
- 176 pagine
- Italian
- ePUB (disponibile sull'app)
- Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub
Sono mancato all'affetto dei miei cari
Informazioni su questo libro
Orgoglioso proprietario di una ferramenta, un tipo solido, senza grilli per la testa, mai un giorno di vacanza: è l'eroe di questo romanzo. Sembra impossibile che gli sia toccata in sorte una simile progenie. Eppure... Lo spaccato ironico e preciso di una certa società italiana. Una commedia amara che, con garbo, prende in giro un modello maschile ormai sempre piú raro. O almeno si spera.
Provincia lombarda, tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta del secolo scorso. Un padre tutto casa e lavoro ripercorre la storia del proprio rapporto con i figli, che non sono venuti esattamente come si aspettava. L'Alice, maestrina frustrata, malinconica e sognante, che rimpiange di non essere andata all'università - manco studiare servisse - ed è incapace di fare l'unica cosa che una donna deve saper fare: la moglie. L'Alberto, che i libri, bisogna rendergliene merito, li ha tenuti a debita distanza, ma in compenso si rivela un ingrato. Infine l'Ercolino, che apre bocca solo per mangiare voracemente, anche se è magro quanto un chiodo; e, pensa tu, a scuola pare sia un genio. Insomma, un disastro, cui si aggiunge una moglie pronta in ogni occasione a difendere quei tre disgraziati. Troppo, davvero troppo, anche per un uomo di ferro come lui.
«Vitali ha il dono della leggerezza e la capacità di strappare un sorriso anche quando la situazione sembra disperata».
Corriere della Sera
Provincia lombarda, tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta del secolo scorso. Un padre tutto casa e lavoro ripercorre la storia del proprio rapporto con i figli, che non sono venuti esattamente come si aspettava. L'Alice, maestrina frustrata, malinconica e sognante, che rimpiange di non essere andata all'università - manco studiare servisse - ed è incapace di fare l'unica cosa che una donna deve saper fare: la moglie. L'Alberto, che i libri, bisogna rendergliene merito, li ha tenuti a debita distanza, ma in compenso si rivela un ingrato. Infine l'Ercolino, che apre bocca solo per mangiare voracemente, anche se è magro quanto un chiodo; e, pensa tu, a scuola pare sia un genio. Insomma, un disastro, cui si aggiunge una moglie pronta in ogni occasione a difendere quei tre disgraziati. Troppo, davvero troppo, anche per un uomo di ferro come lui.
«Vitali ha il dono della leggerezza e la capacità di strappare un sorriso anche quando la situazione sembra disperata».
Corriere della Sera
Domande frequenti
Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
- Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
- Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a Sono mancato all'affetto dei miei cari di Andrea Vitali in formato PDF e/o ePub. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.
Informazioni
Print ISBN
9788806251994eBook ISBN
9788858439654Sono mancato all’affetto dei miei cari
E il poveretto che non se n’era accorto,
andava combattendo ed era morto.
Alice, la prima figlia, era stata una disgrazia già di per sé. Voglio dire averla avuta per prima e, a tempo debito, non poterla mettere a lavorare nella ferramenta. Cioè, avrei potuto. Ma una donna in una ferramenta, secondo me, non faceva bella figura. Quindi a studiare un po’, quel giusto. Tanto per tirarla grande, se no cosa stava là a fare? Tra le scuole, le magistrali: quattro anni e via. Sennonché, una volta finito, s’era ficcata in testa di andare avanti, l’università . Voleva fare la professoressa. Forse pensava di essere nata nel paese del Bengodi, dove i soldi crescono nell’orto. Chi troppo studia matto diventa, era stata la mia risposta. Lo diceva sempre anche un mio zio che non aveva mai aperto un libro in vita sua e camminava ancora sulle sue gambe. Lo zio Pietro, il PÃter, un’ostia di uno! Sputava sempre per terra. Nell’ospizio dove l’avevano ficcato, le suore, per punizione, gli portavano via il toscano. Ma lui ne aveva sempre un altro di scorta, perché li nascondeva dappertutto, anche nelle mutande. Comunque, per tornare al discorso, il bel guadagno di studiare era stato là da vedere quando l’Alice aveva cominciato con le supplenze, roba da non sapere se fosse meglio ridere o piangere. Una settimana qua, quattro giorni là , il portafoglio del papà che si apriva e chiudeva come una fisarmonica perché, a quanto pareva, un impiego nello Stato doveva essere una specie di onore, tanto per mangiare e bere c’era sempre quello che vendeva chiodi, viti e compagnia ferruginosa, se no come campava la maestrina del villaggio? Sapevo io quello che ci voleva, matrimonio. I libri mica scappavano. Una volta sposata, con una casa tutta sua e un marito che la mantenesse, l’Alice poteva leggere tutti i libri che voleva: giusto o sbagliato? Però doveva essere un bel matrimonio. E alla fine l’aveva capito anche lei, la cavallina storna. Aveva capito che, finché fosse andata in giro per scuole, non avrebbe tirato a casa nient’altro che morti di fame. Uno me lo aveva addirittura portato a tavola.
Era stata una bella sorpresina. Di solito salivo dalla ferramenta per pranzo, dodici e mezza, anche l’una, con una fame che avrei mangiato pure le gambe del tavolo. Poi mi piaceva schiacciare un pisolino, mezz’oretta sul divano. Entro in casa ed eccoli lÃ, seduti proprio sul mio divano. Lui era uno magro impicco, che si era dimenticato di avere il cappello sulla testa e si guardava in giro con uno sguardo da cavedano in agonia come se venisse dal paese dei mao mao. O forse non aveva mai visto la casa di uno che i soldi li faceva ballare anche se non apriva piú un libro dagli anni della dottrinetta. L’Alice era un po’ rossa in viso, aveva la tosse dell’imbarazzo; gli aveva tolto il cappello e poi mi aveva spiegato. Cioè che il pesce seduto sul divano vicino a lei aveva perso il treno per tornare a casa e lei lo aveva invitato a pranzo. Come se non ci fosse stato un treno dopo, anche ad aspettarlo un po’, avevo pensato io. Avevo fatto segno di sà senza parlare, perché se avessi seguito l’istinto avrei detto al mao mao di non pensarci nemmeno per un attimo. Giú le mani dall’Alice! Si vedeva chiaro come il sole che il maestrino non vedeva l’ora di attaccare il suo cappello da qualche parte. Continuava a scrutare in giro come se la casa, i quadri di paesaggi, i mobili fossero roba da mangiare. Uno sguardo circolare come le seghe che vendevo in ferramenta. Se pensava di non darlo a intendere, che stava facendo i conti di quanto rendesse l’esercizio, sbagliava di grosso. Non si insegna ai gatti ad arrampicarsi! Si dice cosÃ, no? In conclusione: non sai come riempirti lo stomaco? Mangia i libri! Hai voluto fare il maestro? Libero, liberissimo, ma giú le mani dall’Alice. Però da quello che il maestrino col cappello aveva mangiato era chiaro che i libri non riempivano mica tanto. Poi, prima di andare a prendere il treno, che sennò magari mi toccava tenerlo là anche per cena, aveva detto arrivederci. Ar-ri-ve-der-ci! Ci avevo sentito bene? Insomma, non c’era tempo da perdere, ci voleva un bel discorsetto.
Ero fatto cosÃ, quello che avevo sullo stomaco lo avevo anche sulla lingua. Poche balle e patti chiari. All’Alice l’avevo detto la stessa sera: uno come quello che aveva portato in casa al massimo poteva lavorare nel magazzino della ferramenta. E senza il cappello! Forse ero stato un po’ brusco, ma si sa, la stanchezza a fine giornata… Per tutta risposta l’Alice s’era messa a piangere, mugugnando che dovevo smetterla. Ma non avevo ancora finito. E allora era intervenuta la cavalleria, mia moglie. Io, però, Te sta’ zitta! Perché non volevo morti di fame da mantenere. E siccome tra quella che piangeva e l’altra che continuava a ripetermi di smetterla mi si stava oscurando la vista, avevo chiuso il discorsetto dicendo all’Alice che se non le stava bene quello che dicevo era libera di fare come voleva, la porta di casa era sempre lÃ, serviva per uscire. Per entrare invece bisognava chiedere il permesso. Capito il concetto? Altro che arrivederci! Arrivederci… Arrivederci lo dicevo io ai clienti della ferramenta, ma quella era gente che entrava, comprava e pagava. Allora andava bene arrivederci. Mica come il maestrino col cappello che aveva mangiato a sbafo. Alla fine della tirata ero stanco, e nel frattempo anche mia moglie s’era messa a piangere. Madre e figlia, piangi tu che piango anch’io! Piangina a comando, li conoscevo bene. Erano quelli che mi facevano segnare cento metri di filo di ferro o una cinquantina di chili di gesso e dopo si dimenticavano del debito. E se per caso andavo a rinfrescargli la memoria tiravano a mano scuse che erano tempi difficili e vai col tango.
Il Matita era uno di loro.
Faceva un po’ di tutto. Lo chiamavano cosà perché girava sempre con una matita da falegname all’orecchio, forse non se la toglieva nemmeno per dormire. A un certo punto mi ero accorto che ’sto Matita mi aveva lasciato un conto in biacca e altre robe di non so piú quanto, e alla prima occasione gli avevo fatto presente che il suo debito era un po’ peso, che magari gli sarebbe convenuto saldare o anche solo darmi una caparra. Lui s’era messo a piangere. Non proprio lacrime dagli occhi, piangina con le parole. Mognava, non saprei come altro dirlo, tipo i gatti quando sono in amore. Allora io gli avevo detto, Va be’, cerca di fare quello che puoi, e lui, Grazie grazie, vedrai vedrai. Passato un mesetto era arrivata l’estate e a me era venuto in mente che in agosto avrei potuto far dare un’imbiancata a tutto il locale, magazzino compreso. A chi dirlo se non al Matita? Col lavoro mi avrebbe pagato il debito e paceamen. Cosà ero andato a cercarlo a casa per avere la bella sorpresa di sentirmi dire da una vicina che il signor Matita e signora erano andati al mare, ma non sapeva dove. Dove non mi interessa, avevo risposto io. Ma quando rientrava sÃ. Gesucristo, non ero piú riuscito a dormire fino a che quello non era tornato, ero nervoso come una biscia. In piú mia moglie continuava a chiedermi cos’avessi e io niente niente, mi giravano i coglioni ad ammettere che mi ero fatto prendere per il culo da uno come il Matita. Quando il giorno era arrivato mi ero messo di guardia sotto casa del deficiente. Avevo visto spuntare la sua 127, mi ero sputato sulle mani e non l’avevo nemmeno lasciato scendere da quella lamiera. La matita all’orecchio non ce l’aveva, si vede che al mare non gli serviva, comunque gli avevo fatto presente che, se nel giro di un paio di giorni non saldava tutto, me ne procuravo una io e gliela infilavo dove sapeva lui. La moglie aveva chiesto che conto e io avevo tirato fuori il biglietto. Questo! La mattina dopo era arrivata lei a pagare e a chiedere scusa. Scusa sÃ! Ma da quella volta basta credito. Per colpa di qualcuno non si fa credito a nessuno. Cosà avevo imparato a non dare retta ai piangina.
L’Alice era andata avanti a piangere ancora per qualche sera, a cena. Io entravo e lei apriva il rubinetto, muta, smorta, la testa china. Io zitto, tanto sapevo perché. Mia moglie a un certo punto mi aveva detto che ero senza cuore. Senza cuore, però con un portafoglio bello pieno, e non l’avevo mai vista piangere quando si apriva sotto i suoi occhi. Lei aveva ribattuto che i soldi non erano tutto nella vita. Va bene, avevo detto io, i due fringuelli volevano giocare a due cuori e una capanna? La capanna (vera neh? mica che andassero a pensare a chissà cosa) gliela regalavo io al maestrino col cappello e alla sua sposa. Se poi voleva andarci anche lei, avevo detto a mia moglie. O magari preferiva fare il cambio con me, alzarsi lei alle sei del mattino per preparare l’apertura della ferramenta. Mia moglie aveva rimbeccato che lei il suo lavoro ce l’aveva già , là in casa. Ecco, avevo detto io, bene brava, e se voleva continuare a tenerselo e stare in quella casa, che la smettesse di rompere i coglioni! Scene dell’altro mondo. Per niente, alla fine dei conti. SÃ, va be’, per qualche giorno c’era stato silenzio quasi fosse morto il gatto. Mia moglie si muoveva col naso per aria, come se sotto una certa quota ci fosse cattivo odore. L’Alice aveva tenuto la piva, faccia da tragedia, mangiava con gli occhi bassi neanche fosse al refettorio dell’infanzia abbandonata fino a quando, piú o meno a una settimana dalle prime lacrime, era arrivato il giorno del cappello, quello che il maestrino aveva dimenticato di portarsi via.
L’aveva trovato mia moglie mentre faceva un po’ di pulizie. Dall’attaccapanni era scivolato giú, dietro una cassapanca. Cosa farne? Sulle prime aveva pensato di buttarlo via e morta lÃ. Poi aveva pensato che un cappello era pur sempre un cappello, con quello che guadagnavano i maestri… Poi aveva pensato che magari, se l’avesse visto, all’Alice sarebbero tornate le nostalgie e le lacrime. Poi aveva pensato che, in fondo, quel maestrino lo vedeva tutte le mattine, quindi, cappello piú cappello meno, non cambiava niente. Perciò lo aveva rimesso sull’attaccapanni, e succedesse quello che doveva. Era successo che il cappello era rimasto là per un mese buono a prendere polvere e infine era stata proprio l’Alice a chiedere di chi fosse e se poteva usarlo lei che si voleva vestire da maschio a carnevale. Capito le lacrime?
Era stato proprio a carnevale che l’Alice ne aveva trovato un altro.
Per me era di quelli là , altra sponda. Li avevo sempre beccati al volo. Avevo avuto un compagno di classe cosÃ, una volta io e i miei soci glielo avevamo tirato fuori e gli avevamo legato intorno un fiocchetto rosa. Poi lui aveva pianto e noi eravamo finiti dal preside, tutti sospesi per una bella settimana. Ma a parte questo. Il nuovo moroso là suonava, la tromba. L’Alice l’aveva beccato alla festa, con la sua orchestrina. Era il suo lavoro, aveva spiegato la sera in cui l’Alice ce l’aveva presentato. Cioè andava in giro per locali a far ballare quelli che non erano ancora abbastanza stanchi della giornata. Si alzavano dei bei soldini, aveva anche aggiunto. Sarà , avevo pensato io. Però era di quelli là . L’avevo detto subito a mia moglie dopo che i due erano usciti. È bello, aveva risposto lei. Tutti i ginetta sono belli, le avevo fatto notare. Ma va’, mi aveva condito lei. A suo giudizio dicevo cosà solo perché aveva una camicia a fiori e un paio di anelli alle dita. Non è che ero un po’ geloso?, aveva insinuato. Geloso di uno dell’altra sponda? Lei allora mi aveva pregato di non fare scene come la volta del maestrino, che li tenessi per me quei pensieri. Tanto se non l’ha capito lo capirà , avevo chiuso. E infatti una bella sera.
Saranno state le due di notte. Io e mia moglie eravamo a letto, ancora svegli. Lei era proprio sveglia sveglia, sdraiata ma con gli occhi aperti sul soffitto dove le luci delle macchine che passavano in strada facevano giochetti che sembravano le ombre cinesi. Io invece ero sdraiato sul fianco, a occhi chiusi, ma non riuscivo a dormire e tra me tiravo porconi a raffica all’indirizzo di quella cretina dell’Alice, che non si sapeva mai a che ora rientrava da che aveva cominciato a uscire col tromba tutte le sere. Ormai la faccenda andava avanti da un po’ e perfino mia moglie, benché continuasse a sostenere che quello là non fosse dell’altra sponda, non era proprio contenta dell’andazzo. Anche perché all’Alice era venuta una faccia da mal di reni e al mattino, piú del caffellatte, sembrava che avesse bisogno di una trasfusione di sangue. In piú aveva preso a parlar male della scuola. I bambini erano tutti deficienti, per quei quattro soldi che prendeva non valeva la pena impegnarsi, dei suoi allievi non uno sarebbe riuscito a combinare qualcosa di buono nella vita, tutti deficienti appunto, figli di deficienti. Una volta, poi, era capitato che mia moglie si fosse alzata per andare a dirle qualcosa, che insomma non si poteva fare sempre cosà tardi eccetera. Uuuh! Era venuto fuori un casino dell’accidenti, una litigata che si erano spaventati perfino i chiodi della ferramenta, con l’Alice che s’era messa a gridare, Sono grande abbastanza, vado via di casa. Io mi ero tenuto perché sennò l’avrei accompagnata di persona in strada a suon di sberle; mia moglie, invece, era rientrata in camera piangendo e da allora nessuno piú aveva osato muoversi. Tornando a quella notte, non riuscivamo a dormire mia moglie e io, nonostante l’ora. Poi l’Alice era rientrata e singhiozzava che la sentivano anche in paradiso. Allora mia moglie aveva detto che andava a controllare, perché la macchina non aveva fatto i soliti giochi cinesi sul soffitto. Mi spiego.
Quando il tromba la riaccompagnava si fermava fino a che l’Alice non era sulla soglia di casa, poi la salutava con un paio di colpi di abbaglianti che si riverberavano sul soffitto. Per noi significava che l’Alice era arrivata e potevamo finalmente dormire. Quella volta, però, nessun riverbero, e in piú l’Alice piangeva. Mia moglie era scattata per vedere cosa fosse successo. Io avevo creduto di saperlo. Cioè che, alla fine, l’Alice aveva capito con chi aveva a che fare e adesso piangeva per la delusione, perché da un moroso cosà non poteva cavarne niente. Solo che, va bene piangere, ma dopo una mezz’oretta, visto che mia moglie non tornava a letto, mi ero alzato anch’io. Entrando in cucina avevo sentito nell’aria odore di camomilla. Avevo chiesto a mia moglie se l’Alice non stesse bene. Per tutta risposta lei mi aveva detto, Ma si può una roba del genere? Mi aveva spiegato che non c’erano stati giochi cinesi sul soffitto perché nostra figlia era tornata a casa a piedi. Come mai e da dove ancora non si sapeva, dato che l’Alice aveva il pianto disperato e per il momento non riusciva a parlare. Ma dopo un’altra mezz’ora e una tazza di camomilla s’era chiarita ogni cosa. Soprattutto che il tromba non era altro che un verme, proprio come quello che si infila sull’amo per far abboccare il pesce.
Siccome era bello, le ragazze gli giravano intorno. Poi, però, a un certo punto, succedeva come la sera in questione. Il tromba aveva detto all’Alice che lui non poteva portarla a casa, ci avrebbe pensato il collega che suonava il clarinetto. Il quale, al primo pezzo di strada buia, s’era fermato e aveva tentato di farlo suonare a lei il clarinetto, se ci siamo capiti. L’Alice aveva lottato un po’, il clarinetto aveva capito che era inutile insistere, l’aveva mandata a quel paese e fatta scendere dalla macchina. Cosà lei aveva dovuto tornare a casa a piedi, che saran stati tre o quattro chilometri buoni. Dopo che l’Alice aveva finalmente raccontato tutto, mia moglie aveva detto che bisognava denunciare. Io ero rimasto un attimo cosÃ. Poi glielo avevo chiesto. Denunciare chi? Il tromba, l’Alice o il clarinetto? Lei aveva provato a rispondere qualcosa, ma io le avevo detto, Sta’ zitta, per favore! Perché tanto valeva allora fare dei bei manifesti con su scritta tutta la storia dell’Alice che per un po’ era uscita con uno dell’altra sponda senza capirlo e una notte s’era fermata in macchina con il clarinetto, senza però cedere. SÃ, certo, come no, già la sentivo la gente, dicono tutte cosÃ. Se voleva che l’Alice finisse sulla bocca del paese, andare per avvocati era la scelta migliore. Chiaro o no? L’Alice a quel punto aveva riaperto i rubinetti e a me era venuto il sospetto che magari non ce l’avesse contata proprio giusta. Mi era venuto in bocca il sapore ferruginoso delle cose che vendevo. Mia moglie mi aveva chiesto, Allora cosa facciamo? Io le avevo risposto che andavo a dormire perché di là a due ore, massimo tre, dovevo alzarmi per aprire la ferramenta. S’era messa a piangere anche lei, piangi tu che piango anch’io, come al solito, e dopo una mezz’oretta era venuta a letto. L’Alice… Be’, dopo qualche settimana la faccia del mal di reni le era passata e i suoi allievi avevano ricominciato a non essere piú cosà deficienti. E poi, passati un paio di mesi, era finalmente arrivato quello giusto. In macchina.
Bella macchina, della ditta Ferfort, chiodi, viti e robe varie. Un rappresentante nuovo di pacca, giacca, cravatta e tutto il resto. Gli avevo chiesto che fine aveva fatto quello solito e lui aveva risposto, Largo ai giovani. Giusto. Che fosse uno solido l’avevo capito al volo. Avevo anche buttato un occhio alle mani, se mai avesse la fede, ma non voleva dire: tipi cosÃ, se anche erano sposati, mica lo dicevano, se c’era da beccare, tac!, come i marinai. Tanto per fare conoscenza gli avevo chiesto se fosse nuovo del mestiere. Mi aveva risposto che il padrone, il Ferfort come l’avevo sempre chiamato io, era stato suo padrino di battesimo per via che sua mamma era una cugina di terza. Cugina del padrone, s’intende. E lui adesso stava facendo il giro dei clienti per conoscerli. Bell’ambiente, bella ferramenta, aveva detto, cosà belle e grandi ne aveva viste poche. Ma lo sapeva già , glielo avevano detto. Chi?, avevo chiesto io. Il Ferfort, aveva risposto lui. Be’, a me, sapere che il Ferfort parlava bene della mia ferramenta mi aveva fatto diventare rosso. Magari erano anche balle, magari il solido quelle parole se le era inventate all’istante, tanto per lisciarmi un po’. Comunque ero rosso fino alle orecchie e guardandomi in giro era come se vedessi la ferramenta per la prima volta, proprio grande e bella. Ci sono dentro anni e anni di lavoro, avevo risposto. Poi il solido era andato sul pratico. Dà i, aveva detto, vogliamo parlare di affari? Dopo gli affari mi aveva chiesto se potevo indicargli un buon posto dove mangiare, era nuovo in quelle lande desolate, e giú una bella risata. A me le parole erano scappate fuori da sole. A casa mia! Ma no, ma sÃ, andata! Era stato cosà che l’Alice e il solido si erano conosciuti. E non ti va a succedere che dopo mangiato quello dà un passaggio all’Alice che deve tornare a scuola? Tanto sono di strada, aveva detto. Due sere dopo l’Alice doveva uscire, e mia moglie le aveva chiesto con chi. L’Alice aveva risposto, Con quello. Ce l’avrà bene un nome no?, aveva chiesto mia moglie. Ah già , aveva risposto l’Alice: Anselmo.
A rovinarmi l’umore mia moglie non la batteva nessuno. Ero andato alla finestra per guardare l’Anselmo che caricava l’Alice e partiva sgommando con la macchina della ditta, che probabilmente non poteva usare per i fatti suoi ma tanto facevano tutti cosÃ. C’era ancora nell’aria l’odore di bruciato della sgommata. Mia moglie, Quell’Anselmo lÃ… Io, Quell’Anselmo là cosa? Lei, Mah! Io, Mah cosa? Dico, era la maniera di parlare quella? Se aveva da dire qualcosa, la dicesse, senza troppi mah e bo’. E poi era cosà brava che gli aveva fatto la radiografia in un’ora che era stato là a mangiare, gli aveva preso le misure e adesso sapeva vita morte e miracoli? Anche tu l’hai visto solo un’ora, aveva ribattuto mia moglie. S’era già dimenticata la storia del tromba?, avevo chiesto io. Glielo avevo detto subito o no che era uno dell’altra sponda? Quello lÃ, invece, quell’Anselmo mah e bo’, era uno solido. A meno che lei non preferisse i tipi che suonavano la trombetta e caricavano le donne giusto per passarle agli amici. Mia moglie, Ma è la maniera di parlare di tua figlia? Ben appunto, avevo risposto. Ben appunto perché era mia figlia volevo che andasse a finire nelle mani di uno che lavorava, e normale, se mi spiegavo. Ecco, aveva rimbeccato lei, per me bastava che uno avesse a che fare con chiodi e viti ed ero contento. Non mi preoccupavo che l’Alice fosse una maestrina e magari tra i due non ci potesse essere dialogo. A me era venuto in mente quello che il clarinetto doveva aver fatto all’Alice quella sera e mi era scappato da ridere. Ridi, ridi, aveva detto mia moglie, che ride bene chi ride ultimo. Ma intanto l’Alice aveva continuato a uscire con l’Anselmo fino a che era finita come doveva. Matrimonio, cos’altro? E quel giorno mia moglie aveva pianto e aveva detto che non sapeva se fosse per la felicità o per il dispiacere, perché in fin dei conti era la sua unica figlia che andava via. Magari. Perché poi l’Alice aveva cominciato a stare da noi ancora piú spesso.
Punto primo, l’Anselmo non voleva che sua moglie lavorasse, questione di dignità . Tanto piú che guadagnava quattro soldi. L’Alice aveva obbedito. Punto secondo, adesso aveva una casa da tenere in ordine. Finiti i punti. Ma il punto vero era che, per mantenere la moglie che non lavorava, la casa (i soldi per comprarla li avevo tirati fuori io, ma almeno le spese erano a carico suo) eccetera, l’Anselmo doveva darsi parecchio da fare. Neanche in viaggio di nozze erano andati, i due. Rinviato, aveva detto lo sposo, fino a quando non avessero avuto i dindini perché fosse come Dio comanda. Totale, secondo quanto mia moglie mi aveva detto a qualche mese dalle nozze, erano piú i giorni che l’Anselmo non tornava neanche per cena, lasciando l’Alice a spolverare dove non c’era polvere, a guardare la televisione (sui libri non riusciva a concentrarsi), o impalata davanti alla finestra a guardare le macchine che passavano giú in strada. Cosà aveva preso l’abitudine di venire da noi, tanto abitava a qualche centinaio di metri, per avere un po’ di compagnia, e a un bel momento era diventata fissa a mezzogiorno e tante volte anche alla sera. Ue’, lo so che era sempre mia figlia. Ma una sera mi era scappata di bocca la domanda; ovvio che l’Alice non c’era perché per una volta l’Anselmo doveva essere rientrato per cena. Insomma, avevo chiesto, com’è che quella là sta piú qui da noi che non a casa sua? Quella là è tua figlia, aveva risposto secca secca mia moglie. Poi, senza darmi tempo di ribattere, E io l’avevo detto che quell’Anselmo lÃ… Ossignore, ancora con la solita menata! Quell’Anselmo là cosa? Mia moglie aveva risposto che l’Alice non s’era sposata per fare la vedova bianca, e nemmeno per fare la cameriera di uno che non aveva orari. Ma per mettere su una famiglia!, aveva gridato col braccio levato come se fosse il prete sul pulpito. Io, zitto. Ma le avrei detto di guardarsi in casa sua il bel risultato della famiglia. Perché nel frattempo avevo il mio daffare con il secondo, l’Alberto, mentre sul terzo, settimino, Ercole detto Ercolino, ero ancora in attesa di vedere gli sviluppi. Ma torneremo sul discorso. Intanto, riguardo all’Alice, ci avevo pensato io. E un giorno che l’Anselmo era passato dalla ferramenta per l’ordine gli avevo parlato chiaro. Quando le donne cominciano a battere la matta bisogna metterci un figlio nella pancia. Capito? Cosà si calmano, loro e anche le nonne. Capito o no? L’Anselmo aveva detto che, stando cosà le cose, a lui cosa gli costava? Insomma, tac! E dopo anche l’Alice aveva avuto il suo bel daffare. Anzi sembrava che c’avesse tutto lei sulle spalle; lei la prima al mondo a restare incinta e a partorire. E mia moglie la prima al mondo a diventare nonna. Durante la gravidanza all’Alice era venuta una faccia bolsa con due occhi che sembravano voler saltar fuori dalle orbite. Non l’ho mai detto a nessuno, ma a me faceva impressione guardarla. Mi faceva l’effetto di quelle lumache senza guscio che arrivavano nel pezzettino di prato dietro la ferramenta quando c’era umido. Mi ero costruito un bastone con un punteruolo, c’avevo un gusto a infilzarle una dopo l’altra. Ma questo a monte. Piuttosto pensavo all’Anselmo, che doveva avere davanti quella faccia là quando tornava a casa, chissà se anche a lui venivano in mente le...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Sono mancato all’affetto dei miei cari
- Il libro
- L’autore
- Dello stesso autore
- Copyright