Una pioggerella leggera era caduta sulla città, lavando via le macchie che imbrattavano i marciapiedi e trasformando gli schizzi di sangue in un unico lungo flusso che scorreva per le strade come un secondo fiume.
Quando Juliette uscì dall’edificio dei laboratori, riemergendo con cautela nella luce del tardo mattino, la strada era deserta. Da un po’ regnava il silenzio. Gli spari, le grida e il fragore metallico non erano andati avanti per molto; dopotutto, i nazionalisti e gli Scarlatti avevano invaso la città con armamenti militari. Quanti si erano trovati a essere il bersaglio della loro violenza si erano arresi in fretta.
«Qualcosa non va, dorogaya.»
Juliette si voltò a osservare Roma che usciva allo scoperto, tenendo per mano Alisa. Si guardava intorno con aria nervosa.
«È troppo tranquillo.»
«No» ribatté lei. «Penso solo che tutti i rinforzi siano stati chiamati altrove. Ascolta.»
Alzò un dito, piegando il capo al vento. La pioggia iniziò a cadere più forte, trasformandosi in un vero e proprio rovescio, ma sotto al rumore degli scrosci giungevano voci, come di gente che urlava.
L’espressione di Roma si indurì. «Muoviamoci.»
Il primo drappello di persone che incrociarono fu una sorpresa. Roma andò nel panico, Alisa si pietrificò, ma Juliette li spinse entrambi per le spalle, costringendoli a proseguire. Erano solo manifestanti – studentesse universitarie, a giudicare dagli indumenti semplici e dai capelli raccolti in trecce –, tuttavia erano troppo impegnate a gridare slogan per accorgersi che tre gangster stavano passando accanto a loro.
«Continuate a camminare» li ammonì Juliette. «A testa bassa.»
«Che sta succedendo?» domandò Alisa, alzando la voce per farsi sentire al di sopra della pioggia. «Pensavo che fosse in corso un’epurazione. Perché non hanno paura?»
Aveva i capelli biondi appiccicati al collo e alle spalle. Juliette non era ridotta molto meglio; se non altro, non si era disturbata ad arricciarli sulla fronte, quindi aveva solo qualche ciocca nera sul viso, senza cera che le colasse giù come colla.
«Perché non puoi uccidere tutti quanti in un giorno solo» ribatté lei in tono amaro. «Si sono concentrati sugli obiettivi più importanti sfruttando l’elemento sorpresa. Dopodiché, il fronte operaio continua ad avere affiliati. Finché la gente in cima alla catena di comando continuerà a lanciare un grido, ci saranno sempre le persone più in basso pronte a rispondere.»
E infatti eccole là. Più Roma, Juliette e Alisa camminavano, immergendosi nel cuore della città e avvicinandosi al Bund, più la folla si faceva numerosa. Divenne sorprendentemente chiaro che quanti si erano riversati in strada si stavano radunando in un’unica direzione: a nord, lontano dal lungofiume e verso Zhabei. Ma ormai non erano più solo studenti. Gli operai tessili erano in sciopero, i conducenti di tram avevano abbandonato il posto di lavoro. A prescindere da quanto fossero diventati potenti i nazionalisti, non avevano potuto nascondere la notizia dell’imminente epurazione. Per quanta paura incutesse un tempo la Gang Scarlatta, ormai aveva perso la presa sulla città. Non potevano tornare a sottomettere la gente a suon di minacce. Il popolo non avrebbe tollerato l’omicidio e l’intimidazione. Avrebbe fatto sentire la propria voce.
«Nessuno sta andando nella nostra direzione» notò Alisa mentre svoltavano su una strada principale. Là, i numeri erano quasi sconvolgenti. Se le persone in fondo alla coda avessero dato uno spintone, la calca sarebbe rimasta imbottigliata. «Non verremo scoperti andandocene via mare?»
Roma tentennò, in apparenza d’accordo con lei. Quel fugace momento di esitazione lo fece quasi andare a sbattere contro un operaio, anche se l’uomo non batté ciglio e si limitò a ricominciare a gridare: «Abbasso gli imperialisti! Abbasso i gangster!» e continuò ad avanzare.
«Dobbiamo correre il rischio» rispose Roma, con gli occhi ancora fissi sul lavoratore. Quando l’altro si voltò dall’altra parte, Roma incrociò lo sguardo di Juliette, che cercò di abbozzare un sorriso. «Non c’è alternativa.»
«E perché non attraverso la campagna?» continuò a chiedere Alisa. Il suo passo si fece incerto. «Qui è il caos!»
Stavano ormai raggiungendo il Bund. Giunsero in vista degli edifici dall’aspetto solitamente pittoresco – le colonne Art Déco e le cupole alte e scintillanti –, ma tutto appariva ovattato dalla luce del giorno. Il mondo era avvolto in un sudario grigio, fermo immagine di un film girato con una lente non del tutto pulita.
«Alisa, tesoro» disse Juliette in tono pacato. «Siamo già soggetti alla legge marziale. Il comando comunista si sta dando da fare per scappare, mentre quello nazionalista vuole eliminare tutti quanti. Se anche riuscissimo a deviare per la campagna e a raggiungere un altro porto marittimo per fuggire, i nazionalisti sarebbero già là e verremmo fermati. Qui almeno possiamo approfittare della confusione.»
«Allora dove sono loro?» domandò Alisa. Quando arrivarono al Bund e intravidero le onde sciabordanti del fiume Huangpu, la ragazzina si guardò intorno, scrutando al di là dei manifestanti, delle grida e dei cartelli sventolati in aria. «Dove sono i nazionalisti?»
«Guarda dove stanno andando tutti quanti» disse Juliette, chinando il capo. “A nord.” Ora che la terra era intrisa di tutto il sangue comunista appena versato, il Kuomintang stava rivolgendo la propria attenzione sulle centrali di polizia e sui presidi militari appena abbandonati, assicurandosi di mettere la propria gente dietro le scrivanie. «I nazionalisti sono in giro a rafforzare le basi del potere. Anche gli operai si dirigeranno là... Si ammasseranno verso quei presidi nella speranza di fare la differenza.»
«Non rilassarti troppo» commentò Roma. Prese il viso della sorella e glielo fece voltare, spostandole il mento fino a farle alzare lo sguardo su un punto di particolare agitazione in mezzo alla folla. «Anche se i nazionalisti non ci sono, hanno piazzato Scarlatti ovunque.»
Juliette trattenne il fiato per un secondo, che si perse quasi nel nulla in una città in tumulto. Sfiorò il gomito di Roma e lui le strinse la mano. Erano entrambi bagnati fradici, così come lo era il filo legato intorno ai loro anulari, ma Roma la strinse con delicatezza, come se si stessero solo tenendo per mano in una passeggiata mattutina.
«Andiamo» disse Juliette. «Con tutta questa gente, cerchiamo un buon posto in cui aspettare.»
A Zhabei, i membri sopravvissuti del comando del Sindacato generale dei lavoratori si gridavano addosso a vicenda e battevano il pugno sui tavoli. Gente in completo si mescolava a gente in tuta da lavoro. Celia era seduta in fondo a guardare, il viso completamente impassibile. Stavano occupando un ristorante trasformato in presidio, con i tavoli e le sedie ammassati di qua e di là e un gruppo più ampio al centro per guidare i lavori. Non riusciva a capire come facessero a farsi sentire al di sopra del frastuono, eppure ci riuscivano: comunicavano e agivano più in fretta che potevano.
Era stata redatta una petizione. “Restituzione delle armi sequestrate, cessazione delle punizioni ai danni dei lavoratori del sindacato, protezione del Sindacato generale dei lavoratori”: queste erano le richieste raccolte e poi arrotolate, pronte da portare al quartier generale della Seconda divisione dei nazionalisti. Anche se li avessero uccisi, i comunisti non avrebbero accettato la sconfitta.
«In piedi e al lavoro, ragazza!» le gridò qualcuno nell’orecchio. Prima che Celia potesse voltarsi e vedere chi fosse, l’uomo si mescolò tra la calca e si mise a strillare agli altri. I lavoratori agitavano il pugno in aria e si urlavano addosso a vicenda e gli slogan uscirono dalle loro bocche prima ancora che la protesta in città potesse cominciare.
«No al governo militare!» tuonavano, ridendo mentre si spintonavano gli uni con gli altri, riversandosi per le strade e sotto la pioggia battente. «No al dominio della malavita!» gridò il bambino di fronte a lei.
Celia si precipitò fuori dal ristorante, sull’asfalto e sotto la pioggia. Le strade brulicavano di vita. Non più per le scintillanti e ammalianti ricchezze di Shanghai, le luci forti e la musica jazz dei locali. Non più per le lanterne rosse e il pizzo dorato sugli abiti delle ballerine dei club di burlesque, dove bastava uno sventolio di stoffa per far accorrere la gente a frotte.
Quella vita sgorgava dalle viscere stesse della città, sorgendo tra le ceneri delle fabbriche con i soffitti bassi.
Celia alzò il pugno.
Fu una nuova serie di passi che entravano nell’ufficio a costringere finalmente Benedikt ad animarsi e a riscuotersi dallo stato di trance in cui era piombato per rimanere in silenzio. Il modo in cui il rumore giunse al suo orecchio: scarpe strascicate sul pavimento in maniera intenzionale.
Benedikt non ebbe bisogno di vederlo per capire che era Marshall, né per immaginare che lui avesse le mani infilate in tasca.
«Le auto che ha mandato Lord Cai sono qui» annunciò. Faceva il disinvolto, ma il suo tono era teso. «Sono pronte per tutti quanti.»
Benedikt ascoltò con attenzione, cercando di capire quanti nazionalisti stessero prendendo i cappotti dagli schienali delle sedie e sfilando fuori dalla stanza. L’ufficio non si era riempito del tutto, eppure non udì abbastanza passi che uscivano. In effetti scoprì di avere ragione quando iniziò un’altra conversazione tra il generale Shu e qualcun altro, due voci che discutevano della prossima mossa da fare contro i comunisti fuggiti.
«Érzi» disse a un tratto il generale per attirare l’attenzione di Marshall. «Dove sono le lettere per il comando centrale?»
«Intendi le schifose buste che ho chiuso leccandole personalmente?» domandò il figlio. «Le ho messe lì dentro. Ci servono adesso?»
C’era stata una pausa nel suo discorso. A scoppio ritardato, Benedikt si rese conto che l’attimo di esitazione era dovuto al fatto che Marshall aveva indicato qualcosa. E l’unico posto da indicare era... lo sgabuzzino dell’archivio.
«Valle a prendere, ti dispiace? Dobbiamo andarcene tra pochi minuti.»
«Sissignore.»
Dei passi, stavolta diretti verso di lui. Benedikt si guardò intorno in preda al panico. In fondo allo stanzino, c’era una piccola scatola di cartone e immaginò che fosse proprio quella che Marshall dovesse andare a prendere. Avanzò verso la scatola, poi esitò, fermandosi a tre passi di distanza quando lui aprì la porta, entrò e la richiuse dietro di sé.
Marshall premette l’interruttore della luce. Alzò lo sguardo. Spalancò gli occhi.
«Ben...»
Benedikt gli tappò la bocca con la mano, in uno slancio talmente impetuoso che andarono a sbattere entrambi contro uno degli archivi, stretti l’uno all’altro a tal punto che Benedikt riusciva a sentire l’odore di fumo sulla pelle di Marshall e a contargli le rughe che gli increspavano il sopracciglio mentre cercava di non divincolarsi.
“Che diavolo ci fai tu qui?” sembrava gridare Marshall con gli occhi.
“Tu che ne dici?” rispose in silenzio Benedikt.
«Che è successo?» domandò il generale Shu dall’esterno. Aveva udito il tonfo.
Con cautela, Benedikt tolse la mano dalla bocca di Marshall. Per il resto non si mosse.
«Niente. Ho sbattuto il dito del piede» rispose lui in tono indifferente. Senza riprendere fiato, abbassò la voce a un sussurro impercettibile e sibilò: «Come sei entrato? Il Kuomintang ha emesso un ordine di esecuzione contro i Montagov, e tu ti consegni dritto alla sua porta?».
«Non grazie a tuo padre» ribatté Benedikt, a voce altrettanto bassa. «Quando avevi intenzione di dirmi...»
«Pessimo tempismo, pessimo tempismo» lo interruppe Marshall. Inspirò a fondo: il loro petto si alzò e si abbassò all’unisono. Mars indossava l’uniforme e ogni bottone dorato e lucido sulla giacca premeva contro la pelle di entrambi. Sembrava che le pareti si stessero chiudendo su di loro, rimpicciolendo ancora di più lo spazio.
Poi Marshall si staccò all’improvviso, stringendosi nel passaggio angu...