UNA FORTEZZA SI ERGEVA fra le tenebre nebbiose della sera. Riposava sul fondo di una vallata scoscesa simile a un cratere, e così ampia che perfino alla luce del giorno Sazed sarebbe stato a malapena in grado di vedere l’altro lato. Col calare dell’oscurità, avvolta dalle nebbie, l’estremità opposta dell’enorme buco era solo un’ombra profonda.
Sazed sapeva molto poco di strategia e tattica; anche se le sue metalloscorte contenevano dozzine di libri su quegli argomenti, si era dimenticato i contenuti per poterli immagazzinare. Il poco che sapeva gli disse che quella fortezza – la Canonica di Seran – non era molto difendibile. Aveva rinunciato a una posizione più elevata, e i lati del cratere avrebbero fornito un’ottima posizione alle macchine d’assedio per lanciare rocce contro le mura.
Questa fortezza, però, non era stata eretta per essere difesa da soldati nemici. Era stata costruita per offrire solitudine. Il cratere la rendeva difficile da trovare, poiché un leggero rialzo nel territorio accanto all’orlo della depressione la faceva diventare praticamente invisibile finché qualcuno non si fosse avvicinato. Nessuna strada o sentiero indicava la via, e i viaggiatori avrebbero avuto difficoltà a scendere per le pendici scoscese.
Gli Inquisitori non volevano visite.
«Ebbene?» chiese Marsh.
Lui e Sazed si trovavano sul lato settentrionale del cratere, davanti a uno strapiombo di diverse centinaia di piedi. Sazed attinse dalla sua stagnoscorta, estraendone un po’ della vista che vi aveva immagazzinato. Gli angoli della sua visuale si offuscarono, ma le cose dritto di fronte a lui parvero farsi più vicine. Attinse un altro po’ di vista, ignorando la nausea derivante dall’accumularne così tanta.
La vista aumentata gli permise di esaminare la Canonica come se si trovasse proprio lì davanti. Poteva vedere ogni tacca nelle scure pareti di pietra – piatte, ampie, imponenti. Poteva distinguere ogni pezzo di ruggine sulle grandi piastre d’acciaio che pendevano assicurate contro le pietre esterne del muro. Poteva vedere ogni angolo incrostato di licheni e ogni sporgenza macchiata di cenere. Non c’erano finestre.
«Non lo so» osservò Sazed lentamente, abbandonando la sua stagnoscorta della vista. «Non è facile capire se la fortezza sia disabitata o meno. Non c’è movimento, nessuna luce. Ma forse gli Inquisitori si stanno nascondendo all’interno.»
«No» disse Marsh, la sua voce inflessibile risuonava nell’aria della sera. «Se ne sono andati.»
«Perché avrebbero dovuto? Questo è un luogo di grande forza, ritengo. Poche difese contro un esercito, ma grandi contro il caos dei tempi.»
Marsh scosse il capo. «Se ne sono andati.»
«Come fai a esserne così sicuro?»
«Non lo so.»
«Dove sono andati, allora?»
Marsh lo guardò, poi si voltò e lasciò vagare lo sguardo sopra la spalla. «A nord.»
«Verso Luthadel?» chiese Sazed, preoccupato.
«Fra le altre cose» disse Marsh. «Andiamo. Non so se torneranno, ma dovremmo sfruttare questa opportunità.»
Sazed annuì. Era questo il motivo per cui erano venuti, dopotutto. Tuttavia, una parte di lui esitava. Era un uomo di libri e garbato servizio. Viaggiare per la campagna per visitare villaggi era abbastanza estraneo alla sua esperienza da essere sconcertante. Infiltrarsi nella roccaforte degli Inquisitori…
Marsh evidentemente non si curava dei conflitti interiori del suo compagno. L’Inquisitore si voltò e iniziò a camminare lungo l’orlo del cratere. Sazed si gettò lo zaino in spalla, poi lo seguì. Giunsero infine a un marchingegno simile a una gabbia, pensato per essere calato sul fondo con funi e pulegge. La gabbia era fissata al suo posto, sulla piattaforma superiore, e Marsh vi si fermò a fianco, ma non entrò.
«Cosa c’è?» domandò Sazed.
«Il sistema di carrucole» gli fece notare Marsh. «Questa gabbia è fatta per essere calata da uomini che la reggono da sotto.» Sazed annuì, accorgendosi che era vero. Marsh fece un passo avanti e azionò una leva. La gabbia cadde. Le corde iniziarono a fumare e le carrucole stridettero mentre quel cubo massiccio piombava verso il fondo dell’abisso. Uno schianto ovattato riecheggiò fra le rocce.
Se laggiù c’è qualcuno, pensò Sazed, ora saprà che siamo qui. Marsh si voltò verso di lui, i dischi dei suoi spuntoni-occhi che scintillavano debolmente nella luce del tramonto.
«Seguimi, se vuoi» disse. Poi assicurò la fune e cominciò a calarsi giù.
Sazed si avvicinò al bordo della piattaforma, osservando Marsh che scendeva balzellando lungo la fune penzoloni fin nell’abisso avvolto dall’oscurità e dalle nebbie. Poi si inginocchiò e aprì lo zaino. Sganciò i grossi bracciali di metallo che aveva attorno alla parte superiore e inferiore delle braccia: le sue cupriscorte principali. Contenevano le memorie di un Custode, la conoscenza immagazzinata di secoli passati. Li mise da parte con rispetto, poi ne tirò fuori un paio più piccoli – uno di ferro, uno di peltro – dallo zaino. Metalloscorte per un guerriero.
Marsh comprendeva quanto Sazed fosse impreparato in quest’ambito? Una forza strepitosa non faceva di un uomo un guerriero. Ciò nonostante, Sazed agganciò i due braccialetti alle caviglie. Poi estrasse due anelli – stagno e rame – e se li infilò alle dita.
Chiuse lo zaino e se lo gettò in spalla, poi raccolse le sue cupriscorte principali. Individuò attentamente un buon nascondiglio – una cavità isolata fra due macigni – e ve le fece scivolare dentro. Qualunque cosa fosse accaduta laggiù, non voleva rischiare che venissero prese e distrutte dagli Inquisitori.
Per poter riempire una cupriscorta con delle memorie, Sazed aveva ascoltato un altro Custode recitare la sua intera raccolta di cronache, fatti e racconti. Aveva memorizzato ogni frase, poi aveva inserito quei ricordi nella cupriscorta per poterli recuperare in seguito. Rammentava molto poco dell’esperienza vera e propria, ma poteva tirar fuori qualunque libro o saggio desiderasse, trasferendolo nella sua mente e ottenendo la capacità di rievocarlo in modo tanto vivido quanto la prima volta che lo aveva memorizzato. Doveva solo avere addosso i bracciali.
Essere senza le sue cupriscorte lo rendeva ansioso. Scosse il capo, tornando alla piattaforma. Marsh si stava muovendo molto rapidamente verso il fondo dell’abisso: come tutti gli Inquisitori, aveva i poteri di un Mistborn. Anche se come li avesse ottenuti – e come riuscisse a vivere malgrado gli spuntoni che gli erano stati conficcati attraverso il cervello – restava un mistero. Marsh non aveva mai risposto alle domande di Sazed sull’argomento.
Sazed chiamò a gran voce, attirando l’attenzione di Marsh, poi sollevò lo zaino e lo lasciò cadere. L’altro allungò una mano e lo zaino sussultò, Tirato verso di lui dai metalli che conteneva. L’Inquisitore se lo gettò in spalla prima di continuare la discesa.
Sazed annuì soddisfatto poi saltò giù dalla piattaforma. Mentre cominciava a cadere, si protese mentalmente verso la sua ferroscorta, cercando il potere che vi aveva immagazzinato. Riempire una metalloscorta aveva sempre un prezzo: per poter accumulare vista, Sazed era stato costretto a passare settimane vedendoci poco. Durante quel periodo, aveva indossato un braccialetto di stagno, stivando la vista in eccesso per poterla usare in seguito.
Il ferro era un po’ diverso dagli altri metalli. Non immagazzinava vista, forza, resistenza o memorie. Racchiudeva qualcosa di completamente diverso: peso.
Quel giorno Sazed non usò il potere immagazzinato all’interno della ferroscorta: ciò lo avrebbe reso più pesante. Cominciò invece a riempire la ferroscorta, lasciando che succhiasse via il suo peso. Avvertì una sensazione familiare di leggerezza, quasi non sentì la massa vigorosa del suo corpo.
La sua caduta rallentò. I filosofi terrisiani avevano molto da dire sull’uso di una ferroscorta. Spiegavano che il potere non cambiava realmente la mole o le dimensioni di un individuo: semplicemente mutava in qualche maniera il modo in cui la terra Tirava contro di lui. La caduta di Sazed non fu rallentata grazie alla sua diminuzione di peso: fu rallentata perché all’improvviso aveva una superficie relativamente ampia esposta al vento della sua discesa e un corpo più leggero ad accompagnarla.
A prescindere dalle ragioni scientifiche, Sazed non cadde così velocemente. I sottili braccialetti di metallo sulle gambe erano le cose più pesanti sul suo corpo, e lo mantennero con i piedi puntati all’ingiù. Lui allargò le braccia e piegò leggermente il corpo, lasciando che il vento spingesse contro di lui. La sua discesa non fu terribilmente lenta… non come quella di una foglia o di una piuma. Non precipitò neanche. Cadde in un modo controllato, quasi con comodo. Gli abiti che sventolavano, le braccia allargate, superò Marsh, che lo osservò con un’espressione incuriosita.
Mentre si avvicinava al suolo, Sazed usò la sua peltroscorta, estraendone una piccolissima quantità di forza per prepararsi. Colpì il suolo, ma dal momento che il corpo era così leggero, il contraccolpo fu minimo. Quasi non ebbe bisogno di piegare le ginocchia per assorbire la forza dell’impatto.
Smise di riempire la ferroscorta, rilasciò il peltro, e attese pazientemente Marsh. Accanto a lui, la gabbia di trasporto giaceva a pezzi. Sazed si trovò a disagio nel notare delle catene di ferro rotte, segno che alcuni di quelli che avevano visitato la Canonica non l’avevano fatto per libera scelta.
Quando Marsh si fu avvicinato al fondo, le nebbie erano dense nell’aria. Sazed aveva vissuto con esse per tutta la vita, e mai prima di allora aveva provato inquietudine standovi in mezzo. Eppure adesso quasi si aspettava che iniziassero a soffocarlo. A ucciderlo, come pareva che avessero fatto col vecchio Jed, lo sfortunato contadino sulla cui morte Sazed aveva indagato.
Marsh si lasciò cadere per l’ultima decina di piedi, atterrando con l’agilità accresciuta di un allomante. Perfino dopo aver passato così tanto tempo con dei Mistborn, Sazed era impressionato dai talenti allomantici. Ovviamente non era mai stato geloso di essi… non proprio. Certo, l’allomanzia era migliore per i combattimenti, ma non poteva espandere...