Il pregiudizio universale
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Il pregiudizio universale

Un catalogo d'autore di pregiudizi e luoghi comuni

  1. 414 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il pregiudizio universale

Un catalogo d'autore di pregiudizi e luoghi comuni

Informazioni su questo libro

I pregiudizi spingono a non esplorare, a non procurarsi strumenti di conoscenza – se il sospetto è che, alla fine, si possa arrivare alla stessa conclusione di un modo di dire antico. Procurarsi strumenti di conoscenza, e usarli, vuol dire invece costruire giudizi e, dunque, essere adulti. Queste pagine, oltre a raccontare come nascono alcuni luoghi comuni e perché non sono veri, suggeriscono perciò un modo di affrontare la realtà, di stare al mondo. Francesco Piccolo, "la Lettura - Corriere della Sera"

Chi di noi è libero da pregiudizi? A ciascuno il suo, parrebbe dire questo libro che smonta un catalogo di un'ottantina di pregiudizi affidati alle mani di esperti demolitori. Non sempre sono ispirati al malanimo e non è detto neppure che siano antichi e consolidati: i luoghi comuni fioriscono ogni anno, puntuali come mimose. Simonetta Fiori, "la Repubblica"

… L'abito non fa il monaco; I bambini sono buoni; Con la cultura non si mangia; La democrazia è il governo del popolo; Le donne non sanno guidare; I giovani non leggono; Le ideologie sono morte; Gli immigrati ci rubano il lavoro; Gli insetti sono bestie schifose; L'islam è intollerante; Il jazz è difficile; La letteratura italiana è morta; La mafia è invincibile; Di mamma ce n'è una sola; Non ci sono più le mezze stagioni; La musica classica va ascoltata in silenzio; Il Nord ha colonizzato il Sud; Il pesce fa bene alla memoria perché contiene fosforo; I politici sono tutti ladri; Il pubblico ha sempre ragione; La rete non ha padroni; La salute non ha prezzo; Il Sud vive alle spalle del Nord; Gli uomini sono tutti uguali…

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Informazioni

Alberto Mario Banti
Buon sangue non mente (1)

Una lunga tradizione attraversa la storia dell’Occidente: essere discendente di qualcuno che già si è distinto per qualche dote particolare, in campo militare o politico o professionale, è una promessa di futuro, una garanzia di potenzialità, un annuncio di successo. È un’ossessione radicata talmente a fondo da non risparmiare nessuno, nemmeno personalità così straordinarie da essere praticamente superumane:
Dal Vangelo secondo Matteo. La genealogia.
Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo.
Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli, Giuda generò Fares e Zara da Tamar, Fares generò Esròm, Esròm generò Aram, Aram generò Aminadàb, Aminadàb generò Naassòn, Naassòn generò Salmòn, Salmòn generò Booz da Racab, Booz generò Obed da Rut, Obed generò Iesse, Iesse generò il re Davide. [...] Dopo la deportazione in Babilonia, Ieconia generò Salatiel, Salatiel generò Zorobabèle, Zorobabèle generò Abiùd, Abiùd generò Elìacim, Elìacim generò Azor, Azor generò Sadoc, Sadoc generò Achim, Achim generò Eliùd, Eliùd generò Eleàzar, Eleàzar generò Mattan, Mattan generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo.
Questo passo del Vangelo di Matteo (al quale si dovrebbe affiancare un analogo paragrafo dal Vangelo di Luca) merita una particolare attenzione: a Matteo non basta dire che Gesù è figlio di Dio, poiché sente comunque il bisogno di offrire la prova di una più terrena garanzia genealogica, collocando Gesù in una linea di discendenza che lo renda socialmente riconoscibile. Ma il testo è ulteriormente paradossale. La discendenza di Gesù non solo è «umana», ma è tutta declinata al maschile, escludendo con ciò Maria che dovrebbe essere l’unica ad avere un reale legame diretto con Gesù. Per quale motivo? Perché il modello accolto da Matteo è come quello del ghènos greco, e ancor più della gens romana, che vuole che la discendenza passi per via agnatizia, cioè maschile, da padre in figlio. In epoca medievale questo modello genealogico non è l’unico, poiché è diffusa anche una costruzione genealogica strutturata per via cognatizia, ossia tale da comprendere sia la linea maschile che quella femminile. Ma alla fine la soluzione che si impone è quella agnatizia, sia nel campo delle nobiltà, sia nel campo delle autorità sovrane, sia nella trasmissione della qualità di cittadino (cioè di persona titolare dei diritti riconosciuti agli abitanti di una città).
È questa persistente ossessione genealogica che induce a pensare che i titoli di nobiltà (in senso proprio: possedere i privilegi di una famiglia regale o nobiliare; o in senso lato: possedere le qualità professionali o morali degli avi) passino attraverso la linea del sangue. È un modello talmente pervasivo che finisce per trasmettersi anche a tutti i sistemi politici che trovano fondamento nell’ideologia nazional-patriottica, e si riassume in questa semplice equazione: un tizio è italiano (o polacco, o francese, o tedesco, ecc.) perché è figlio di un italiano (o di un polacco, o di un francese, o di un tedesco, ecc.). Si tratta dello ius sanguinis, un dispositivo simbolico e giuridico che è contenuto in tutte le legislazioni contemporanee che regolano il diritto di cittadinanza. È vero che lo ius sanguinis non è l’unico criterio che include una persona all’interno della comunità nazionale (concorrono a questo scopo anche lo ius soli, lo ius connubii, la naturalizzazione); ma è il primo e il più importante dei criteri. D’altronde nell’Ottocento l’idea che esista un «sangue» nazionale è largamente diffusa: nell’Inno di Mameli si evoca «il sangue d’Italia e il sangue polacco»; De Amicis, nel suo Cuore, fa dire a uno dei suoi personaggi: «Io amo l’Italia [...] perché il sangue che mi scorre nelle vene è italiano»; e così via, nel senso che le testimonianze di questo genere, provenienti dall’Italia come da qualunque altro paese europeo, sono innumerevoli e dalla fine del XIX secolo trovano alimento in un razzismo dotato di basi scientifiche presunte.
Tutti questi ragionamenti riguardano i pilastri fondativi delle istituzioni pubbliche; cioè sviluppano l’assunto secondo il quale la discendenza genealogica (regia, nobiliare o nazionale, a seconda dei luoghi e dei periodi) è il marker primario per l’attribuzione dei diritti politici. Da questa considerazione ne discende un’altra, meno formalmente strutturata, ma egualmente largamente diffusa, secondo la quale le qualità etiche, o intellettuali, o professionali di una persona sono intuibili, pronosticabili, e quindi – si suppone – anche effettive, a partire dalla conoscenza della famiglia dalla quale quella persona proviene: e così nessuno si meraviglia se il figlio o la figlia di delinquenti a sua volta delinque; o se il figlio o la figlia di stimati professionisti a sua volta dà ottima prova professionale di sé. «Buon sangue non mente», per l’appunto, anche nella dimensione civile, oltre che in quella pubblica.
Ma è fondato tutto ciò? Già nel passato dell’Occidente molte voci hanno sollevato dubbi sulla ragionevolezza di una «nobiltà del sangue». In termini molto netti si esprime, per esempio, Girolamo Mutio nel suo Gentilhuomo (1571), quando scrive: «È da tener per vero, che non ci sia Re hoggi, il quale da vilissima stirpe non sia disceso, né ci sia huomo di contado, che avuti non habbia reali antecessori» (cit. da R. Bizzocchi, Genealogie incredibili, il Mulino, Bologna 1995, p. 97). E alla sua si uniscono molte altre voci, da Montaigne, a Voltaire, a infiniti altri.
E va bene. Autorevolissime opinioni, certo. Ma hanno ragione a sollevare simili dubbi?
Intanto ricerche recenti di antropologi o genetisti escludono piuttosto chiaramente che ci sia un qualche evidente collegamento tra l’appartenenza a una comunità politica nazionale e uno specifico codice genetico (si vedano lo Statement on Race espresso sin dal 1998 dalla American Anthropological Association, così come i risultati delle ricerche condotte da Luigi Luca Cavalli Sforza). Peraltro per molti – soprattutto dopo la fine della Seconda guerra mondiale e la piena divulgazione degli orrori razzisti compiuti dal nazismo o dal fascismo – il punto non è nemmeno più in questione; ma ricerche come quelle condotte da Cavalli Sforza danno un solido fondamento a una considerazione che ha già un suo assoluto valore etico.
In termini più generali si può comunque obiettare che provenire da una famiglia di successo sia – se non una vera e propria garanzia – almeno una promessa di successo. La questione può essere risolta osservando le dinamiche della mobilità sociale, concetto che descrive la possibilità che una persona ha di migliorare o peggiorare la propria condizione sociale e professionale rispetto a quella dei propri genitori. Se fosse vero che il «sangue» è determinante, il grado di mobilità sociale dovrebbe essere costante in qualunque tipo di periodo o di società, con variazioni minime o marginali, dovute a cause del tutto accidentali. Invece non è così. Società che dispongono di potenti programmi di welfare (scuola pubblica e gratuita, sistemi pubblici e gratuiti di assistenza alla maternità, ospedali e servizi sanitari pubblici e gratuiti, università finanziata dallo Stato) promuovono una mobilità sociale che è molto maggiore rispetto a quella che si riscontra in società nelle quali i servizi formativi, educativi e assistenziali sono privati e a pagamento: in questo secondo caso a incidere non è tanto il «buon sangue», quanto la diversa quantità di denaro a disposizione delle singole famiglie. Tutti i dati recenti, relativi agli Usa e all’Europa, mostrano che da quando sono state adottate le politiche neoliberiste che hanno smantellato o limitato le istituzioni del Welfare State, la mobilità sociale si è ridotta, e un numero crescente di giovani uomini e di giovani donne si sono ritrovati a percepire un reddito simile a quello percepito dai loro genitori (nel bene e nel male). Il che fa riflettere non solo sulla infondatezza dell’idea secondo la quale «buon sangue non mente», ma sulla profonda iniquità delle politiche neoliberiste che avvantaggiano pochi ricchi (sempre più ricchi) a danno dei molti poveri (sempre più poveri) (dati eloquenti al riguardo in David Harvey, Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore, Milano 2007; Tony Judt, Guasto è il mondo, Laterza, Roma-Bari 2011; Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2014).

Telmo Pievani
Buon sangue non mente (2)

Non è un proverbio, è l’angoscia di tutti i figli d’arte. Quella di aver dentro di sé una sostanza fluida e decisiva, trasmessa da un padre ingombrante, la quale non può mentire, poiché prima o poi uscirà allo scoperto e si manifesterà sotto forma di un determinato carattere o talento. Ce l’hai nel sangue, ragazzo. Sì, ma cosa esattamente? Nella fedeltà della discendenza si nasconde un paradosso: ci sembra vera, forse qualche volta è vera sul serio, ma se fosse vera del tutto non saremmo qui a parlarne. Ci saremmo accontentati di una selce scheggiata e di un bel tramonto africano senza poeti a cantarlo.
Nel sangue buono e giusto si concentrano così tanti si­gnificati inquietanti da far tremare, appunto, le vene e i polsi. Il buon sangue è stirpe atavica che divide, è faida, è setta, è rito mafioso di pungersi il dito. Tu sei sangue del mio sangue, non mi puoi tradire. Non ti puoi mischiare con il sangue degli altri, quello deve soltanto scorrere sulla terra, nemico e sconfitto. Il vincolo di sangue è il richiamo ancestrale verso uno di quei «piccoli noi» che ci fanno sentire al sicuro, separandoci da tutti gli «altri da noi» che fanno paura e chiudendoci dentro il nostro gruppo, la nostra famiglia, etnia, tifoseria. Come ben sanno gli storici dell’età contemporanea, è un pregiudizio identitario che si può costruire e alimentare a tavolino, insinuare nelle menti, tramutare in sospetto e odio silente, fino al punto che due comunità che hanno convissuto per secoli nella stessa vallata nel giro di qualche anno si sgozzano vicendevolmente nel nome del buon sangue che non mente.
La voce del sangue è naturalmente anche quella della razza, tanto che qualche arruffapopoli continua a sostenere l’esistenza di predisposizioni ereditarie tipiche di una presunta «razza umana» rispetto all’altra: i cinesi hanno il dono degli affari, i neri hanno la musica nel sangue, e così via sragionando. A costoro, di solito lievemente reazionari, non piace pensare di essere animali, eppure usano per i loro simili una terminologia che sarebbe più consona per allevatori di cavalli o di cani: sangue misto, bastardi, purosangue.
Ma il pregiudizio secondo cui buon sangue non mente presenta anche altri lati negativi. Se hai un talento ereditato, significa che non è propriamente tuo, lo hai ricevuto in consegna dal tuo albero di famiglia. Il sangue non è acqua, d’accordo, ma tra chi è ricco per discendenza e chi si è fatto da solo permane una certa differenza. Il problema è che, siccome il buon sangue mente, i figli di chi si è fatto da solo talvolta distruggono le aziende dei padri, e si ricomincia da capo. Se da una buona stirpe non potessero che nascere figli meravigliosi, nessuno dilapiderebbe le eredità paterne, non ci sarebbe cambiamento, né innovazione, né ascensori sociali. Se tale il padre tale il figlio, fine dell’evoluzione.
Il cattivo sangue non mente quando ti fanno l’esame antidoping e ti beccano. Ma se per sangue intendiamo, come fanno tutti oggi, l’oracolo del Dna, allora meglio non essere altrettanto fiduciosi. Ce l’hai nel Dna, ragazzo. Sì, ma cosa esattamente? Il materiale genetico contenuto nelle cellule del nostro sangue (e in tutte le altre) non è un destino già scritto, né una condanna, né una denominazione di origine controllata. È un insieme di potenzialità che entrano in relazione con un insieme di contingenze, di esperienze di vita, di incontri. Da questo gran miscuglio inestricabile qualche volta esce un carattere forte o un talento, che è pur sempre l’espressione di una diversità individuale, dato che non c’è un figlio uguale a un altro e questo è il combustibile dell’evoluzione.
Il buon sangue alias Dna viene da una mamma e da un papà, ricombinato ogni volta in modo diverso, da genitori che avevano genitori e genitori di genitori, provenienti da chissà quali angoli del mondo. L’evoluzione insegna infatti che, a guardar bene, in ogni posto sulla Terra c’è sempre qualcuno che è più autoctono di te. I veri europei erano i Neanderthal, noi siamo tutti figli di immigrati africani in Europa. Il buon sangue quindi, se lo prendi alla lettera, mente. Siamo migranti da due milioni di anni circa, da un sacco di tempo, passato a espanderci, spostarci, guardare al di là della collina, mischiarci, scontrarci, ucciderci e accoppiarci. Il buon sangue ci dice, se proprio deve dire qualcosa, che siamo tutti cugini stretti e tutti africani: se avessimo la macchina del tempo, basterebbe andare indietro qualche manciata di generazioni e troveremmo un avo africano in comune con qualsiasi altro essere umano sulla Terra.
Ma c’è dell’altro. Gli scienziati non volevano quasi crederci. Poi le prove empiriche sono diventate chiare: con ogni probabilità le popolazioni di Homo sapiens nelle loro peregrinazioni planetarie si sono ibridate (cioè si sono geneticamente mescolate attraverso accoppiamenti misti e proli ibride a loro volta fertili) con almeno altre due specie umane, i Neanderthal e gli enigmatici Denisoviani che abitavano...

Indice dei contenuti

  1. Nota degli editori
  2. Introduzionedi Giuseppe Antonelli
  3. Antonio Marras L’abito non fa il monaco
  4. Pietro Veronese Gli africani sono pigri
  5. Massimo Firpo L’arte non c’entra con la politica
  6. Veronica De Romanis L’austerità è imposta dalla Germania
  7. Massimo Ammaniti I bambini sono buoni
  8. Antonella Agnoli Le biblioteche sono luoghi noiosi
  9. Alberto Mario Banti Buon sangue non mente (1)
  10. Telmo Pievani Buon sangue non mente (2)
  11. Massimo Montanari Nella carbonara la cipolla non ci va
  12. Giandomenico Iannetti Usiamo solo il 10% del nostro cervello
  13. Carlo Petrini Chi si ferma è perduto
  14. Leonardo Piccione I ciclisti sono tutti dopati
  15. Enrico Vanzina Il cinema popolare non è arte
  16. Paola Basilone con Lorenzo d’Albergo Le nostre città sono sempre meno sicure
  17. Paolo Borgna I clandestini sono tutti delinquenti
  18. Andrea Boitani L’Italia va male perché è poco competitiva
  19. Luca Ricolfi e Caterina Guidoni La corruzione ci costa 60 miliardi l’anno
  20. Gaetano Azzariti La Costituzione deve stare al passo coi tempi
  21. Piero Bevilacqua La priorità è la crescita
  22. Ignazio Visco Con la cultura non si mangia
  23. Umberto Croppi La cultura è di sinistra
  24. Gregorio De Felice Gli italiani sono un popolo di cicale che affonda nei debiti
  25. Luciano Canfora La democrazia è il governo del popolo
  26. Sergio Romano La democrazia è la peggiore forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre
  27. Franco Farinelli Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare
  28. Eva Cantarella La donna è mobile
  29. Sebastiano Mauri Dio creò la donna dalla costola dell’uomo
  30. Patrizia Grieco Le donne non sanno guidare
  31. Loredana Lipperini Le donne sono migliori degli uomini
  32. Anna Foa Gli ebrei sono intelligenti
  33. Chiara Saraceno La famiglia è un valore
  34. Oscar Iarussi I festival culturali lasciano il tempo che trovano
  35. Fabrizio Valletti I gesuiti sono ipocriti
  36. Giulio Anselmi I giornali non contano più nulla
  37. Laura Cardinale Sei troppo giovane
  38. Giovanni Solimine I giovani non leggono
  39. Pietro Reichlin La globalizzazione accresce le disuguaglianze
  40. Salvatore Veca Le ideologie sono morte
  41. Giampiero Dalla Zuanna Gli immigrati ci rubano il lavoro
  42. Simona Colarizi L’Italia è un paese ingovernabile
  43. Francesco Daveri L’innovazione è un pranzo di gala
  44. Achille Mauri Gli insetti sono bestie schifose
  45. Carlotta Sami Siamo invasi dai rifugiati
  46. Franco Cardini L’islam è intollerante
  47. Filippo Focardi Italiani brava gente
  48. Igiaba Scego Gli italiani sono bianchi
  49. Paolo Fresu Il jazz è difficile
  50. Luigi Manconi e Stefano Anastasia La legge è uguale per tutti
  51. Nicola Lagioia La letteratura italiana è morta
  52. Paolo Di Paolo Leggere libri ci rende migliori
  53. Giuseppe Culicchia Per pubblicare un libro occorrono le conoscenze giuste
  54. Giuseppe Pignatone La mafia è invincibile
  55. Francesco Remotti Di mamma ce n’è una sola
  56. Chiara Valerio La matematica non è un’opinione
  57. Marco Onado Il mercato è razionale
  58. Luca Mercalli Non ci sono più le mezze stagioni
  59. Innocenzo Cipolletta In Italia c’è stato un miracolo economico
  60. Giovanni Bietti La musica classica va ascoltata in silenzio
  61. Gino Roncaglia Gli adolescenti sono nativi digitali
  62. Antonio Canu Per le tue vacanze, ecco qua un angolo di natura incontaminata
  63. Valerio Castronovo Il Nord ha colonizzato il Sud
  64. Enrico Giovannini I numeri parlano da soli
  65. Paola Concia Gli omosessuali sono sensibili
  66. Claudia de Lillo (alias Elasti) Mogli e buoi dei paesi tuoi
  67. Marcello Ticca Il pesce fa bene alla memoria perché contiene fosforo
  68. Piercamillo Davigo I politici sono tutti ladri
  69. Ilvo Diamanti Questi politici non ci rappresentano
  70. Corrado Augias Il pubblico ha sempre ragione
  71. Zygmunt Bauman Non c’è più religione
  72. Franco Bernabè La rete non ha padroni
  73. Gino Castaldo It’s only rock’n’roll
  74. Santino Spinelli I rom rubano i bambini
  75. Paolo Cornaglia-Ferraris La salute non ha prezzo
  76. Mariapia Veladiano La scuola italiana è fuori dalla realtà
  77. Giulio Giorello Noi del Sessantotto siamo gli unici ad aver provato a cambiare il mondo
  78. Andrea Carandini Signori si nasce
  79. Nando Pagnoncelli I sondaggi non ci prendono mai
  80. Gianfranco Viesti Il Sud vive alle spalle del Nord
  81. Rossella Orlandi Le tasse italiane sono le più alte d’Europa
  82. Elio De Capitani Il teatro, che noia!
  83. Maurizio Ferraris La tecnica ci aliena
  84. Francesco Antinucci La tecnologia guida il progresso
  85. Tinny Andreatta La televisione è superficiale
  86. Valerio Magrelli Una traduzione veramente fedele...
  87. Guido Barbujani Gli uomini sono tutti uguali
  88. Massimo Pandolfi L’uomo è cacciatore
  89. Rocco Pinto Il web uccide le librerie
  90. Gli autori