Donne fragili e vaporose, fate dalle mani dolci, aliti leggiadri della casa che in silenzio fanno nascere l’ordine e la bellezza, donne senza voce, sottomesse: nel paesaggio della mia infanzia, per quanto mi sforzi, non riesco a vederne molte di donne così.
Annie Ernaux
Il silenzio è una categoria reggente pedagogica e rappresenta il luogo privilegiato in cui prende forma la capacità di ascolto autentico; è – per ricorrere a una felice definizione – il momento aurorale dell’ascolto [1] . Il silenzio ha un profondo senso pedagogico perché permette di riappropriarsi del sé, è indipendente da ogni forma di linguaggio e avvolge le parole [2] . È necessario, però, che il silenzio sia una scelta, una possibilità e non una imposizione, non deve essere l’esito di una imposizione censoria, conviene riflettere sulla condizione delle donne, che per molto tempo è stata descritta attraverso la metafora del silenzio e dell’invisibilità [3] .
La scrittura quando descrive assenza di parola genera silenzio, ma può essere anche un formidabile strumento per liberarsi e liberare dal silenzio coloro che vi sono costretti da convenzioni sociali. Al silenzio rimandano l’assenza di suoni e rumori, ma anche il linguaggio non verbale, gli sguardi, i protagonisti incapaci di esprimersi se non attraverso deboli vocalizzi e la forma delle statue con le braccia conserte.
Il tacere può essere esso stesso un atto comunicativo, ma può essere praticato come scelta soltanto da chi ha diritto di parola, altrimenti diviene una imposizione. Se il silenzio è imposto è necessario che qualcuno restituisca la possibilità di esprimersi a chi ne è privo. In questa ultima prospettiva la narrativa di Anna Maria Ortese è un esempio efficace nella sua duplice veste di racconto prima dell’esperienza di una donna che nel secolo scorso ha lottato, come tante altre, per farsi largo nel mondo degli scrittori e poi si è fatto strumento di lotta per restituire la parola ai deboli, che nell’ultima fase della produzione di Ortese sono stati i bambini e gli animali.
Le donne ancora oggi, purtroppo, faticano a rompere degli schemi sociali ormai radicati. La violenza fisica e morale, che negli ultimi tempi è esplosiva e continua a riempire le pagine di cronaca nera, è il punto di arrivo e va considerato come l’esito e non la causa. Dovremmo chiederci perché per alcuni risulta culturalmente difficile permettere a una donna di “parlare” e di affermare la sua esistenza.
Ridurre al silenzio è stata una pratica ben sfruttata contro le donne, come è stato una volta in più dimostrato da Bruna Bertolo nel suo Donne e follia in Piemonte. Storie e immagini di vita femminili rinchiuse nei manicomi. La studiosa ha lavorato nell’archivio dell’ex manicomio di Collegno che ha restituito storie di donne messe a tacere, dimenticate e allontanate dal mondo dei vivi perché si erano ribellate a umiliazioni familiari e a costrizioni coniugali, oppure erano ritenute troppo “facili” o troppo “maschie”. Le loro esistenze poco avevano avuto a che fare con la malattia mentale, accampata da chi ha voluto mettere a tacere una donna [4] .
A guardare indietro, alle basi fondanti della nostra cultura, verifichiamo agilmente che la misoginia è già nel mito della creazione della donna. Ha causticamente chiosato Bettini, infatti, che è stato concepito all’interno di una cultura profondamente misogina. La prima donna si chiamava Pandora, «e anche lei, naturalmente, era stata costruita impastando fango ed acqua, come sempre accade quando si costruisce il primo elemento di una serie, il primo membro di una stirpe». Per volere di Zeus è plasmata e resa affascinante da tutti gli dei. Afrodite le ha donato la cintura, Atena le ha soffiato nel petto, Ermes le ha donato l’eloquenza. Pandora, che seduce tutti gli uomini, rappresenta la capostipite di una stirpe sciagurata. La cultura greca arcaica è misogina, sempre sospettosa delle donne, e quando può ne traccia un quadro negativo.
La creazione della donna è attribuita a un castigo inflitto all’uomo. La splendida Pandora, infatti, è una portatrice di sciagura perché reca con sé un orcio che racchiude tutte le malattie, tutte le disgrazie, «tutto ciò che è destinato a rovinare la serenità e la felicità di questa comunità di maschi», tra i quali c’è uno sciocco, Epimeteo, che apre l’orcio: da questo momento in poi gli uomini avranno guadagnato le donne, ma anche tutti i mali e le sventure. I maschi hanno bisogno delle donne, ne sono affascinati, ma sentono di doverle controllare. La donna va protetta, ma anche sorvegliata, è «fabbricata da una cultura che, in questo modo, è riuscita a delimitare gli spazi e i confini entro i quali essa deve esprimersi» [5] . La storia ebbe inizio con il mito di Pandora, che rappresenta la naturalizzazione del pregiudizio misogino [6] .
Del resto nell’ Iliade la donna è assimilata al dono, è quel bottino di guerra che certificava il prestigio e il valore dell’eroe. Criseide e Briseide non hanno alcuna possibilità di parola, né di scelta. Le donne nella società greca arcaica sono in una posizione subalterna, confinata alla casa e dedita ai figli. Non parlano, ma in alcuni casi si dedicano alla tessitura. La metafora della scrittura come tessitura resta legata al mondo di tante autrici, si pensi solo alla “ragnatela d’argento” di Anna Maria Ortese e alla “tela favolosa” di Elsa Morante [7] .
La tessitura appartiene al personaggio polytropos di Penelope che, pur restando confinata alle mansioni domestiche, presenta tratti in comune con Ulisse. È, infatti, paragonabile a colui che ha navigato perché ha tessuto con la “navetta” e possiede la metis – «astuzia usata in genere nell’esercizio delle tecniche» [8] – che ha permesso al marito di tessere inganni. La tessitura equivale anche alla scrittura perché sulla tela si generano l’ordito del tessuto e la trama del poema [9] . Con un vertiginoso salto temporale possiamo dire compiuta l’evoluzione della protagonista femminile che silenziosa nell’ Odissea diviene una cantante nell’ Ulisse di Joyce [10] .
Nel monumentale affresco dedicato alla Scuola di Atene Raffaello dipinse un’unica figura con lo sguardo rivolto verso l’esterno, quella di Ipazia d’Alessandria, filosofa neoplatonica che nel 415 d.C. era diventata la prima martire pagana, perciò fu simbolicamente massacrata durante la quaresima. Essendo colta e bella dovette apparire come una vera tentazione diabolica. Ipazia è una delle poche donne di cui l’antichità ci abbia tramandato la memoria, ma anche il suo terribile destino: essere confinata al silenzio.
Si potrebbe obiettare che le donne «hanno illuminato come fiaccole accese le opere di tutti i poeti, dei drammaturgi, degli scrittori in prosa, da Clitennestra a Cleopatra, da Anna Karenina a Emma Bovary. Donne con personalità ben definite, ma è facile rendersi conto che queste sono le donne raccontate dagli uomini, sono quelle della letteratura, perché nella realtà la donna «veniva rinchiusa, picchiata e maltrattata» [11] e spesso costretta al silenzio.
Trovare il modo di ridare la parola a chi è stato troppo spesso confinato nel silenzio è uno dei compiti della narrativa. Ingeborg Bachmann, in una delle sue lezioni, ha sottolineato, come caratteristiche del Novecento, proprio le «cadute nel silenzio», le cui cause, «ma anche i motivi per riemergere dal silenzio», app...