La versione di Eva
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La versione di Eva

  1. 240 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La versione di Eva

Informazioni su questo libro

Quando muore, Eva Perón è ancora una ragazza, una ragazza che ha conquistato la devozione innamorata del suo popolo e ha lasciato tracce sensibili nell'immaginazione di tutto il mondo. Dal 1952 non ha smesso di tornare sulla scena come un fantasma, come un'apparizione, come un'allegoria. È rivissuta al cinema, nelle biografie storiche, nel musical, e continua a essere un personaggio del Novecento che sconfina oltre il limite del millennio e si presenta, in una luce cangiante e quasi feroce, a cantare la sua canzone.

Iaia Caputo si sottrae alla "canzone", entra in Evita e al contempo la spia con gli occhi di testimoni diversi, la segue dall'adolescenza stracciata alla giovinezza di un riscatto che arriva morso dopo morso: giunta all'apice del potere, incarnando l'anima stessa del peronismo, esce presto di scena dentro la luce accecante di una santità malata. La "versione di Eva" è in realtà una versione che moltiplica le voci e disegna un destino ancora incompiuto, quasi che la determinazione di una donna inventrice di se stessa e cresciuta troppo in fretta fosse andata di pari passo con le maschere attraverso le quali il mondo ha creduto di conoscerla.

Iaia Caputo racconta la bambina "bastarda", la giovane alla ricerca del successo nella Buenos Aires spietata e sfolgorante degli anni Trenta e la Signora dell'Argentina, la febbre dei gesti e il candore dell'ispirazione, la retorica inclusiva e il teatro dietro le quinte, la volgarità e l'eleganza, l'intelligenza politica e la dismisura delle sue passioni, racconta la spirale delle voci che l'hanno accompagnata, e ci sorprende con una nuova grana di voce, capace di riscrivere e reinventare non tanto quel personaggio ma l'ossessione che è diventato nella sua immaginazione.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2022
Print ISBN
9788804752295
eBook ISBN
9788835717539

1

Quando finalmente il treno ragliò il suo arrivo alla stazione di Retiro, Dominico Russo Gutiérrez strinse nella sua, salda e asciutta, la mano paffuta del figlio Pedro in un gesto di protezione istintiva ma non per questo innecessaria. Con uno sguardo ordinò al bambino di rimanere seduto sulla panca di legno del vagone di terza classe che aveva reso insensibile il fondoschiena di entrambi, e attese che i compaesani di Chajarí – i tanti volti familiari e gli altrettanti sconosciuti della regione di Entre Rios – insieme ai troppi passeggeri arrivati dalla pampa scendessero sulla banchina. Un’attesa estenuante, durata più di un’ora, perché era così tanta la gente accorsa quel giorno a Buenos Aires che una volta guadagnata la pensilina e poi, con lentezza e fatica, l’atrio di Retiro, ci si continuava a muovere, tra un singhiozzo e l’altro, a piccoli passi che facevano somigliare la folla a un gigantesco raduno di increduli e disorientati pinguini.
Con i suoi otto anni di altezza, Pedro arrivava a malapena ai culi immensi di donne sfinite da troppe gravidanze e più di una volta aveva dovuto evitare che l’asta di un gonfalone lo rendesse orbo o gli si conficcasse nello sterno. Di tanto in tanto alzava la testa lungo la fiera imponenza del padre e trovava conferma di quel che cercava nella sua espressione di calma sicurezza. Sembrava, a Pedro, che tutte quelle femmine che avrebbero potuto chiamarsi Pilar o Consuelo, Rosario o Francisca, Charo o María, che tutti quei maschi, quali potevano essere i loro nomi?, Vicente, Arcadio, Juan, Dominico, come suo padre, o anche Bartolo oppure Eusebio, al contrario portassero scritta sulle facce cotte dal sole e tagliate dal vento, su quei tratti scolpiti degli antenati indios, sui lineamenti forti del Meridione italiano, e su quelli più esangui del Settentrione, in parte occultata da baffoni creoli, dal colorito roseo delle giovani contadine spagnole, l’indecisione timorosa dei provinciali arrivati per la prima volta nella Capitale caotica e infinita.
Il bianco e nero granuloso dei documenti filmati non aiuta, prevale la cupezza tragica che allora portava sempre con sé l’ufficialità dei grandi momenti sulle eventuali tonalità pastello del cielo, ma Pedro, se il suo semplice vocabolario di bambino cresciuto tra mucche e aranceti non glielo avesse impedito, avrebbe descritto il clima di quel 22 agosto 1951 come un anticipo di primavera. Più che in festa, già dalle prime ore del mattino precedente Buenos Aires appare in preda a una felicità elettrica: il Paese intero si è fermato, è stata proclamata festa nazionale per facilitare la gente che lavora, la CGT, la Confederacion General del Trabajo, ha organizzato treni, pullman e corriere che da ogni remoto angolo dell’Argentina continuano a sputare donne, vecchi, bambini, lavoratori organizzati e uomini soli, chi con la valigia di cartone in spalla, chi con le bandiere; interi marciapiedi sono occupati da striscioni delle delegazioni sindacali. Si sentono suonare inni patriottici, canzoni e slogan del peronismo s’intonano un po’ ovunque, si alzano spontanei e muoiono come brevi fuochi d’artificio. Macchie bianche di infermiere in divisa si distinguono nella massa dei descamisados tanto cari a Evita che si lasciano trasportare dal flusso ininterrotto, con gli occhi increduli, verso i grattacieli maestosi della Capitale. D’altra parte non saprebbero dove andare, vengono da Bahía Blanca, Cañuelas, San Miguel de Tucumán, da villaggi che sono poco più di agglomerati di una decina di case, o dai quartieri operai come Avellaneda o Lanús, così lontani dal centro della Capitale che non ci hanno mai messo piede. Per la maggior parte di quei gracitas, Buenos Aires fino a quel momento è stata solo un nome: solenne, definitivo, soggiogante. Il nome di una città lontana come una galassia. O di una terra promessa. In tanti l’hanno conosciuta in un’alba brumosa, quando sono scesi con gli occhi cisposi e le gambe indolenzite da piroscafi che li hanno tenuti prigionieri per settimane. Stretti in un disordine di corpi condannati a una prossimità che con il passare dei giorni è diventata scabrosa, l’ansia per la traversata che s’è fatta fiato e poi aria stantia da condividere nel poco spazio a disposizione, quando hanno rimesso piede sulla terraferma la sentivano di burro tanta era l’insicurezza nel tornare bipedi che il mare aveva lasciato nei loro arti.
Arrivati al porto, in pochi avevano alzato il naso al cielo lattiginoso del primo mattino: guardavano, smaniosi e atterriti, ad altezza d’uomo, in cerca di un volto conosciuto o di un lontano parente che s’era avventurato in Argentina decenni prima e manco ricordavano più. “Vicie’”, sentivano chiamare, oppure una Lucia, un Salvatore, un Gaetano, un Ernesto, e a ogni nome che non era il proprio si sentivano più soli e angosciati, soli e stranieri, soli e perduti.
Non hanno mai visto un palazzo, e ora si trovano davanti cattedrali di cemento, qualcuno indica l’Arco del Triunfo come punto di riferimento. «Da quella parte» si sente dire. «Da quella parte.» Ma non ce ne sarebbe bisogno: la folla che nelle prime ore del pomeriggio raggiungerà il milione e mezzo, o forse due, di persone è un unico corpo fremente proteso verso l’Edificio dei Lavori Pubblici, davanti al quale è stato allestito il palco. Sono in tanti a non avere un soldo in tasca, però non importa, lei ha stabilito che sia tutto gratuito: trasporti, bar, alberghi, ristoranti; pasti e bevande vengono distribuiti a ogni angolo di strada. A metà pomeriggio la Nueve de Julio, dal palco fino all’Obelisco, è un tappeto semovente: la sua trama umana è così fitta che non ci starebbe neppure uno spillo.
La luce dell’inverno che va lentamente congedandosi si sta facendo fredda. Il cielo, non più il fondale di un azzurro tagliente addolcito dalle morbide spumosità delle nuvole in transito, ha assunto la consistenza di una lastra di vetro che chiude l’orizzonte. Le ombre del buio che tra non molto calerà cominciano a illividire quando la moltitudine è scossa da uno spasmo di ansia. Manca poco alle 17.30 e il palco si sta animando.
Dominico, invece, si muoveva sicuro nelle strade della Capitale, e la sua mano, sempre stretta a quella del figlio, sarebbe rimasta asciutta nonostante la calca che sembrava volerli ingoiare e benché ci fossero volute ore per arrivare all’Obelisco. Peronista della prima ora, aveva finito per ricoprire cariche di prestigio nella provincia di Entre Ríos, così, convocato con una certa regolarità dal partito, non era certo la prima volta che andava a Buenos Aires – per quanto, a parte quel giorno che non si sarebbe perso neppure se avesse dovuto viaggiare in groppa a un asino, non potesse dire di amare il frastuono della città. Come la maggior parte dei provinciali, tornava a casa sempre stordito e vagamente irritato.
Quando Pedro smise di annusare culi ed evitare bastoni di gagliardetti e bandiere, fu perché una forza inspiegabile li aveva sospinti come una corrente d’aria avanti, avanti, sempre più avanti, finché si era ritrovato schiacciato contro una lunga fila di transenne presidiate da uomini in divisa. Allora, davanti a lui apparve una scenografia che potremmo descrivere come una buona sintesi tra estetica fascista e sfarzo hollywoodiano. Un trionfo di bianco accecante. Ai lati del palco che riproduce un balcone, le gigantografie del Generale e di sua moglie, sotto le quali campeggia la sigla del sindacato, CGT; a lettere cubitali, e tra le due icone, un alto arco è composto dai nomi degli idoli: Perón-Eva-Perón.
Alle 17.30 in punto, annunciato con voce stentorea da uno degli uomini sul palco, fa il suo ingresso Juan Domingo Perón. Fu in quel momento che Dominico prese in braccio suo figlio e Pedro avrebbe ricordato per il resto della sua vita l’emozione provata non tanto e non solo per aver guadagnato una visuale adulta, ma perché ebbe la certezza che il padre avesse voluto innalzarlo verso il Presidente, come a cercare una benedizione, un viatico sacro. Il gesto gli parve intriso di orgoglio e di commozione. E per un breve istante si illuse che il caudillo addirittura lo guardasse, guardasse proprio lui e nessun altro, negli occhi, compiaciuto. Poi, più niente.
Una panoramica dall’alto inquadra centinaia di migliaia di fazzoletti e bandiere sventolanti, un muro che all’improvviso si erge dal nulla, e la massa in delirio sembra, anche se non ha lo spazio per farlo, protendersi come un’amante desiderosa verso il Generale.
Eccolo qui, finalmente. Alto, massiccio, i capelli imbrillantinati, si affaccia salutando con il consueto gesto delle braccia aperte levate in alto. È in abiti civili, il solito sorriso alla Gardel, l’aria bonaria di un padre di famiglia che si concede qualche scappatella ma torna sempre a casa la sera.
Eva, invece, non c’è.

2

Quando vidi Perón arrivare da solo ebbi un brutto presentimento. Temetti il peggio. Ma ero sul palco insieme a una ventina di compagne della delegazione del Partito peronista femminile, e tutte sapevano della mia amicizia con la Signora. Mi sforzai di mantenere un’espressione serena, però quelle mi guardavano e mi guardavano, come se volessero chiedermi “Nélida, allora, che succede?”. I loro occhi erano un nugolo di vespe; fortunatamente il Generale cominciò a parlare e voltai la testa verso di lui.
Il mio compito in quelle giornate frenetiche era stato di portare quattrocento lavoratori dalla provincia di Tucumán e di sistemarli nella Capitale tra case di compagni del sindacato, pensioni di fortuna e l’Hotel de Los Inmigrantes. Correvo da una parte all’altra della città lasciando a tutti la stessa consegna: la mattina del 22 dovevano alzarsi non oltre le quattro e dirigersi verso la Nueve de Julio per occupare una posizione centrale.
Il pomeriggio della vigilia del Cabildo Abierto la Signora mi mandò a chiamare. Mi ricevette a Palazzo Unzué, la residenza presidenziale. Si trovava tra Austria e Alvear, quasi di fronte a plaza Francia, dove adesso c’è la Biblioteca Nacional… Aveva un’architettura bellissima, sa? Pensare che quei selvaggi la demolirono, dopo il colpo di Stato del ’55… Dov’eravamo rimasti? Ormai perdo spesso il filo, mi scusi. Ecco, a Palazzo Unzué. Mi aspettava nel salottino che comunicava con la stanza da letto: non era la prima volta che mi riceveva lì, e in quelle ore c’erano mille buone ragioni per venire convocata d’urgenza.
Mi sembra di vederla come se l’avessi qui, adesso, davanti ai miei occhi. Non le dico niente di nuovo, alla mia età si dimentica cosa si è mangiato a pranzo e si ricorda il colore del vestito che indossavamo a sei anni la domenica di Pasqua.
Portava dei pantaloni scuri e una camicia, di seta forse, piuttosto ampia. Stava raggomitolata su una poltrona, con i capelli sciolti sulle spalle. Lei sa che li teneva sempre raccolti in uno chignon basso, certo, le stava bene, le donava, ma appena possibile se ne liberava come un soldato della sua armatura, infatti la prima cosa che faceva quando tornava a casa era sciogliersi i capelli. Ma sto divagando, mi scusi…
Non mi ero ancora seduta nella poltrona di fronte alla sua che mi disse: «De Miguel, non sarò vicepresidente».
Non mi ha mai chiamato Nélida, mai, sempre con il cognome, De Miguel. Sentii le gambe che mi cedevano.
«Signora, ma che sta dicendo?» balbettai. Ero confusa, spaventata. Dal ’48 lo slogan più diffuso era Perón cumple, Evita dignifica (Perón realizza, Evita dà dignità); non era più soltanto la moglie del Presidente, porca miseria, ma il cuore stesso del peronismo, e adesso si chiamava fuori? O era impazzita, oppure stava succedendo qualcosa di grave. Molto grave.
«Quello che hai sentito» mi rispose.
«Ma stiamo lavorando da mesi per questo…» mi azzardai a replicare.
«Torno subito» mi disse alzandosi. Andò in bagno e ci rimase un bel pezzo, mentre io restavo a tormentarmi. Che cosa aveva potuto farle cambiare idea, e a poche ore da quella manifestazione che si preannunciava oceanica? Perché già da aprile Buenos Aires era tappezzata con la sua immagine e con i manifesti che invitavano a votare “Perón-Eva-Perón. La formula della Patria”, in vista delle elezioni dell’11 novembre; sarebbero state le seconde dell’era Perón, ma le prime della storia argentina in cui, grazie a Evita, avrebbero votato le donne. Era stata la CGT a organizzare tutto, ma nessuno nel sindacato – tantomeno il segretario, Espejo, l’uomo a lei più vicino – si sarebbe azzardato a imbastire una campagna di quella portata senza il suo consenso.
Sarei una bugiarda se dicessi che non avevo mai sentito parlare della sua malattia. Nel gennaio del 1950 era stata operata di appendicite da Oscar Ivanissevich, un grande luminare che poi all’epoca era anche il ministro dell’Educazione. Soltanto molto tempo dopo si è saputo che già in quella occasione le era stato scoperto un cancro all’utero. E sia prima sia dopo l’intervento le era capitato di svenire più di una volta in pubblico, dopo un comizio, e anche in Fondazione, mi era stato riferito. Si sapeva che aveva una salute cagionevole, circolavano voci di una forte anemia e sussurri sempre più insistenti di qualcosa di grave, ma quando tornò a sedersi davanti a me, non pallida, cadaverica, mi resi conto che era tutto vero: la Signora aveva il cancro e stava morendo.

3

È vero, ci muovemmo da soli dalla Residenza, la Signora, io e la scorta, come d’abitudine nelle occasioni ufficiali – il mio ruolo di segretario personale dei Perón lo prevedeva. In auto non disse neppure una parola, era tesissima, continuava a tormentare la frangia dello scialle che aveva preso all’ultimo momento perché si stava alzando il vento, e non faceva che chiedere: «Renzi, sai quante persone sono già in piazza? Renzi, sono stati distribuiti i pasti alla Recoleta?», ma erano domande utili a coprire quel silenzio elettrico che ormai saturava l’aria nella macchina; lei era distratta, lontana, la conoscevo abbastanza per capire che aveva la testa da un’altra parte.
Sapeva che c’era molto in gioco. Da mesi eravamo circondati da cospiratori, da voci – più ancora che sussurri – di un golpe imminente, e i militari avevano apertamente minacciato Perón. O noi o lei. Eravamo nel ’51 e per quella gente una donna vicepresidente significava un affronto personale, un abominio; peggio, un’eresia.
Il Generale era un politico, un mediatore nato, e nell’esercito ci era cresciuto, lo considerava la sua famiglia. Neppure nel ’55, quando lo deposero, ebbe il coraggio di ingaggiare la battaglia finale…
Lei vuol sapere se Perón era stato chiaro con Eva sulla sua candidatura. Purtroppo non posso risponderle, semplicemente perché la chiarezza non era tra le tante virtù del Generale: notoriamente dava ragione all’interlocutore, lo rassicurava con ampi cenni del capo, gli manifestava il suo pieno assenso, per poi fare la stessa cosa con quello successivo, sostenitore di una tesi o di una richiesta opposta. Diciamo che, più che altro, andava interpretato.
Così posso affermare senza alcun timore di smentita che nei giorni che precedettero il 22 agosto la Signora era alla ricerca affannosa del suo consenso, e le assicuro che non capitava spesso. «Cosa devo fare?» gli domandava conti...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La versione di Eva
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. 22
  26. 23
  27. 24
  28. 25
  29. 26
  30. 27
  31. 28
  32. 29
  33. 30
  34. 31
  35. 32
  36. 33
  37. 34
  38. 35
  39. 36
  40. 37
  41. 38
  42. 39
  43. 40
  44. 41
  45. 42
  46. 43
  47. 44
  48. 45
  49. 46
  50. 47
  51. 48
  52. 49
  53. 50
  54. 51
  55. 52
  56. 53
  57. 54
  58. 55
  59. 56
  60. 57
  61. 1970
  62. Tornerò e sarò milioni
  63. Ringraziamenti
  64. Copyright