta nostra.»
Ero contento, comunque, della vita che stavo vivendo, essere autonomo mi faceva sentire fiero di me. I miei genitori volevano offrire a me la casa in cui abitavamo e trasferirsi in quella che un tempo fu dei miei nonni, ma era un’operazione che richiedeva tempo e intanto io avevo conosciuto Giusi, una ragazza diciottenne come me, e non avevo un luogo dove cercare un po’ di intimità con lei. Ci vuole un gran bel rapporto e un bel po’ di faccia tosta per chiedere a un padre, a una madre e a un fratello di lasciare il campo libero, per favore, «che ho bisogno di stare un po’ in pace con Giusi». Ecco, a casa mia succedeva anche questo. Loro uscivano e mi lasciavano la casa libera, e a me sembrava di avere già molto di quel che serviva nella vita.
Eravamo una famiglia allegra, noi Masi. L’interruttore del buonumore sempre acceso, il bicchiere visto sempre mezzo pieno, desideri semplici, a portata di mano, e un fiume di parole che ci tenevano legati l’uno all’altro. Io, in particolare, raccontavo sempre tutto: la giornata in cantiere nei più piccoli dettagli, gli amici da incontrare, i progetti del fine settimana oppure un’eventuale difficoltà, di qualunque genere fosse. Li rendevo partecipi della mia esistenza, anche quando avrei potuto reclamare un po’ di distacco. Per esempio alla mia prima vacanza da solo con il mio più caro amico. È stato lo stesso anno che sono morto. Ero maggiorenne da pochi giorni e, ad agosto, io e quell’amico decidemmo di festeggiare con un po’ di baldoria a Riccione. Mia madre mi comunicò che «va bene, ho prenotato un albergo per voi due ma ne ho preso un altro lì vicino anche per me, per tuo padre e per Christian».
Forse un altro al posto mio si sarebbe arrabbiato, vergognato magari. Io no. Mi era sembrato un buon compromesso stare divisi e vicini nello stesso tempo. Tutto sommato si trattava soltanto di andare a trovarli al massimo per un gelato e un caffè. Li capivo. Erano soltanto preoccupati per me, era il loro modo di lasciarmi vivere la mia vita, guardandola da lontano ma non troppo. Come quando si impara a camminare. C’è sempre una mamma, un papà, un adulto che ti segue per proteggerti mentre ti lascia barcollare da solo sul baricentro basso dei tuoi pochi mesi. La parola “famiglia”, a casa mia, era importante. Diceva molto più di quel che prometteva, e non a caso sull’avambraccio destro mi ero fatto tatuare un diamante e proprio quella parola: “Familia”. Che per me era tutto.
Non c’era nessuno dei loro sguardi amorevoli a proteggermi, la notte dei mostri del 2018.
Alle 4.19 suonò il telefono di mia madre.
«Dovresti venire qui al Portello. È successo un incidente grave ad Andrea» le annunciò la voce agitata dell’amico di famiglia che mi aveva assunto.
«Quanto grave?» ebbe il coraggio di chiedere lei.
«Concetta, è meglio se vieni subito perché è grave» ribadì lui senza aggiungere altro nonostante l’insistenza di mamma.
A quell’ora io ero ancora caldo di vita ma in realtà ero già morto. Strada facendo mamma riprovò a chiamarlo più e più volte ma lui non rispondeva mai. Quando finalmente si rifece vivo disse che «non ho potuto risponderti perché stavo parlando con la polizia». E mia madre capì che non c’era più spazio per la speranza.
Lei e papà arrivarono in quel centro commerciale che stava spuntando l’alba, c’era l’ambulanza e c’era uno psicologo. La procedura diceva che a una madre a un padre in quelle condizioni di stress psicologico si danno dei calmanti, che si parla con dolcezza, che non si mostra un figlio ridotto com’ero ridotto io. Credo che sia possibile invecchiare all’improvviso nell’arco di una notte, a loro due successe. Tornarono a casa curvi sotto il peso di quel dolore contro cui non c’era rimedio.
Il mio piccolo Christian si fece coraggio, provò ad addomesticare la ferocia della mia assenza, oggi racconta a se stesso che «preferisco non parlare di lui ma porto il suo ricordo nei miei pensieri, sempre». Ma la realtà è che dai pensieri non arriva il calore di un abbraccio, e Dio solo sa quanto avrebbe ancora bisogno di me. Si infila in qualcuno dei miei vestiti, ogni tanto, usa la mia PlayStation, guarda le mie fotografie, sbircia i messaggi del mio telefonino. Insomma: mi cerca in ciò che di me gli è rimasto fisicamente accanto. E pensare che da bambino ero geloso di lui… Mi seccò dividere con quell’esserino appena arrivato le attenzioni e l’amore di mamma e papà che prima erano tutte per me. Crescendo ho capito che non c’è un bene da dividere tra fratelli, casomai ce n’è uno da moltiplicare, come sanno fare da sempre i genitori. Così nel tempo la mia gelosia per Christian si è trasformata in condivisione.
Non ho mai amato gli eccessi che qualche volta vedevo nei ragazzi della mia età. Mai avuta quella propensione a trasgredire le regole fino a far diventare le azioni un problema. Amavo la vita e amavo divertirmi, sia chiaro. Gli amici erano fratelli che spesso invitavo a casa a sorpresa, con mamma che sapeva sempre cosa inventarsi per cena anche se non ci aveva pensato fino a un attimo prima. Adoravo andare in discoteca, fare le ore piccole, bere un drink o una birra in compagnia al pub, ma erano premi che mi concedevo soltanto quando e se potevo farlo. Non se al mattino dopo dovevo lavorare, per esempio. E poi mi piacevano i vestiti firmati ma non li ho mai pretesi dai miei genitori, anche per questo pregustavo l’idea di guadagni miei. Avrei potuto comprarli con i miei soldi, avrei potuto tener fede al mio motto: l’eleganza non è farsi notare ma farsi ricordare.
Insomma: giudizioso, era la parola giusta per definire il mio comportamento. Una parola che piace molto agli adulti e che mi definiva bene anche secondo Stefano, da sempre amico dei miei genitori prima che mio e di mio fratello. Da lui ho imparato a misurare le mie potenzialità nello studio. Mi seguiva, mi aiutava, mi incoraggiava e aveva ragione lui: a me bastava studiare un’oretta per avere ottimi risultati che magari altri raggiungevano in un pomeriggio. Il fatto è che la testa china sui libri non è mai stata una mia priorità. Ma con lui che non mollava mai finché non avevo finito i compiti era difficile seguire le mie priorità. Lo ricordo paziente mentre gli dicevo cose tipo: «Ste’, guarda che bello quest’orologio», mostrandogli un modello sul display del telefonino, oppure: «Ste’, ti faccio vedere una cosa alla PlayStation». Lui mi assecondava e poi tornava all’argomento ostico: studiare. Mi avrà detto non so quante volte che «tu adesso hai diciotto anni e non ti interessa lo studio, ma quando ne avrai trenta-quaranta arriverà qualche ragazzino che non sarà bravo come te ma ti supererà solo perché ha un pezzo di carta». È anche grazie a lui che avevo deciso di riprendere gli studi al serale da perito elettrotecnico.
Di me e di quell’intenzione è rimasta una targa che la scuola ha voluto dedicarmi. Davanti al mio nome sono passati e passano centinaia di ragazzi che hanno i miei diciotto anni, un elenco infinito di sogni in cui credere e la vita per provare a realizzarli.
Alcuni di loro, assieme ad altri amici, avevano cercato palloncini dorati da portare al mio funerale. Adoravo l’effetto oro accostato al nero; il passaparola aveva chiesto di portare più palloncini possibili di quei due colori per liberarli alla fine della cerimonia. Solo che di palloncini dorati ne trovarono pochissimi e alla fine il cielo si tinse dei colori delle api, non del luccichio dell’oro. Ma andava benissimo anche così, gli occhi di chi mi aveva voluto bene vedevano lo stesso il color oro dove c’era il giallo, magia del mio ricordo che quel giorno sì, splendeva negli occhi di tutti. La chiesa era piena di gente, i cuori di ragazzi e ragazze giovanissimi erano colmi di dispiacere per me.
Può darsi che fra la folla ci fosse anche quel ragazzino straniero che avevo difeso tante volte da chi provava a maltrattarlo, a scuola o al parco. Non sopportavo la cattiveria e la miseria umana di chi se la prendeva con i più deboli. Il solo istinto che scattava in me quando vedevo qualcuno in difficoltà era aiutarlo, difenderlo, prendermi cura di lui. Lo avevo fatto anche con mio nonno, il padre di mia madre. Era malato e aveva bisogno costante di qualcuno che lo accudisse. Gli ultimi tempi della sua vita non sapeva più come fare nemmeno le cose più elementari. Un giorno bruciò una pentola e davanti alla sua faccia desolata che mi faceva tenerezza gli dissi: «Non ti preoccupare, nonno. La mettiamo via, non diciamo niente alla mamma e io pulisco tutto».
Ecco, mamma cara. Se trovi quella pentola pensa a noi due. E sorridi.
Andrea Masi, diciotto anni, morì nella notte fra il 31 ottobre e il 1° novembre 2018 mentre lavorava nel centro commerciale Portello di Milano per posare i cavi della fibra ottica. Era in alto, su una piattaforma manovrata da un suo collega. La piattaforma fu spostata in un punto in cui il soffitto era più basso e lui rimase schiacciato prima che si riuscisse a bloccarla.
La mia vecchia Opel Astra è ancora nel garage di casa. Ogni tanto qualcuno dei miei fratelli scende, si siede al posto di guida e pensa a me. C’è ancora il mio odore, sono convinti tutti. E allora basta chiudere gli occhi e sono di nuovo lì: «Ciao Robè, dove andiamo?», «Dai, Robè, smettila di scherzare!».
Mia madre, invece, annusa particelle della mia vita sul cuscino che tenevo nella cabina del camion.
L’olfatto può essere un viaggio nel tempo. Abbiamo tutti il ricordo di un profumo particolare, di una persona che sapeva di questo o di quello, di un odore legato a una situazione specifica. Si intercetta quella precisa molecola e il cervello fa connessioni immediate, ti riporta a quel momento: fotografie olfattive di un tempo andato di cui spesso si sente ancora il bisogno.
Capisco Mimmo, mio fratello, che giura di sentire il mio abbraccio quando sale sulla mia auto. E capisco mamma che stringe il mio cuscino cercando di stringere me.
Dal giorno in cui li ho lasciati per sempre – il 29 maggio 2017 – sono ovunque loro vogliono che io sia, ben oltre la lapide di marmo bianco che porta il mio nome, Roberto Morelli.
Avevo trentun anni, quasi trentadue, quella mattina di primavera.
Sotto il cielo di Castelnuovo Vomano, dalle parti di Teramo, stavo aspettando che i container da caricare sul mio camion fossero pronti, cioè pieni. Li avevo prelevati vuoti al porto di Napoli e l’azienda di autotrasporti per la quale lavoravo mi aveva dato coordinate e tipo di carico: sarei partito – e come me altri tre colleghi – alle tre del mattino, sarei andato a Castelnuovo a caricare bottiglie di plastica pressate in balle variabili fra quattrocento e mille chili ciascuna, e poi avrei fatto rientro al porto.
Nel piazzale dell’azienda che era la nostra destinazione c’era un gran movimento. Chi prelevava le balle pressate dal nastro trasportatore, chi manovrava muletti per spostarle, chi si occupava di spingerle in fondo a ogni singolo container… Noi camionisti dovevamo semplicemente aprire i portelloni del camion e aspettare ...