In
ogni singolo libro della Bibbia, tanto dell’Antico o Primo
Testamento che del Nuovo Testamento, la terra è presente in misura
più o meno rilevante, se non altro in quanto elemento di sfondo o
come riferimento implicito della narrazione.
Nei Vangeli, pur diversi tra loro in quanto destinati a
differenti comunità, al centro della trattazione non sta ovviamente
la preoccupazione per l’ambiente naturale o per il paesaggio ma una
sintetica esposizione della vita e delle opere di Gesù il Nazareno.
La terra tuttavia, quel territorio chiamato allora Palestina ed
abitato dal popolo di Israele, è ingrediente costante e
imprescindibile delle narrazioni formulate dai quattro evangelisti.
Tanto più che il protagonista ricorre continuamente, nel suo
linguaggio e nella sua predicazione itinerante per le strade e i
villaggi di Galilea e di Giudea, a citazioni di elementi naturali
colti nella loro concretezza o fatti oggetto di similitudini,
metafore e allusioni nell’annuncio della buona novella e
specialmente nell’esposizione delle parabole. Come hanno rilevato
gli studiosi, Gesù conosce bene la realtà che lo circonda: nelle
sue parole sono nominate complessivamente una trentina di animali
diversi, altrettanti vegetali e più di venti altri elementi
naturali (
Salvarani 2018, 135).
Non va dimenticato che la terra abitata dagli ebrei è stata a
lungo ambita e bramata come la Terra promessa. Si tratta di
quell’ambito territoriale che malgrado la promessa di Jahvé sembra
sempre sfuggire: essa non potrà essere raggiunta durante i
quarant’anni dell’Esodo trascorsi dal popolo che, in provenienza
dall’Egitto, vaga nel deserto. In questa terra sospirata neppure il
grande condottiero di Israele, Mosè, avrà la gioia di poter
entrare: egli dovrà limitarsi, prima di morire, a guardarla
dall’alto del monte Nebo, un’altura al di qua del fiume Giordano
attualmente situata in Giordania.
E anche dopo l’entrata nella Terra promessa non cesseranno i
problemi e i confronti con gli altri popoli confinanti. Decisiva
sarà nell’esperienza e nella memoria di Israele la deportazione e
l’esilio a Babilonia nel VI secolo a.C., con il ritorno successivo,
dopo diversi decenni, a Gerusalemme. Una terra contesa, dunque, e
per questo tanto più amata e agognata. È qui che dovrà nascere il
Messia, il salvatore unico e definitivo di Israele. Ed è in questa
terra che sorge Gerusalemme, la città per antonomasia, quella che
ospita l’unico tempio del Santo Benedetto, il luogo di culto
costruito da Salomone che è assolutamente insostituibile in quanto
custodisce l’arca dell’alleanza.
Ai tempi di Gesù la Palestina soffriva la dura dominazione
dell’impero di Roma ma era riuscita a mantenere la propria libertà
di culto e a preservare il tempio di Gerusalemme, con i riti
quotidiani e annuali che vi erano connessi. Sappiamo che il tempio
venne poi definitivamente distrutto nel 70 d.C. dai Romani (da
Tito), determinando la perdita della terra e la grande diaspora del
popolo di Israele. Il tempio, di cui resta attualmente in piedi un
muro, il cosiddetto Muro del pianto sacro agli Ebrei, non è più
stato ricostruito.
È importante poi osservare che i cristiani chiamano questo
ambito territoriale Terrasanta, a motivo della presenza terrena su
di essa di Gesù Cristo e quindi del Santo Sepolcro dopo la sua
morte. Già dai primi secoli dell’era cristiana iniziarono i
pellegrinaggi in Palestina, a partire probabilmente da quello di
Elena, madre dell’imperatore Costantino. Le crociate, che si
svolsero tra l’XI e il XIII secolo, indicano fino a che punto il
controllo di questa terra fosse ritenuto essenziale per l’Occidente
cristiano, in conflitto con il mondo islamico che nel frattempo
aveva assunto il dominio di questi luoghi.
Persino all’epoca delle crociate, tempo di violenze sanguinose
tra guerrieri cristiani e musulmani che troverà ampia eco nella
letteratura (basti pensare in Occidente all’Ariosto e al Tasso), vi
furono, anche se raramente, composizioni poetiche capaci di
commozione e di stupore per quella terra di Palestina in cui il
Salvatore era nato e aveva vissuto. Ne testimonia in modo singolare
ed emozionante un canto del grande
Minnesänger o trovatore di area germanica Walther von der
Vogelweide. In un suo Lied del 1228, di cui si propone di seguito
qui una libera interpretazione lirica, egli esprime i sentimenti di
un cavaliere che sta per arrivare con la nave in Terrasanta e ne
coglie la bellezza trasfigurata dall’immaginazione poetica e
rappresentata attraverso una fede semplice ed ingenua:
Lungo fu il viaggio per mare
all’alba arrivammo a una proda
gli altri gridavano io caddi
in ginocchio su questa terra
terra che dicono santa
in fede mia non vidi mai
sì pura e nobile terra
e luminosa e dolce
è qui sapete
ch’Egli camminò nella carne
tra queste rive e colli
parlò con la sua voce
chiamò i dodici amici
e operò mirabili cose
qui in un villaggio
di Palestina una ragazza
generò un bimbo
signore degli angeli e dei cieli:
non è stato, questo,
il miracolo più grande?
(“Palästinalied”, in Gasparini 1988. La poesia si ispira
liberamente all’omonima composizione di W. von der Vogelweide,
1228)
Tralasciamo in questa sede una sia pur sintetica esposizione
delle travagliate e complesse vicende politiche che riguardano
questa terra attraverso gli ultimi duemila anni di storia, le
continue contese tra popoli e religioni diverse, l’attiva presenza
a Gerusalemme di fedeli di tre religioni, l’Ebraismo, l’Islam e il
Cristianesimo (distinto in confessioni diverse che si dividono
tempi e spazi nell’accesso alla Basilica del Santo Sepolcro).
Gerusalemme è una città unica al mondo per la compresenza
pluralistica e spesso conflittuale di tali componenti religiose e
delle culture che ad esse si richiamano. Se duemila anni fa essa
era il luogo-centro della religione di Israele, oggi la sua
centralità non riguarda soltanto gli ebrei ma i fedeli di due altre
grandi religioni del mondo: i cristiani, per i quali soltanto Roma,
sede del papato e centro della Chiesa cattolica, può eguagliarne la
rilevanza; per i musulmani, per i quali Gerusalemme nella gerarchia
dei luoghi è terza per importanza dietro alla Mecca e a Medina,
avendo ospitato l’inizio del volo mistico in cui Maometto ascende
al cielo.
Nell’affrontare il tema della terra di Palestina, sfondo e
orizzonte dei racconti evangelici, siamo in un certo senso
facilitati dal fatto che essa presenta oggi tratti non molto
dissimili rispetto a quelli che aveva presumibilmente ai tempi di
Gesù. Anche a prescindere dalla persistente centralità della città
di Gerusalemme, troviamo su questa terra – dove sono attualmente
compresenti in termini conflittuali lo stato di Israele e la
Palestina/Territori palestinesi – le stesse aree principali di
duemila anni fa: la Giudea aspra e in parte desertica al sud, la
Samaria (considerata allora terra di eretici) al centro, la Galilea
con il lago di Genezareth e le dolci colline al nord. Resta a ovest
la presenza del mare Mediterraneo, fattore fondamentale di
collegamento con gli altri paesi limitrofi. In Giudea, poi, va
segnalata la presenza di una antica città come Gerico, nominata
anche nei Vangeli, che sorge in un’oasi ai margini del deserto a
circa duecentocinquanta metri sotto il livello del mare, non
lontano dalla profonda depressione del Mar Morto.
La Palestina (privilegiamo d’ora in poi questa dizione,
prescindendo dai conflitti in corso da oltre 70 anni, dopo la
proclamazione nel 1948 dello stato di Israele) resta una terra
essenzialmente mediterranea, con le caratteristiche conseguenti in
termini di clima e di coltivazioni. In essa si alternano due
stagioni, quella estiva da maggio a ottobre e quella invernale da
novembre ad aprile. Occorre tener conto, inoltre, di certe
innovazioni nelle coltivazioni introdotte in Israele negli ultimi
decenni e più in generale dei cambiamenti in atto a motivo del
global warming che ha investito il pianeta.
Sappiamo da ricerche svolte ad hoc che negli ultimi 4000 anni la
flora della Palestina non è cambiata, salvo che per l’introduzione
recente di alcune specie esotiche (Grilli Caiola et al. 2013, 23).
Anche questo è un elemento che ci consente di avvicinarci al tema
della natura e del paesaggio con un certo agio: i fiori che vediamo
oggi sbocciare in Terrasanta, soprattutto a primavera, sono in gran
parte gli stessi che potevano osservare gli autori e i protagonisti
delle narrazioni evangeliche, al pari – del resto – dei loro
predecessori in Israele, quelli di cui rendono conto molti libri
del Primo Testamento.
Per quanto riguarda le coltivazioni, le narrazioni dirette della
vita di Gesù e i contenuti delle sue parabole danno spesso atto del
carattere mediterraneo di questa terra, con il grano, la vite,
l’ulivo. Ricorrente è il riferimento al frumento e alle sue spighe,
così come alla vigna e ai suoi tralci: il pane che viene dal
frumento e il vino che si distilla dall’uva assumeranno nell’Ultima
cena consumata con gli apostoli un valore eccezionale, dal momento
che per i credenti l’uno e l’altro si trasformano o transustanziano
nel corpo e nel sangue del Cristo. Sempre nel contesto del Giovedì
santo (Gv 15, 1-6), viene evocata da Gesù l’immagine
dell’agricoltore (il Padre) che coltiva la vite (il Figlio) nella
quale si innestano i tralci portatori di frutti (i discepoli).
Non si possono dimenticare poi i frequenti accenni al fico,
pianta spontanea e coltivata diffusa nel mondo mediterraneo: più
volte Gesù ne parla in termini concreti e simbolici, a proposito
della capacità di offrire frutti. Vi è poi un brano in cui Gesù
allude a una pianta che si fa tenera nei rami, quando appaiono le
prime foglie e da questo si capisce che l’estate è vicina: si
tratta appunto del fico (Mt 24, 32).