Si scrive Deep, si legge dip.
È un metodo importato dall’America, scende nel profondo per arrivare all’origine del malessere che scatena la dipendenza, qualunque essa sia.
Mina è la nutrizionista che mi è stata assegnata, la sua stanza è la terza sulla destra. Prima di incontrarla, un giorno di qualche mese fa, era marzo, ho dovuto sostare due ore, da sola, nella camera accanto. Una debolissima versione lounge di So What, di Miles Davis, come sottofondo; delle foto di New York a sfilare sullo schermo al plasma di un enorme televisore. E io, chinata con una matita su quelle cinquanta pagine, dieci domande per ogni pagina.
Pensa al cibo al di fuori dei pasti? Ogni tanto - mai - sempre.
Fa pensieri di morte? Ogni tanto - mai - sempre.
Guarda il cellulare anche se non le serve? Ogni tanto - mai - sempre.
Beve alcol al mattino? Ogni tanto - mai - sempre.
Mina mi ha ricevuto al termine di quei test, la prima volta. I fogli su cui avevo messo le crocette li teneva scansionati, aperti come quadri, sul suo pc: di questo parleremo più avanti, aveva detto. Poi si era stretta alla sua tisana, e aveva cominciato a farmi raccontare. Più avanti, intanto, era arrivato. Più avanti è adesso.
Dobbiamo cominciare a stare sulle mie risposte, avverte.
Per esempio, ho messo una X su sempre, alla domanda sulla morte. Mi chiede se è perché penso di ammazzarmi. Le rispondo che non si parlava di suicidio, in quella frase, ma di morte. E la mia morte non esiste, esiste solo quella degli altri. Mina vuole che le faccia un esempio. Le dico che ho paura della morte di mia madre. La maggior parte delle persone ha due genitori. Se ne muore uno, c’è l’altro. Io nutro da sempre, invece, il terrore di restare sola. Nel gioco in cui chi rimane senza carte perde, io ho cominciato la partita con una carta in meno.
Mina vuole sapere se l’ho sempre pensata così.
Mi metto a guardare alle sue spalle, allora. Il Cupolone. Roma. Tutto quel cielo. Chiazze di gabbiani.
Il giudice aveva stabilito che Paolo vedesse suo padre il giovedì pomeriggio e la domenica. I primi mesi dopo il divorzio erano stati una specie di esercitazione, in fondo. In un lampo di ragionevolezza che presto sarebbe svanito, la nostra famiglia con troppi cognomi si allenava a resistere. A non squarciarsi del tutto. Così, io e Paolo ci vestivamo a festa e andavamo insieme. Mano nella mano, otto e tre anni, a passare la giornata con nostro padre. Suo padre. E non ricordo cosa c’è stato nel mezzo, ma ricordo quella prima domenica, quella in cui invece Paolo è andato da solo.
L’ex marito di nostra madre era venuto a prendere mio fratello, e non me. Perché non lo volevo io, o perché non mi voleva lui? Perché non ero sua figlia, o perché non era mio padre?
Siamo rimaste a casa, io e lei. Mia madre: l’ultima carta che restava, a me che avevo la vittoria nel nome ma una possibilità in più degli altri di perdere tutto.
Dieci, quindici, venti secondi di silenzio. Mina smette, a questo punto, di torturare con le dita la piccola piuma d’oro che le scende da un lobo. Torna dritta, composta, fa scivolare gli occhi sulla cartellina con il logo Deep, aperta sulla scrivania. Riconosco la mia scrittura sui fogli che le ho consegnato in queste ultime settimane. Incontro dopo incontro. Da un lato, tutte le cose che mangiavo in una giornata. Sul retro, invece, tutti i minuti, magari le ore, che riuscivo a passare col telefono spento. Disconnessa.
La prima volta che mi sono ingozzata fino a stare male è stata per paura, un anno e mezzo fa.
Avevo un appuntamento importante. La mossa di Giuseppe Alessi era andata a segno. La produzione televisiva della trasmissione mi aspettava a Torino, il giorno dopo.
E come ogni occasione che capitava, in quel periodo, mi sembrava anche quella fuori dalla mia portata. Potevo accoglierla, tentarla, oppure sabotarla. Ho cominciato a sentire una fame bambina. Come quando il padre di mio fratello mi faceva notare che mangiavo troppo e il dispetto più grande che potessi fargli era abbuffarmi. Ma ero piccola, allora, remissiva. Non avevo ancora la libertà del cibo, non un frigo tutto per me, né una casa in disordine in cui scompormi. Non mangiavo più di quello che potevo.
Quel pomeriggio, invece, avevo intuito un appetito furioso. E pensavo ancora di saperlo dominare.
Una barretta proteica, perciò. Una tisana all’arancia, una fetta biscottata con la marmellata di fichi. Niente di che. Un’altra poi, e un’altra ancora. La barretta era l’ultima della fornitura per famiglie. La tisana, un omaggio di una nota marca di camomilla. La bevevo per distrarre la voglia di continuare a mangiare, ma non funzionava. La marmellata me l’aveva spedita un’azienda agricola del paese. Alla nostra illustre concittadina, c’era scritto a mano, su un biglietto verde. E sospetto che l’indirizzo lo avessero avuto da mia madre.
Dopo il dolce ho bisogno di salato. Vado sempre al contrario.
Nel frigorifero c’erano delle zuppe pronte, sette. Ne avevo infilata una nel microonde, direttamente con il contenitore a scodella della confezione. Ci avevo aggiunto olio crudo e parmigiano, poi avevo cominciato a buttare giù, a un ritmo pazzo, quei cucchiai colmi. Lasciavo che il sugo denso di verdura e legumi mi colasse dagli angoli della bocca. Lo asciugavo, poi, col dorso della mano, tipo Bud Spencer. La pizza, infine. Ne stavo scongelando una in forno, ma la bestia a cui obbedivo non voleva aspettare. Perciò, l’avevo tirata fuori non ancora pronta. E l’avevo divorata lo stesso: mezza calda, mezza ghiaccio.
Poi, con i pantaloni del pigiama infilati nei calzettoni e un cappotto messo sulla canotta, per non prendere freddo, ero corsa giù, a guardarmi nello specchio condominiale.
Giuseppe Alessi aveva suggerito il mio nome, e si era offerto di accompagnarmi.
Si stava esponendo per me, e con me. Per sincero interesse nei miei confronti, diceva la mia parte romantica. O forse perché, quella sera al ristorante, aveva dovuto distogliermi dalla bugia che avevo stanato con un’affermazione esagerata. E tornare indietro non gli era stato più possibile.
Intanto, mi riflettevo, là nell’androne, e scoprivo le guance troppo piene, lo stomaco gonfio. Anche le dita delle mani sembravano all’improvviso sul punto di esplodere, costrette in quegli anelli che fino a poco prima facevano le giravolte.
Terrorizzata dall’idea di non andare bene l’indomani, quella volta, ed è stata l’unica, mi sono accucciata davanti al water, ho infilato due dita in gola, e ho vomitato.
Avevo trovato un B&B su via Nizza. Anzi, avevo risposto, in spudorato ritardo, a una vecchia mail che mi offriva un breve soggiorno in cambio di un po’ di visibilità sul mio profilo Instagram. Se è ancora valida l’offerta, avevo scritto, accetterei.
Giuseppe Alessi arrivava da Milano, io da Roma. Ci eravamo incontrati al binario 3, un bacio sulle labbra, poi via, guardando Google Maps.
Mi accompagneresti prima a fare una cosa?, aveva chiesto.
Cosa?
È di strada.
Sì, ma cosa?
Il check-in nell’hotel che mi ha prenotato la produzione.
Ma scusa, perché hai chiesto un hotel, abbiamo già il B&B?
Non l’ho chiesto io! È stata una loro iniziativa, me lo hanno comunicato stamattina.
E cosa t’importa del check-in allora?
Mi sembra scortese non farlo.
Ma dormiremo altrove!
Lo so, ma questi sono fatti nostri.
A passo nervoso, eravamo arrivati a un quattro stelle che se ne stava sul fianco della stazione, chiaramente a disposizione di chi era sempre solo di passaggio. Ero rimasta ad aspettare fuori.
Avevo chiuso Google Maps, aperto Instagram. Mi ero scattata un selfie, in treno. Lo avevo pubblicato un paio d’ore prima. Niente colazione, per espiare l’abbuffata del giorno prima. I like arrivavano come sempre, eppure la mia faccia mi risultava pasciuta, grossa. L’avevo appena eliminata, quando Giuseppe Alessi era risbucato da quella spocchiosa porta girevole. Mi aveva allungato la mano, in quel modo dei bambini, quando ti scelgono per andare insieme in qualche posto. Gliel’avevo concessa e ci eravamo spostati da lì.
La produzione si chiamava Sonia. Una trentina d’anni, capelli neri e lunghissimi, frangetta fino agli occhi, seno abbondante, pantaloni e giacca.
Ci aveva ricevuti in una sala riunioni con un tavolo rettangolare e due pareti trasparenti. Aveva stampato alcune pagine del mio vecchio blog di musica, per mostrarmi che si era preparata.
È quello che ci serve, aveva detto. Commenti brillanti sulle canzoni, efficaci. Un tono leggero, ma competente.
Io avevo annuito, ringraziato, spiegato che quel blog era un po’ arrugginito, ormai mi ero trasferita su Instagram, ma che potevo esaudire di certo la loro richiesta. Poi avevo accettato un caffè, e Sonia era uscita per prendermelo. Giuseppe Alessi l’aveva seguita.
Ero rimasta sola, in quella stanza nuda che si concedeva l’unico orpello di una caraffa d’acqua al centro del tavolo.
Una fessura imprevista fra le veneziane che separavano il dentro dal fuori mi aveva offerto la visuale rapida di Giuseppe Alessi che parlava a Sonia da molto vicino, tenendole la nuca con una mano. D’istinto, avevo girato lo sguardo. Come al cinema, durante le scene rivoltanti. Erano rientrati pochi minuti dopo, Sonia col mio caffè in mano. Giuseppe Alessi guardando il telefono.
Mia madre da bambina mi diceva non è niente. Quando qualcosa mi turbava, non è niente. E allora avevo bevuto il caffè, e ascoltato Sonia propormi una cifra enorme per le dieci puntate in cui sarebbe stata richiesta la mia partecipazione.
Hai un agente?, aveva domandato.
No, le avevo risposto.
Ti fermi a Torino?
Sì, per tre giorni.
Bene, allora ti spedisco via mail la bozza del contratto, così hai tempo di guardarlo, e di chiedere a un avvocato, se vuoi, e di tornare per la firma, dopodomani.
A Giuseppe Alessi, poi, aveva rivolto una frase netta, brusca: tutto questo, ovviamente, se ci arriva la conferma definitiva della partecipazione di Bruno al programma.
È come se fosse già qui, aveva detto lui, alzandosi dalla sedia per sancire la fine della riunione.
Rientrati al B&B, avevamo fatto l’amore. Dormito fino a tardi, la mattina seguente.
Avremmo dovuto passare la giornata in giro per Torino ma, poco dopo la colazione, mi aveva annunciato che doveva fare un salto a Milano, per un problema di lavoro con uno dei suoi artisti. Sarebbe tornato in serata.
Sonia, intanto, mi aveva fatto spedire la bozza di contratto. Lei leggeva in copia. L’avevo girata a Paolo, che l’avrebbe inoltrata all’ufficio legale della sua azienda. Appena qualche ora dopo, mentre camminavo sotto i portici che abbracciano piazza Vittorio, avevo già ricevuto l’ok: È un buon accordo, scriveva mio fratello, puoi firmare. Brava.
Mi ero seduta sulle scale della Gran Madre, rintontita da quel brava: la Mole, là a destra, il parco del Valentino laggiù, a sinistra.
Avevo aperto Gmail, e scritto:
Ciao, Sonia.
Sono pronta per la firma, posso passare da te nel tardo pomeriggio?
La risposta era arrivata in due rate. Prima quella automatica, che mi avvertiva che Sonia non era in ufficio, sarebbe rientrata domani. Poi quella personale, pochi minuti dopo.
Cara Vittoria,
possiamo fare domani mattina?
Sono felice che ci siamo accordate.
Benvenuta a bordo!!!
S.
La testa non lo sapeva, il corpo sì. Avevo di nuovo quella fame. Così, mi ero infilata in un bar, alle 17.15, e avevo ordinato uno spritz. Anzi, avevo usato la scusa dello spritz per potermi tuffare sulle pizzette del buffet che, come recitava la lavagnetta all’ingresso, era open.
Di nuovo, ho mangiato. In pubblico, senza curarmi di nulla se non di riempirmi.
Poi Giuseppe Alessi era tornato, direttamente al B&B. E crollato.
Era la prima volta che dormivamo insieme, dormendo soltanto.
La matt...