La seconda impresa: l’istituzione del Foro e dei culti di Vesta e di Giove Feretrio
Tra il Palatino e il Campidoglio era situata una valle, continuamente inondata dal Tevere e pertanto inabitabile. La via Salaria, che portava il sale dal mare all’approdo sul Tevere e poi verso l’interno, si incuneava in questa valle per poi proseguire salendo sul Quirinale; qui, dove la via del sale incrociava il percorso tra Palatino e Velia, sarebbe sorto il Comizio, il luogo dove le curie si riunivano in assemblea. Questa valle, dunque, essendo frequentata perché di passaggio, e fuori dalle mura ma vicina ad esse, rappresentava un luogo d’incontro ideale per le comunità che facevano capo a Roma. Si decise così di rendere agibile quest’area sottraendola alle continue inondazioni, rialzando il suolo di almeno due metri attraverso un riempimento di terra.
Fu così che nacque il Foro, una piazza che diventerà per Roma quello che l’agorà sarà per Atene. E accanto alla piazza vera e propria, in un luogo un po’ rilevato alle pendici settentrionali del Palatino, ma subito fuori dalle mura, fu eretto il santuario di Vesta, parte integrante del complesso del Foro.
Vesta era divinità del fuoco, il fuoco domestico della città intesa come casa di tutti i Romani. Altra divinità del fuoco era Vulcano, dio del fuoco della guerra, anch’esso venerato nel Foro in un luogo di culto chiamato Volcanal. Secondo gli storici il culto di Vesta non esisteva prima della fine del VII secolo a.C., e quindi ne hanno concluso che anche Roma, in quanto città, sarebbe nata solo più tardi, alla fine del VII secolo a.C. In realtà, questa convinzione degli storici è legata al fatto che il santuario di Vesta era fino ad oggi poco conosciuto, anzi era quasi totalmente ignoto. Io e i miei colleghi archeologi, però, dopo aver scoperto le mura di epoca romulea, abbiamo riportato alla luce il santuario. Cosa abbiamo trovato? Prima di tutto una piccola capanna rettangolare, costruita subito dopo l’erezione delle mura, con tracce di un recinto antistante (fig. 8). La capannetta aveva di fronte un templum augurale, come quello usato da Romolo per prendere gli auspici, ma stavolta rivolto a sud e utile per vedere non uccelli bensì fulmini; serviva per passare la notte e aspettare l’alba, perché era quello il momento magico in cui i segni si manifestavano. Il segno atteso era ancora una volta la benedizione divina, l’autorizzazione a costruire in quel luogo la casa del re con i culti regi di Marte, Ops e dei Lari, il tempio di Vesta e la dimora delle sue sacerdotesse, le vestali.

Fig. 8. Capannetta con templum augurale per prendere gli auspici, costruita nel santuario di Vesta (R. Merlo).
Il poeta Ovidio, nella sua opera intitolata Fasti, descrive una scena che ci aiuta a capire: Numa Pompilio, secondo re di Roma – ma potrebbe trattarsi anche di Romolo –, il 1° marzo se ne sta seduto su un trono di legno d’acero, nell’atteggiamento di chi è in attesa di scrutare nel cielo la volontà degli dèi. È a capo coperto. Prega. Scorge un primo chiarore, ode tre tuoni. Arriva Febo, il Sole, e cadono tre fulmini, nella parte favorevole del templum. Tutti i cittadini di Roma, che gli stanno intorno, sollevano lo sguardo verso il cielo, e vedono cadere uno scudo dalla forma particolare. È l’ancile, il talismano principale di Roma, che sarà accolto nella dimora regia, costruita di lì a poco, e che verrà replicato in undici copie identiche perché il vero ancile si confondesse con gli altri e fosse meno facile rubarlo. Poi Numa compie un sacrificio, per interrogare gli dèi sul significato di quell’auspicio.
Si poteva trasportare la casa del re nel fondovalle? Si poteva costruire il santuario di Vesta? Giunsero i segni favorevoli. Il terreno fu ripulito con un’aratura sacra e si intraprese la costruzione dei vari edifici racchiusi nel santuario.
Il racconto di Ovidio si riferisce a Numa perché gli antichi erano incerti se attribuire la fondazione del culto di Vesta a lui oppure a Romolo. Ma noi archeologi, che abbiamo scavato questi edifici, possiamo affermare che essi risalgono piuttosto all’età di Romolo, in quanto si possono datare tra il 775 e il 750 a.C., dunque lo stesso periodo in cui furono erette le mura, lo stesso periodo in cui Romolo fondò Roma. Si potrebbe obiettare che sul Palatino si trovava già la dimora regia, la casa Romuli. Ma è proprio questo l’aspetto affascinante della nostra storia: come ad Atene Teseo scese dall’Acropoli e andò a vivere nella città bassa, cioè nell’agorà, così il re di Roma scese dalla sua cittadella palatina, dov’era ben protetto, e andò a vivere in una zona bassa e pericolosa, per “incontrare” quella che sarà la sua invenzione: la politica.
Romolo, o Numa secondo altri, venne dunque ad abitare ai margini del Foro, protetto da una serie di divinità: Vesta, i Lari, Marte e Ops. Vesta era il focolare di tutti, il culto rappresentativo della città, che in Grecia corrispondeva a quello di Hestia. Le vestali avevano il compito di accudire questo focolare, di fare in modo che non si spegnesse mai, e si trovavano sotto il controllo, la cosiddetta patria potestas, del re.
Noi archeologi abbiamo provato l’enorme emozione di scoprire la casa del re. Lì dove oggi corre la strada che attraversa l’area archeologica, dall’arco di Tito al Foro, un tempo c’era una valle tra due monti, il Palatino e la Velia; entro questa valle scorreva un ruscello, dapprima trasformato in un fossato, poi a poco a poco convogliato in una grande fognatura; una strada correva anche allora a lato del fossato: era la prima Sacra via. Sul lato meridionale di questa via, sopra alla capannetta antistante il templum, fu edificata la prima domus di Roma, un palazzetto costruito anch’esso come una capanna, ma che per l’epoca appare veramente sontuoso, una reggia (fig. 9). La pianta che abbiamo potuto ricostruire basandoci sui resti che i nostri scavi hanno portato alla luce non trova confronti coevi, né nel Lazio né in Etruria e nemmeno in Grecia. L’edificio, di forma rettangolare, misurava 85 mq circa e apriva verso sud dove si estendeva un ampio cortile con recinto, aperto a sua volta su una strada interna al santuario. La capanna sulla cima del Palatino, la casa Romuli, misurava invece 13 mq; se sommiamo a questi i 46 mq del vicino edificio, forse il luogo di culto di Marte e Ops, raggiungiamo una misura di 59 mq per l’intero complesso regio. La dimora sulla cima del monte, però, possedeva una planimetria tipica per quei tempi, mentre l’edificio costruito alle pendici indica una volontà di innovazione; rappresenta un prototipo, un’anticipazione di forme e dimensioni che troveremo in Etruria uno o due secoli dopo. Nell’osservare questa casa, si coglie anche un desiderio di rappresentazione del prestigio e del potere del proprietario attraverso l’architettura, la tecnica edilizia e le dimensioni dei vari allestimenti, per non parlare del mobilio, delle decorazioni e delle pregiate suppellettili che i nostri scavi hanno messo in luce.

Fig. 9. La casa del re nel santuario di Vesta (R. Merlo).
La casa disponeva di una grande sala centrale, alla quale si accedeva dal cortile antistante tramite un largo ingresso sorretto da due colonne di legno (fig. 10); all’interno, un bancone correva lungo le pareti che possiamo immaginare decorate dai dodici scudi (ancilia) e forse dalle aste sacre a Marte. Era forse questo il sacrario regio di Marte e Ops, ovvero il luogo di culto dedicato a queste due divinità protettrici del re e della sua casa. Era qui inoltre che potevano svolgersi i banchetti del re e dei suoi illustri ospiti, mentre si servivano cibi in vasellame pregiato, anche di provenienza greca, e si sentivano narrare carmina convivalia, cioè storie che allietavano i commensali e che forse avevano per soggetto proprio la saga del fondatore, la leggenda di Romolo. È forse qui, allora, nella sala dei banchetti di questa sontuosa dimora, alla metà dell’VIII secolo a.C., che nacque il mito di Roma destinato ad una millenaria tradizione.

Fig. 10. La sala del banchetto nella casa del re, decorata con i dodici scudi e le aste sacre a Marte (R. Merlo).
Ai lati della sala centrale c’erano altre stanze, dove si dormiva e si soggiornava, e il focolare coperto. Il tetto di rami fittamente intrecciati era sostenuto sul fronte da pali di legno disposti a breve distanza dalle pareti come a creare un piccolo portico, ma con la principale funzione di proteggere le pareti stesse dalla pioggia che avrebbe potuto danneggiare i muri che erano di argilla, mescolata con paglia e altri vegetali, e pressata. A lato della dimora, il recinto presentava un’apertura, un passaggio verso un secondo cortile che ospitava un focolare all’aperto: il luogo, in epoca successiva, sarà consacrato ai Lari, il che ci ha portato a pensare che già in quest’epoca i poveri allestimenti da noi scoperti – pietre disposte in circolo e tracce di bruciato – fossero funzionali al loro culto.
Come per le mura, anche qui abbiamo rinvenuto le tracce di un sacrificio umano a sancire la costruzione di una struttura, in questo caso un edificio dal particolare valore sacrale. Una bambina fu sacrificata e sepolta con il suo corredo entro un grande vaso depositato in una fossa scavata sotto un muro della casa, in un angolo del cortile. Un rito compiuto per ingraziarsi la benevolenza degli dèi e che abbiamo scoperto essersi ripetuto almeno altre due volte, in occasione di ulteriori interventi costruttivi. Anche...
