Trascorsi alcuni giorni, Juliette non riusciva a pensare ad altro che alla follia. Ormai reagiva a malapena quando la chiamavano per nome. Aveva orecchie solo per il rumore di grida e ogni volta che le sentiva risuonare per le strade sussultava, desiderando… smaniando per fare qualcosa.
“Un mostro” rifletté Juliette, i pensieri che si rincorrevano in un circolo vizioso mentre se ne stava appoggiata alle scale ad aspettare. “C’è un mostro che diffonde la follia per le strade di Shanghai.”
«Pronta per andare?» la chiamò dall’alto Lord Cai, fermandosi in cima alle scale per sistemarsi il colletto del soprabito.
Juliette si sforzò di tornare al presente. Sospirando, rigirò la piccola pochette fra le mani.
«Pronta come sempre.»
Lord Cai scese il resto della scalinata, poi si fermò di fronte alla figlia con aria accigliata. Juliette abbassò lo sguardo su di sé, cercando di capire cosa avesse causato la disapprovazione di suo padre. Indossava uno dei suoi abiti americani, stavolta leggermente più elegante per l’occasione, con drappeggi in tulle sulle spalle che le scendevano fin sulle maniche. Era forse troppo scollato? Magari – per una volta – era solo una normale preoccupazione paterna e non c’entrava il fatto che Juliette potesse uccidere un uomo senza battere ciglio?
«Dov’è la tua maschera?»
“C’ero quasi. Lo accetto.”
«Perché disturbarsi?» sospirò Juliette. «Tu non la indossi.»
Lord Cai si strofinò gli occhi. Juliette non riuscì a capire se si trattasse di una stanchezza generalizzata all’idea di dover trattare con i francesi, o se fosse esasperato dal suo comportamento.
«Esatto, perché io sono un uomo di cinquant’anni» ribatté il padre. «Sarebbe ridicolo.»
Juliette alzò le spalle, poi si avviò verso la porta d’ingresso. «L’hai detto tu, non io.»
L’aria della sera era frizzante quando uscirono sul vialetto e Juliette rabbrividì appena, sfregandosi le mani contro le braccia nude. Pazienza. Ormai era tardi per tornare dentro a prendere un soprabito. Salì a bordo della macchina con l’aiuto dell’autista e scivolò sul sedile per fare spazio al padre. La maggior parte dei membri della famiglia che avrebbero partecipato alla festa in maschera era già partita. Juliette non voleva andarci comunque, quindi aveva aspettato che Lord Cai se la prendesse comoda e finisse di lavorare. Lui aveva detto che era ora di andare solo quando il cielo si era tinto di rosa e il sole arancione ardente aveva iniziato a colorare l’orizzonte.
Lord Cai salì in auto. Una volta sistematosi sul sedile, si posò le mani in grembo e lanciò un’occhiata a Juliette. Il suo viso si corrucciò di nuovo. Stavolta lo sguardo si fermò sulla collanina intorno alla gola di Juliette.
«Quella non è una collana, vero?»
«No, bàba.»
«È un cavo da garrota, giusto?»
«In effetti sì, bàba.»
«Quante altre armi ti sei nascosta addosso?»
«Cinque, bàba.»
Lord Cai si pizzicò la sommità del naso e borbottò: «Wǒde māyā, abbi pietà della mia anima».
Juliette sorrise come se le avessero appena fatto un complimento.
L’auto partì e si avviò rombando piano, attraversando le strade di campagna più tranquille, fino a entrare in città, dove l’autista suonava il clacson ogni tre secondi per incitare i lavoratori e i conducenti di risciò a togliersi di mezzo. Di solito Juliette aveva l’abitudine di non guardare fuori dal finestrino, per paura di entrare in contatto visivo con qualcuno e attirare i mendicanti. Ma per qualche inspiegabile ragione quella sera alzò gli occhi.
Appena in tempo per vedere una donna che urlava sul marciapiede mentre cullava sul grembo un corpo.
Il cadavere era un ammasso sanguinolento, le mani macchiate di rosso e la gola ridotta talmente male che la testa era appesa a stento all’osso del collo. Piangendo, la donna cullava la testa e premeva la guancia sul viso pallido come la morte.
L’auto ricominciò a muoversi. Juliette spostò lo sguardo davanti a sé, verso il parabrezza sfocato di fronte al sedile anteriore, e deglutì a fatica.
“Perché sta accadendo tutto questo?” pensò disperata. “Questa città ha commesso peccati così terribili da meritarselo?”
La risposta era sì. Ma non era del tutto colpa loro. I cinesi si erano scavati la fossa, avevano raccolto la legna e acceso il fiammifero, ma erano stati i forestieri arrivati lì a versare benzina su ogni superficie, lasciando ardere Shanghai in un indomabile incendio di dissolutezza.
«Eccoci qua» disse l’autista, frenando.
Juliette strinse le mascelle e scese dall’auto. Nella Concessione francese tutto era vagamente lucente, perfino l’erba sotto i piedi. A quei giardini di solito non si poteva accedere, ma quella sera i cancelli erano spalancati proprio per l’evento. Quando Juliette li varcò, fu come entrare in un altro mondo: un mondo lontano dalle strade sudicie e dai vicoli affollati che avevano appena attraversato in auto. Lì c’erano vegetazione, viti rampicanti e intenzioni ingannevoli, piccoli gazebo posizionati con pazienza in nicchie pittoresche, e l’oscurità che entrava proiettava sul prato le ombre degli alti cancelli in ferro battuto che cingevano il giardino, ombre sempre più lunghe di secondo in secondo nel tramonto viola.
Nonostante il freddo, Juliette sudava un po’ mentre scrutava la folla di persone disseminate per i giardini curati ed eleganti. La priorità era identificare dove si fossero posizionati tutti i parenti. Trovò senza difficoltà la maggior parte di loro, sparpagliati in giro a socializzare. Forse aveva davvero esagerato a portare così tante armi. Per via del coltello legato nell’incavo della schiena, l’abito le stava un po’ troppo stretto in vita e la stoffa bianca intorno alle ginocchia le saliva a ogni passo. Tuttavia, Juliette non aveva potuto farne a meno. Portando le armi con sé, sarebbe riuscita a ingannare se stessa e a credere di poter agire nel caso la sciagura si fosse abbattuta sulla festa.
Cercò di non pensare che esistevano alcune sciagure contro le quali non avrebbe potuto combattere con i suoi coltelli. Agli stranieri presenti di certo non interessava. Mentre Juliette camminava, udì più di una persona ridacchiare delle voci che giravano sulla follia, uomini inglesi e donne francesi pronti a brindare a quanto fossero scaltri a tenersi lontani dall’isteria locale. Si comportavano come se fosse una scelta.
«Vieni, Juliette.» Lord Cai le fece cenno di raggiungerlo, sistemandosi le maniche.
Lei lo seguì obbediente, ma i suoi occhi rimasero focalizzati altrove. Sotto un padiglione in marmo delicato, un quartetto suonava musica di sottofondo, e la melodia fluttuava verso una radura in cui alcuni mercanti stranieri danzavano con le mogli. Erano presenti gangster scarlatti e forestieri in egual misura – mercanti e ufficiali – e alcuni di essi osavano addirittura conversare tra loro nella luce evanescente del tramonto. Intravide Tyler proprio in quei gruppi, intento a chiacchierare con una donna francese. Quando si accorse che Juliette lo stava osservando la salutò amabilmente. Lei serrò la bocca in una linea sottile.
Lì accanto, i fili di luci attorcigliati intorno ai tendoni dei gazebo si accesero prendendo vita con un sibilo repentino. I giardini si illuminarono d’oro, respingendo l’oscurità che altrimenti si sarebbe intrufolata una volta che il sole fosse completamente tramontato sul mare.
«Juliette» la incitò di nuovo Lord Cai. Lei aveva rallentato procedendo a passo di lumaca senza nemmeno accorgersene. A malincuore, accelerò. Aveva notato che per lo più i presenti se ne stavano insieme ai propri simili. Le donne inglesi che si erano trasferite lì insieme ai mariti diplomatici ridevano fra loro, facendo volteggiare con i guanti di pizzo i parasole color pastello. Gli ufficiali francesi si scambiavano pacche sulle spalle, ridendo sguaiatamente alle battute tutt’altro che divertenti dei loro superiori. Eppure, sparpagliati in diversi punti del giardino, tre uomini solitari se ne stavano in disparte nonostante facessero di tutto per sembrare impegnati.
Juliette si fermò di nuovo. Indicò con un cenno del capo uno di loro: quello che stava esaminando con insistenza il piatto che stringeva fra le mani.
«Bàba, a te non sembra coreano quel ragazzo?»
Lord Cai non seguì nemmeno il suo sguardo. Le posò le mani sulle spalle e la guidò nella direzione verso cui stavano andando. «Concentrati, Juliette.»
Era un ordine opinabile. Juliette non ebbe affatto bisogno di concentrarsi quando raggiunsero il console generale di Francia, perché quando gli uomini si misero a parlare lei sparì semplicemente nello sfondo. Diventò poco più che un ornamento decorativo dell’ambiente. Si sintonizzò a intermittenza sulla conversazione principale, senza nemmeno cogliere il nome del console generale. La sua attenzione fu attirata dai due uomini in piedi sull’attenti alle sue spalle.
«Vuoi un tramezzino dopo?» sussurrò il primo uomo al secondo in francese. «Odio questo catering. Cerca fin troppo di compiacere l’insulso paese che sta al di là del canale.»
«Mi hai letto nel pensiero» rispose piano il secondo. «Ma li vedi? Un mucchio di rozzi contadini.»
Juliette si era irrigidita, ma il commento relativo al canale era un chiaro riferimento agli inglesi, non alla Gang Scarlatta.
«Sorseggiano il loro tè e sostengono di averlo inventato loro» continuò il secondo. «Pensateci bene, stolti. I cinesi preparavano il tè prima ancora che voi aveste un re.»
Juliette sbuffò all’improvviso, colta di sorpresa dalla grettezza insignificante della conversazione, poi cercò di mascherare il suono con un colpo di tosse. Lord Cai non aveva nulla di cui preoccuparsi: portarla con sé era stata una precauzione inutile. Tornò a focalizzarsi sulla conversazione del padre.
«Sono diffidenti, mio caro signore» stava dicendo il console generale. Juliette immaginò che stesse parlando dei suoi uomini d’affari francesi. «La garde municipale per ora mantiene al sicuro la Concessione francese, ma se insorgessero problemi, ho bisogno di sapere se avrò il supporto della Gang Scarlatta.»
Se si fosse verificata una rivolta da parte della gente comune cinese, dei lavoratori non pagati che decidevano che il comunismo era la soluzione migliore, ai francesi sarebbe servito un modo per mantenere il controllo su Shanghai. Pensavano di poterlo ottenere grazie alle armi e alle risorse della Gang Scarlatta, ma non si rendevano affatto conto che, nell’eventualità di una rivoluzione, non sarebbe rimasto nessuno a Shanghai con cui poter fare affari.
Tuttavia, Lord Cai non espresse nessuno di questi pensieri. Accettò senza difficoltà, a condizione che la Gang Scarlatta avesse ancora giurisdizione per mandare avanti i propri affari nella Concessione francese. In un tentativo di adattare il proprio inglese agli americanismi, il console generale di Francia esclamò: «Andiamo, vecchio mio, ma certo! Questo non è nemmeno in discussione». E quando i due uomini si strinsero la mano la decisione sembrò presa.
Juliette pensò che fosse tutto così teatrale e ridicolo. Era assurdo che suo padre avesse chiesto il permesso di fare affari sulla terra in cui i loro antenati erano vissuti e morti per colpa di uomini che avevano semplicemente ormeggiato lì le proprie navi e deciso che da quel momento in poi avrebbero comandato loro.
Come se avesse percepito l’ostilità delle sue riflessioni, il console generale di Francia si voltò infine verso di lei.
«E lei come sta, signorina Juliette?»
Juliette sfoderò un ampio sorriso.
«Non dovreste avere voce in capitolo qui.» Iniziò a parlare prima che suo padre potesse fermarla e le sue parole erano così cariche di dolcezza da sembrare quasi adulatorie. «Per quanto possiamo essere imperfetti, per quanto ci combattiamo a vicenda, questo non è ancora un paese in cui gente come voi possa dettare legge.»
L’espressione sorridente del console generale vacillò, ma in maniera impercettibile, come se lui fosse incapace di stabilire se Juliette fosse sarcastica o se stesse facen...