V.
Periferie inquiete
1. Gattopardi nella contea
Nella Sicilia sudorientale con l’abolizione della feudalità Modica aveva subito un forte declassamento delle funzioni urbane. Alla stessa stregua di Palermo, anche se in scala più ridotta, il crollo dell’ancien régime aveva ridimensionato il suo ruolo di capitale dell’omonima contea. Nel 1812 la città aveva perduto di colpo la Magna Curia con tre gradi di giudizio (privilegio uguale a quello di Palermo), il governatore e i maestri razionali del patrimonio, gli uffici del protonotaro e del protomedico, il presidio militare e l’autonomia del “caricatore” di grano di Pozzallo, in breve le giurisdizioni che ne avevano fatto la città guida di un vasto comprensorio. Nel 1813 con una Memoria a stampa il Consiglio civico rivendicò il diritto della città ad essere elevata a capovalle, non solo in virtù del suo antico rango di più popoloso stato feudale dell’isola ma pure per la ricchezza della sua agricoltura mercantile e per la presenza di un esteso ceto intellettuale di giuristi, filosofi e scienziati (dal cartesiano Tommaso Campailla all’astronomo Gianbattista Hodierna e alla prestigiosa “scuola medica”) che avevano dato lustro e fama al regno: «Modica ha diritto più di ogni altra città ad essere considerata capoluogo. Per qualunque altra si tratterebbe infatti di un acquisto interamente nuovo, mentre Modica è la sola che reclama per non perdere. Non sarebbe forse la peggiore delle ingiustizie spogliarla delle sue preminenze per vestirne un’altra? Perciò siamo fidenti che i rappresentanti della Nazione non le faranno il torto di obliarla e di farla cadere nello stato in cui si trova dopo secoli di prosperità sua e degli altri paesi che le fanno corona».
La promozione a sede di uno dei 23 distretti in cui era stata divisa la Sicilia ebbe tuttavia la breve durata del “triennio costituzionale”; poiché la successiva riforma amministrativa del 1817 riformulò le gerarchie territoriali dell’isola attraverso la creazione di sette “valli” con altrettanti capoluoghi. Modica ripropose la sua candidatura aggiornando la Memoria del 1813, che venne ripubblicata e presentata al luogotenente Naselli dopo un’affollata assemblea svoltasi il 27 maggio nella chiesa madre di S. Giorgio sotto la presidenza di Romualdo Lorefice marchese di Mortilla: «riguardo alla popolazione – si sottolineò – Modica gareggia con le principali città del Regno, e viene riconosciuto che dopo Palermo, Messina e Catania essa ha un maggior numero di abitanti e solo dietro a lei vengono Siracusa, Noto, Caltagirone, Girgenti, Trapani». Ma non la taglia demografica, non la ricchezza della sua agricoltura, e neppure lo splendore dei suoi palazzi e delle chiese barocche le valsero quel titolo tanto ambito, che invece il decreto reale dell’11 ottobre 1817 assegnò a Siracusa, né la situazione migliorò quando l’anno dopo entrò in vigore la nuova riforma giudiziaria: antica sede dei Tribunali della contea, la città venne privata del privilegio goduto sin dal 1362 ed ebbe la magra consolazione di ospitare soltanto il Giudicato di circondario. Al ridimensionamento politico ed istituzionale si sarebbero aggiunti come ulteriori elementi negativi l’amputazione territoriale decisa nel 1829 con l’erezione della “marina” di Pozzallo a comune autonomo e la drammatica alluvione del 1833 che provocò gravi danni al tessuto urbanistico ricostruito dopo il terremoto del 1693. A differenza di Palermo, tuttavia, l’élite modicana non si schierò per l’opzione separatista e restò fedele alla monarchia borbonica durante le vicende del 1820-1821. Un identico contesto di declino, ma due differenti progetti politici che meritano di essere analizzati alla luce dei caratteri originali così diversi e peculiari delle complesse realtà urbane dell’isola.
Per tutto il XVIII secolo la contea aveva mantenuto la forma giuridica di una piccola enclave spagnola governata con saggia liberalità dagli Enríquez Cabrera che avevano goduto anche sotto la “monarchia nazionale” dei Borboni di quell’ampia autonomia amministrativa e fiscale su cui si erano costruite le fortune dei patriziati locali di Modica, Ragusa, Scicli, Vittoria, Chiaramonte, Monterosso e degli altri paesi feudali (i marchesati di Spaccaforno e Giarratana, la contea di Comiso, il principato di Biscari) che facevano da corona alla più ampia giurisdizione modicana. Nel 1802 per mancanza di discendenza diretta cessò l’investitura feudale e la contea passò sotto il diretto controllo dello Stato, con un decennio d’anticipo rispetto alla definitiva abolizione dell’ancien régime. Per verificare le condizioni economiche e sociali re Ferdinando (allora a Palermo con la sua corte) nel 1808 ordinò un’accurata ispezione al Conservatore del Demanio (e futuro ministro) Donato Tommasi e all’abate Paolo Balsamo. I risultati di quella missione furono pubblicati nel Giornale di viaggio fatto in Sicilia e particolarmente nella Contea di Modica (1809), che rappresenta ancora oggi un’eccezionale testimonianza diretta sui “caratteri originali” del territorio ibleo. L’economista di Termini Imerese e futuro estensore della Costituzione del 1812 attribuì il dinamismo agromercantile di quest’area non solo alla «naturale feracità» del suolo, ma soprattutto «all’accorgimento e industria che si adoperano nel coltivarlo», tanto da dire che «le campagne di questa contea meritano di essere collocate fra le più doviziose di tutto il reame». Grano e carrube, vino e olio, lino e canapa, carne e formaggi alimentavano una produzione di qualità orientata all’esportazione dagli ex caricatoi di Pozzallo e Scoglitti, laddove gli ottimi pascoli naturali dell’altopiano avevano dato vita a una fiorente zootecnia e i terreni pianeggianti delle coste si erano specializzati nelle cultivar di agrumi, ortaggi e tabacco. Per Balsamo «la chiave d’oro» del territorio era data dall’assenza del latifondo e dalla diffusione delle piccole e medie aziende generate dall’enfiteusi: «due volte ho avuto il piacere di soggiornare in queste contrade e nelle conversazioni ho spesso inteso che i coltivatori sono più facoltosi dei proprietari e dei gentiluomini. E me ne sono rallegrato sommamente, perciocché ho riflettuto che i capitali stanno meglio, e sono più fruttiferi, nella prima classe di persone che nell’altra».
A far diventare gli ex vassalli dei conti spagnoli i nuovi notabili del Regno delle Due Sicilie ci pensò il Codice civile di stampo napoleonico introdotto nel 1819, che cancellò anche nell’isola istituti feudali come il fedecommesso e il maggiorascato, introducendo inoltre il moderno diritto di successione in base al quale i patrimoni nobiliari dovevano suddividersi tra tutti gli eredi diretti della famiglia. Un così profondo ricambio sociale sarebbe stato ulteriormente sollecitato dalla legislazione del 1824-1827 che trasformò le secolari “soggiogazioni” gravanti sulla proprietà feudale in normali crediti ipotecari rimborsabili con la vendita giudiziaria all’asta degli immobili. Il provvedimento si sarebbe rivelato una trappola micidiale per i più rinomati blasoni che furono costretti ad alienare gran parte dell’asse patrimoniale per soddisfare i creditori, i quali a loro volta potevano cedere ad altri i crediti vantati attraverso contratti di subcessione e transazioni finanziarie. All’entrata in vigore del nuovo Codice civile le ottanta famiglie aristocratiche più titolate della Sicilia avevano assommato debiti per circa seimilioni di onze (quasi tre miliardi di euro al valore attuale): ad esempio, i Pignatelli Aragona duchi di Terranova dovevano ai propri soggiogatari l’astronomica cifra di 630.000 onze, i principi di Butera 572.000, i conti di Modica 500.000. Le operazioni di liquidazione dei crediti ipotecari furono complicate dalle liti giudiziarie tra i coeredi e dallo scioglimento degli usi civici, ma tra le due rivoluzioni del 1820 e del 1848 furono divisi o venduti all’asta 140.000 ettari di terra, oltre ad un numero enorme di case, trappeti, mulini e censi che arricchirono altri nobili e soprattutto borghesi possidenti, professionisti, commercianti, gabelloti ed esponenti della middle class in ascesa sociale.
Anche nell’ex contea l’occasione era troppo ghiotta per non essere sfruttata dagli ex vassalli, vecchi gattopardi della piccola nobiltà provinciale e nuovi notabili che nel passato avevano prestato denaro ai conti in cambio di larghe enfiteusi oltre a compiere usurpazioni di terre ed immobili con la complicità dei funzionari dell’amministrazione comitale. Alla vigilia della rivoluzione il contesto locale appariva in grande fermento. Approfittando del carattere aristocratico della Costituzione siciliana del 1812 che aveva semplicemente trasformato il feudo in allodio, cioè in libera proprietà privata, Carlo Fitz James Stuart duca d’Alba e di Bervich come legittimo erede chiese la restituzione integrale dei beni incamerati dal Demanio sin dal 1802. La battaglia giudiziaria a Napoli fu vinta dal nobiluomo anglospagnolo, che nel 1816 rientrò in possesso del residuo patrimonio immobiliare e dei censi dovuti da migliaia di enfiteuti. Oltre ad essere stato assottigliato dalle precedenti alienazioni, il valore di questi beni però risultò fortemente scemato non solo per la cessazione delle giurisdizioni fiscali ma soprattutto per gli ingenti oneri passivi di antiche e recenti soggiogazioni e di cambiali sottoscritte dallo stesso duca d’Alba aduso a condurre una vita dispendiosa nella capitale del regno. Il Codice civile del 1819 aveva trasformato i debiti feudali in crediti ipotecari e occorreva procedere con urgenza allo smobilizzo del patrimonio appena retrocesso per saldare i creditori.
Nell’estate del 1820 le sorti della rivoluzione siciliana si incrociarono così con il grande “affare” della liquidazione della contea di Modica. Fra i creditori del duca d’Alba e dei suoi predecessori, infatti, figurava il gotha dell’aristocrazia palermitana e alcuni componenti della stessa Giunta, come il presidente Villafranca e i principi Moncada, Pantelleria, Linguaglossa, Campofranco, Del Bosco e lo stesso principe di Aci assassinato nelle tragiche giornate di luglio. Ad essi si affiancavano alcuni nomi di magistrati e alti funzionari nonché numerosi conventi, monasteri e opere pie che avevano investito le proprie rendite in quel fertile lembo meridionale dell’isola per sostenere i circuiti assistenziali della beneficenza pubblica e privata: i monasteri della Martorana, di S. Chiara, del SS. Salvatore e dell’Immacolata, il Reale albergo dei poveri, l’Ospedale civico, l’Opera Redenzione dei captivi, il convento dei teatini. Le preoccupazioni degli investitori palermitani erano motivate dalla considerazione che dell’enorme debito di 500.000 onze più della metà era dovuta ai banchieri Gnecco e Musso di Napoli, Samson di Roma e ai finanzieri Giustiniani e Spinola di Genova, cosicché nella “graduazione” dei creditori queste più grandi partite avrebbero avuto la precedenza sulle altre, col rischio di lasciare insoluti i crediti di minore entità. Nel 1820 si erano fatte insistenti le pressioni sul Ministero di Grazia e Giustizia e sullo stesso sovrano da parte degli Gnecco e dei Samson, dell’Ordine di Malta, di alcuni esponenti dell’aristocrazia rom...