1. Gli antefatti
Il mondo è pieno di bastardi di cui non si sa che lo sono, i quali ereditano le fortune o la miseria di coloro che non li hanno generati. Nessun uomo ha mai saputo se è il padre dei propri figli, nonostante le somiglianze.
j. marÃas, Tutte le anime
In caso di nascita da donna nubile, a Roma il padre non esiste. Il principio generale fissato dal diritto, e ascritto allo ius gentium, sancisce partus sequitur ventrem (Gaio I, 76): i nati da unioni non legittime seguono la condizione giuridica della madre.
Perché vi sia un padre servono le nozze1. In questo caso, l’uomo è ben più che semplicemente uno dei genitori2: è il princeps et caput familias, è la solida colonna dell’ordine pubblico e privato, il sacerdote, il giudice, il sovrano assoluto, detentore dei più sconfinati poteri sulla persona e sulle proprietà dei figli3, poteri che solo con il tempo verranno progressivamente mitigati. Oltre che assoluta, la patria potestas era illimitata nel tempo, poiché il raggiungimento della maggiore età , come è oggi intesa, non era contemplato4. Poteva così succedere che figli adulti, in possesso ad esempio della capacità politica, dipendessero economicamente dal padre, non avendo un patrimonio proprio.
Essendo il matrimonio la condizione indispensabile perché vi fosse un padre, la questione determinante fu quella di stabilire se la prole fosse nata o meno al suo interno. Secondo i giuristi romani, a questo fine era cruciale il momento del concepimento, individuato avvalendosi delle cognizioni fisiologiche dei Greci, e in particolare (come ricordano Ulpiano e Paolo) di Pitagora e Ippocrate. Si stabilisce così che la nascita debba avvenire in un periodo compreso tra i 182 giorni dall’inizio del matrimonio e i 300 dalla sua cessazione. Sebbene si conoscesse la durata ordinaria della gravidanza, era stato notato che potevano esserci parti ritardati, come era possibile che i neonati nascessero settimini già perfetti e vitali: ecco perché per la legittimità della prole viene fissato il criterio della nascita non anteriore a sei mesi dalla celebrazione del matrimonio e non posteriore al decimo mese dal suo scioglimento. È comunque data la possibilità di provare il contrario con qualsiasi mezzo.
Se il modello romano permarrà nei secoli, vi fu un istituto che decadde, lasciando però, simbolicamente, un’eco non marginale. Oltre alle indispensabili nozze, infatti, le fonti riferiscono della necessità di un atto formale di accettazione del nuovo nato nella famiglia, da parte dell’uomo. Si tratterebbe, cioè, di un’ulteriore condizione richiesta dal diritto romano: perché sia legittimo occorre non solo aver concepito il figlio all’interno del matrimonio, ma riconoscerlo pubblicamente come tale con un’apposita cerimonia.
Si tratta del tollere liberum: deposto il figlio ai piedi del marito, quest’ultimo lo sollevava da terra (poiché i figli nascono dalla madre terra) dinanzi a testimoni, manifestando così la volontà di riconoscerlo come proprio, di tenerlo con sé e di allevarlo. Del resto, anche linguisticamente, il termine «genuino» (utilizzato dal Seicento) deriva dal latino genu (ginocchio) perché, come spiegano i vocabolari della lingua italiana, «il padre riconosceva come suo il neonato, sollevandolo da terra e posandolo sulle sue ginocchia»5.
Tale atto è motivato da Theodor Mommsen con la circostanza che «nella coscienza del popolo romano era impressa profondamente l’intima persuasione che il fondamento della famiglia e la sua potestas sui figli fossero non tanto un fatto naturale, quanto una formale necessità e un dovere civico»6. Gli studiosi hanno visto in questa cerimonia la manifestazione della sovranità del marito, cui spettava il potere di attribuire o di non attribuire al neonato lo status di legittimità con tutte le conseguenze del caso7. Sebbene non manchi chi attribuisce a questa cerimonia solo una valenza simbolica8, possiamo dedurne che a Roma non si poteva qualificare il figlio come legittimo senza l’espresso assenso del pater familias.
Per questa ragione, lo storico del diritto Yan Thomas parla di un certo gioco di finzione, precisando che
non rientrava in questa struttura che un padre fosse realmente il genitore dei figli nati dalla sua sposa legittima; importava poco perfino che fosse fuori dalla possibilità di procrearli. [...] Il diritto romano progetta freddamente l’operazione con cui il marito di Lady Chatterley si procurò l’erede che era impotente a generare egli stesso. La presunzione di paternità a vantaggio del marito della madre attribuiva all’uomo, in tutti i casi, una discendenza legittima9.
Mutuando parametri attuali, del resto, già nella Roma repubblicana si praticava una specie di fecondazione eterologa, con donatore noto. Poiché sposarsi non dava all’uomo alcuna garanzia di discendenza, ecco che nella pragmatica Urbe si tentò di ottenere questo risultato scambiandosi le donne quando erano già incinte. A partire dagli ultimi anni della repubblica, infatti, il calo delle nascite era diventato un problema estremamente serio per l’élite, e ciò (probabilmente) indusse a concentrarsi su questa soluzione, né eccezionale né riprovata. Ce ne parlano in particolare Seneca (che, con qualche riserva, la considera un servizio tra amici) e Plutarco.
Sono molti i casi famosi, come quello di Marzia, oggetto di scambio tra Catone Uticense e Ortensio. Ricordato come marito esemplare, Marco Porcio Catone, conosciuto il grande desiderio del vecchio Ortensio di avere un figlio, e ottenuto l’assenso del suocero, fa sposare sua moglie Marzia, già incinta, con l’amico, permettendogli così di avere l’erede tanto anelato (del resto, a chiusura del cerchio, alla morte di Ortensio Marzia risposerà Catone, portando con sé il nuovo nato e un ricco patrimonio). Va poi ricordata Livia che nel 38 a.C., già sposata con Tiberio Claudio Nerone e madre di Tiberio, viene data in moglie a Ottaviano mentre aspetta Druso. Nell’89 a.C. era già stata la volta di Emilia, che durante la gravidanza viene costretta a divorziare da suo marito e a sposare Pompeo. A obbligarla è Silla, che si è sempre comportato con lei come un padre. Un elemento decisivo, questo: la donna in realtà viene ceduta come nuova moglie non dal marito, ma dal padre. La presenza sulla scena dell’ex coniuge quando la sposa è incinta (Tiberio Claudio Nerone partecipò al matrimonio tra Livia e Ottaviano, come Catone non si era perso quello tra Marzia e Ortensio) acquista solo un significato sociale, per quanto importante. È infatti la riprova del suo consenso, la dimostrazione dell’accordo, la consacrazione dell’alleanza tra le famiglie. Inutile sottolineare la pluralità di interessi che la cessione di una donna incinta andava a soddisfare: la pratica comportava infatti vantaggi per i mariti, per le famiglie coinvolte e per lo Stato, mentre del tutto trascurabile era la volontà della donna, essendo pacifico che altri decidessero e disponessero per lei.
Se dunque a Roma la paternità non dipende dalla procreazione, ma piuttosto dal diritto e dalla volontà dell’uomo, questi (suffragato dalla legge) può formalmente rifiutare la prole: «la paternità era un diritto del padre, non un diritto del figlio»10. Come già in Grecia, infatti, a Roma il marito poteva rifiutarsi di allevare il bambino partorito dalla propria consorte, poteva decidere di eliminare i neonati malformati, poteva respingere i figli dalla propria casa ed esporli, appena nati, alla columna lactaria, perché qualcuno li raccogliesse e li allevasse.
Di questo potere di rifiuto è probabile che si fosse fatto un uso troppo disinvolto, se nel corso della lunga storia della città vennero emanate norme che, in qualche modo, tentarono di porvi un argine. Dionigi di Alicarnasso, ad esempio, dà notizia di una legge romulea che avrebbe imposto ai cittadini il dovere di educare tutti i figli maschi e le primogenite, vietando l’uccisione dei figli minori di 3 anni, salvo che si fosse trattato di parto incompleto o mostruoso (il che doveva essere accertato da cinque vicini prossimi)11. Sulla stessa linea, molti secoli dopo, e precisamente sotto Adriano, venne emanato un senatoconsulto che confermava il divieto per il padre, in assenza di giusti motivi, di non riconoscere i figli nati durante il matrimonio, purché la nascita non fosse avvenuta prima del sesto mese dalle nozze. Con una legge del 315, invece, Costantino ordinò che, laddove i genitori fossero assolutamente mancanti di mezzi, i figli venissero allevati ed educati a spese del patrimonio personale del principe: è evidente la volontà di contrastare le esposizioni dovute alla miseria. L’imperatore dispose inoltre che in tutti i municipi venissero pubblicati bandi per ricondurre i padri ai doveri di pietà .
La riprova di quanto la figura del padre fosse centrale nella società romana è data dal fatto che il parricidio rimase a lungo il solo delitto di sangue la cui punizione venisse eseguita secondo un complesso rituale. Era la conferma che non esisteva delitto più terribile. La procedura prevedeva che il condannato a morte calzasse un paio di zoccoli di legno, avesse il capo coperto da un cappuccio di pelle di lupo e fosse frustato con verghe di colore rosso sangue. Dopo la fustigazione, il parricida veniva rinchiuso in un sacco di cuoio a tenuta stagna insieme a un cane, un gallo, una vipera e una scimmia. Il sacco veniva quindi buttato in mare, o nel corso d’acqua più vicino12. Gli animali avevano un preciso significato simbolico: il cane era considerato una bestia immonda e vile mentre, secondo la letteratura scientifica antica, i piccoli delle vipere divoravano la madre subito dopo la nascita, e il gallo uccideva le serpi. La scimmia era poi la caricatura bestiale dell’uomo. Inoltre, il cappuccio di pelle di lupo indicava l’esclusione del parricida dalla società umana e civile. Gli zoccoli, separando il reo dal suolo, gli impedivano di contaminare la terra. Le verghe rosso sangue appartenevano alla Cornus sanguinea, una pianta considerata di cattivo augurio. Il sacco di cuoio, infine, proteggeva aria, acqua e terra dal contatto con l’immondo parricida.
Accanto al diritto romano, anche il cristianesimo ha svolto un ruolo molto importante nella storia della paternità , concorrendo a definire la figura del padre sotto diversi aspetti. Innanzitutto, in un contesto in cui la paternità era un insieme di poteri e diritti sulla prole, e le divinità , per il loro piacere, prendevano agli uomini quanto avevano di più bello (numerosi gli esempi offerti dalla mitologia), il Dio cristiano è un padre amorevole, che si prende cura dei figli. La novità , da un punto di vista simbolico, è deflagrante; se sommata alla responsabilità nei confronti del figlio, enucleabile anche in termini di doveri, il quadro è realmente rivoluzionario. Dal padre-padrone si passa a un padre affettuoso e misericordioso.
Allo stesso tempo, nel cristianesimo assume grande rilievo u...