Quando ero piccola osservavo spesso le stelle. Il mio desiderio ricorrente era di costruire una scala per raggiungerle a una a una.
Però poi sono cresciuta.
Ho smesso di immaginarmi scale, ma non ho mai perso l’attrazione che provavo verso le stelle. Qualsiasi fosse il mio stato d’animo, riuscivano a trasmettermi una magia rara.
Stasera il cielo è coperto da questi puntini luminosi. Io li guardo, mentre penso che non ho mai visto una stella cadente e legato a lei un desiderio.
Per fortuna che io non credo più a queste cose.
Credo solo ai fatti che vedi con gli occhi e alle sensazioni che provi con lo stomaco e con il cuore. Credo a emozioni reali, non create dalla fantasia.
Ho preso le chiavi della macchina e sono uscita. Inizialmente sono andata semplicemente sul lungolago, sono scesa dall’auto e mi sono seduta su una panchina a fissare il vuoto.
Non ho provato niente di niente per circa mezz’ora. Avevo lo sguardo perso, sentivo il cuore immobile, come se non battesse più. È stata la suoneria del mio telefono a risvegliarmi.
Era mia madre.
«Ma dove sei?» ha detto.
«In giro.»
Sapessi quante cose non ti sto dicendo ultimamente, mamma. Vorrei tanto aprirmi con te, ma ho così paura che preferisco lasciarmi divorare dai miei mostri. Forse, un giorno, le cose cambieranno.
«A che ora torni?»
A quel punto ho pensato che sarei potuta tornare anche immediatamente. Ma…
«Tardi. Non aspettarmi sveglia, per favore.»
«Va bene.»
Ed eccomi qua. Sotto casa sua. Sotto casa della persona che ha tormentato tutta la mia estate. Sotto casa di chi ha preso il mio cuore e l’ha usato come puntaspilli.
Sotto casa della mia Erika che non vedo più da giorni, da settimane. Chissà perché, però, ho ancora la presunzione di definirla mia.
Mi avvicino al portone, leggo il suo cognome sul citofono.
«Dovresti suonare» mi ripete una vocina fastidiosa nella testa. Ma non sono così stupida da darle retta.
Mi potrebbe rispondere sua madre, o suo padre. E, per quanto ne so io, loro non sanno nemmeno della mia esistenza.
«Allora chiamala» suggerisce la vocina.
Ma cosa dovrei dirle? «Ehi, ciao, lo so che ti ho mandata a quel paese e ho detto che mi fai schifo, ma ti va di scendere un attimo?»
Sono diventata una completa codarda da quando mi sono innamorata di Erika. Mi manca il carattere forte e anche un po’ egoista che mi contraddistingueva.
Durante il viaggio mi sono preparata un discorso. Avevo in mente tremila cose da dire, ma improvvisamente mi sono dimenticata tutto.
Ora però sono qui, davanti al suo portone. E non tornerò a casa finché non avrò risolto questa faccenda. Finché non le avrò gridato che l’amo, fosse anche per un’ultima volta.
In fondo io voglio solo essere felice, e non posso più ignorare il fatto che è solo con lei che posso esserlo davvero.
La chiamo e il telefono squilla… ma a vuoto. Dopo una serie di biiiip si stacca.
Riprovo, e stavolta mi accorgo che è lei a rifiutare la chiamata.
Apro WhatsApp e le scrivo, è l’unico modo che ho per non rendere il mio viaggio una totale perdita di tempo.
«Ti prego, scendi» scrivo.
Lei visualizza quasi subito e questo mi fa pensare che stesse aspettando mie notizie.
Sta scrivendo, ma poi niente. Poi ancora Sta scrivendo. E poi ancora niente.
Me la immagino mentre scrive una frase, e poi subito dopo la cancella.
«Eh?» alla fine mi arriva questo messaggio estremamente profondo.
«Scendi. Non metterci più di cinque minuti, per favore. Puoi venire anche in pigiama.»
Non mi risponde più. I cinque minuti passano, ma io non la vedo arrivare.
Impaziente riprovo a chiamarla, ma stacca ancora il telefonino. Mi sento il cuore andare in mille pezzi.
Passano altri cinque minuti, ma di Erika non si hanno tracce.
«Scendi o mi attacco al citofono» scrivo.
Questa volta mi risponde. «Non lo faresti mai.»
È vero, non lo farei mai.
Dopo altri cinque minuti, capisco di aver perso tempo e decido di tornare a casa.
«Che fai? Te ne vai?» Sento una voce. La sua.
Mi giro, è lì in piedi. Torno vicino al cancello, con il cuore che batte all’impazzata.
«Che vuoi?» dice, non appena arrivo. Lei è dall’altra parte del cancello, che decide di tenere chiuso in modo che ci divida.
«Devo dirti una cosa.»
«Dimmi» ha una voce sostenuta e non sembra felice di vedermi. È sempre più bella e ora che la sto guardando negli occhi iniziano a tremarmi le gambe.
«Innanzitutto volevo scusarmi per essere corsa qui senza avvisare, ma non riesco più ad andare avanti. Sono consapevole che probabilmente ti senti con qualcuno, però dovevo dirti comunque delle cose.»
Erika mi interrompe subito.
«Io mi sento con qualcuno?»
«Leggo i tuoi stati, le iniziali di un nome. Ma non mi importa. Indipendentemente da questo io ti dirò quello che devo» replico, con più sicurezza di quanto pensavo di avere realmente.
Erika sospira e lascia la bocca leggermente aperta. Incrocia le braccia al petto e poi accenna un fragile «Dimmi».
«Non lo so come cazzo sia successo che abbia iniziato a piacermi sul serio. Mi sei entrata nella testa e non ne sei più uscita. Eri sempre lì, costantemente, aspettavo con ansia i giorni del programma solo per vederti. Giuro. Durante le registrazioni aspettavo le pause per poterti stare vicina. La mia preferita era quella del pranzo perché stavamo tutto il tempo insieme, a volte addirittura una in braccio all’altra. Ti ricordi?»
Faccio una pausa, come per permetterle di rivivere insieme a me quello che sto dicendo.
«Vagamente» mi risponde.
Non mi abbatto e decido di continuare: «Mi sei entrata dentro alla velocità della luce. Anch’io ho avuto paura quando ho capito quello che provavo… ma ho voluto rischiare ed è stata la cosa più giusta e bella che potessi fare. E quella sera del 20 aprile in cui sono stata capace di mandarti a puttane la testa solo con un “mi dai un bacio?”. Questo so che te lo ricordi».
Stavolta non dice nulla. È ferma a fissarmi, con gli occhi sgranati e un po’ lucidi, ma le braccia sempre conserte e l’aria di chi voleva dimenticarsi di tutto questo.
«Ma tu no, tu eri decisa, “siamo due ragazze, ci piacciono i ragazzi, è tutto sbagliato”. Ti ho rubato un mezzo bacio a stampo e ti giuro che l’ho portato nel cuore per un sacco di tempo. Ho fatto tutta la strada di ritorno cantando e sorridendo da sola. Ed ero felice. Ma felice felice felice. Ci ho messo tutte le mie energie per convincerti a lasciarti andare, ma se l’ho fatto è stato solo perché quando stavamo insieme percepivo che era qualcosa di diverso. Tu con me non eri come con le altre. Mi guardavi in un modo differente e mi sorridevi sempre. Ti imbarazzavi con me. E Dio solo sa quanto sono stata male ogni volta che mi hai rifiutato, non so nemmeno con quale forza io non abbia mollato. Ma ho stretto i denti e ho lottato per entrambe, per tutto il tempo che è stato necessario.»
Sento la mia voce che inizia a farsi fragile. Non voglio piangere perché rovinerebbe tutto il mio discorso. Ma la vedo, i suoi occhi iniziano a bagnarsi, e non so per quanto ancora io possa resistere.
«Ci siamo baciate, ho sopportato tutte le tue paranoie e ho zittito le mie. Finché un giorno ho capito di essermi perdutamente innamorata. E mi ricordo quando anche tu mi hai detto, per la prima volta, che mi amavi. Eravamo in macchina, avevo la testa sulle tue gambe, gli occhi chiusi, stavo quasi per addormentarmi mentre mi accarezzavi la testa… È stato l’inizio di un amore difficile, ma bellissimo. La cosa più bella che potessi vivere.»
Vedo le lacrime scendere sul suo viso e riesco solo a pensare che è la ragazza più bella che io abbia mai visto.
«Tu sei la vita, Erika. Sei la vita in tutte le sue sfaccettature. In soli cinque mesi mi hai fatto provare tutte le emozioni possibili. Io so già che sei tu la persona che voglio con me per il resto della mia vita. Un giorno, non troppo lontano, se tu deciderai di stare davvero con me, prometto che vivremo in una casetta tutta nostra, ti sveglierò con toast alla Nutella e Gocciole, e andremo a dormire ogni sera, ...